Schlißlich fand ich am dunkelroten Veltliner einen Halt. Er schmeckte mir beim ersten Glas herb und erregend, dann verschleierte er mir die Gedanken bis zu einer stillen, stetigen Träumerei, und dann begann er zu zaubern, zu schaffen, selber zu dichten. Dann sah ich alle Landschaften, die mir je gefallen hatten, in köstlichen Beleuchtungen mich umgeben, und ich selbst wanderte darin, sang, träumte und fühlte ein erhöhtes, warmes Leben in mir kreisen. Und es endete mit einer überaus angenehmen Traurigkeit, als hörte ich Volkslieder geigen und als wüßte ich irgendwo ein großes Glück, dem ich vorbeigewandert wäre und das ich versäumt hätte.
(Hermann Hesse, Peter Camenzind, capitolo 4, 1904)
Infine mi attaccai al rosso vino di Valtellina: al primo bicchiere aveva un sapore aspro ed eccitante, poi mi velava il pensiero fino a un sogno continuo, e allora incominciavo a far magie, a creare, a poetare. Vedevo intorno a me, sotto luci deliziose, tutti i paesaggi che mi erano piaciuti, e io stesso vi camminavo cantando e sognando, e dentro sentivo scorrermi una vita calda e superiore. Terminava infine con una tristezza piacevolissima, e mi pareva di sentire canzoni popolari accompagnate da violini, e di conoscere qualche grande felicità accanto alla quale ero passato senza afferrarla.
(Hermann Hesse, Peter Camenzind, traduzione di Ervino Pocar, edizione italiana, 1980).
La vitivinicoltura valtellinese:condizioni ambientali e vicende storiche
Il termine tedesco “Veltliner” è l’aggettivo derivante da Valtellina, ma le popolazioni germaniche stanziate all’interno o a ridosso delle Alpi, per Veltliner intendono il Valtellina, il vino di Valtellina, che da secoli è presente sulle loro tavole. Già nel Cinquecento, in effetti, tale circostanza era testimoniata da documenti ufficiali, come le tariffe daziarie di Innsbruck del 1500 (“Von schwäbischen und Veltliner wine, von einer Urn 2 vierer”)1, ma anche da importanti autori, come il tedesco Sebastian Münster (che nella Cosmographia universalis del 1544 scrive del “vinum generosum, quod vulgo Veltlin vocant”)2 o lo svizzero Johannes Strumpf (che, più prosaicamente, nella Chronick del 1548, annota che quel “güte und Edle weyn” è detto così dai Tedeschi dal nome della terra che lo produce: “von den Teutschen dem land nach genennt Veltlyner”)3. Parrebbe quasi che il Valtellina sia considerato, in quest’area culturale ed economica, il vino per eccellenza: tanto che il bianco dell’austriaco Wachau, tratto dalle uve a bacca bianca del vitigno Grüner Veltliner (o Grünmuskateller, noto in Austria e Germania dal s. XVI: benché non sia in questione una derivazione di tale vitigno da quelli valtellinesi, un richiamo ad essi sembra innegabile, fors’anche per contrapposizione – grün e non rot come quelli), viene talora pubblicizzato mediante un’ode di Conrad Ferdinand Meyer (1879) dal titolo “Die Veltlinertraube” (“Il grappolo di Valtellina”), in cui si celebra il “Purpurne Veltlinertraube / Kochend in der Sonne Schein” (“purpureo grappolo di Valtellina che cuoce nello splendore del sole”, e oscilla sulla pergola “dunkelpurpurprangend”, sfoggiando il suo colore porpora scura, certo incompatibile col Grünmuskateller)4.
L’associazione del nome di Valtellina al vino, in effetti, è una costante nel tempo, anche in assenza di volontà propagandistiche, essendo divenuta un topos geografico e letterario plurisecolare.
Ad esempio, il cronista milanese del primi Cinquecento Camillo Ghilini scriveva nella particularis Descriptio della Valtellina, che “in Italia hactenus præter vini famam nihil habuit” (e cioè che essa, in Italia, non aveva fama se non per il vino) avrebbe tratto celebrità dal passaggio dell’imperatore Massimiliano durante il conflitto tra Ludovico Sforza e i Francesi5.
Considerazioni che riconducono a circostanze reali, quali il crescente rilievo assunto dalla vitivinicoltura nell’economia e nell’organizzazione territoriale e paesaggistica della regione dall’Alto Medioevo fino ad oggi, secondo un processo che qui si delinea a grandi linee.
Le condizioni ambientali sono state fondamentali per la nascita e lo sviluppo di una viticoltura di qualità in Valtellina: la valle dell’Adda (o Vallis Tellina, da Telium, oggi Teglio, il centro principale nell’Alto Medioevo, posto su un terrazzo strutturale a m 860), ha infatti orientamento longitudinale; dal lago di Como sale verso il gruppo dell’Ortles-Cevedale (che culmina coi m 3904 del M. Scorluzzo), con andamento meridiano e lieve aumento altimetrico per circa 55 km (dai 200 m del lago ai 255 di Morbegno e ai 298 di Sondrio); piega poi in senso SO-NE per altri 26 km (coi centri di Tirano, m 450, e Grosio, m 653, fino a Sondalo, m 882), prendendo infine andamento nettamente S-N, per altri 25 km (con Bormio a m 1217).
Il ripido versante delle Alpi Retiche prospetta dunque a S o SE per un lungo tratto, ricevendo un’ottima insolazione durante tutto l’arco dell’anno, e immagazzinando il calore solare nelle sue rocce brune. L’alta catena retica, che si mantiene costantemente sopra i 3000 m (con le emergenze dei gruppi del Badile – Cengalo – Cima di Castello, m 3378, Disgrazia, m 3678, Bernina, m 4050, Pizzo Scalino, m 3323, Cima de’ Piazzi, m 3439) protegge il versante dai venti settentrionali, favorendo un microclima temperato l’inverno e caldo-asciutto l’estate, particolarmente adatto alla viticoltura. Il versante opposto (Alpi Orobie), invece, è ombroso, umido, nevoso: del tutto sfavorevole alla vite, ne ospita soltanto qualche coltura in alcune località esposte a S-O.
La morfologia del versante retico è però molto aspra, con pochi terrazzi strutturali (il maggiore è quello di Teglio), scarsi depositi morenici al piede dei versanti e ampie conoidi di deiezione, i primi terreni che abbiano ospitato, storicamente, la coltura della vite, anche sul lato vallivo a bacìo.
Le vicende di questa coltura, dunque, si sono dovute confrontare con un ambiente climaticamente favorevole alla coltura ma morfologicamente ostile alla coltivazione: all’asprezza delle forme si è dunque rimediato, nel corso dei secoli, con la realizzazione di ciclopici sistemi di terrazzamento artificiale, che sono divenuti il vero marchio territoriale della viticoltura valtellinese.
O, almeno, ciò che lo costituisce ai nostri occhi di osservatori del XXI secolo.
Il terrazzamento artificiale del Versante Retico a fini viticoli
Il terrazzamento artificiale dei terreni per ottenere un ampliamento della superficie agraria e aree più facilmente lavorabili è pratica comune in tutti i territori montani densamente popolati, certo in ambiti territoriali ristretti e sfruttati in maniera intensiva, mentre il resto del territorio (boschi, pascoli, incolti) è usato estensivamente; peraltro, i terrazzamenti a fini viticoli rivestono, pur in tale comunanza di motivazioni e pratiche, caratteri del tutto peculiari.
La specificità dei terrazzamenti artificiali viticoli del Versante Retico valtellinese, infatti, risiede nella loro espansione areale, continuità territoriale, estensione altimetrica, intensità costruttiva, antichità cronologica, durata temporale: tutti caratteri storicamente accertati che si sostanziano in una quantità e qualità dei manufatti tale da costituire un unicum nell’intero sistema alpino6. Non ci soffermeremo su questi dati perché altri, in questo stesso numero della rivista, se ne occupano ex professo. Ci limiteremo, invece, ad alcune considerazioni generali e a più precisi riferimenti geostorici e letterari.
La costruzione del terreno agrario a fini viticoli appare, allora, un carattere fondante non solo del paesaggio del Versante Retico, ma dell’intera economia e società valtellinesi, essendo stato un potente fattore di auto-costruzione della società stessa, condizionandone formazione e peculiarità, e dunque le strutture portanti. La realizzazione dei terrazzamenti viticoli, infatti, ha prodotto la totale artefazione delle basse pendici del Versante Retico; inoltre, la sistemazione artificiale del suolo da parte dei coltivatori ha reso intensamente produttivo tale territorio, generando uno scarto tra valore naturale dei suoli (in molti casi pressoché nullo, essendo nuda roccia) e loro capacità produttiva, e dunque la redditività economica del sistema.
In effetti, le pratiche agronomiche di costruzione e uso dei terrazzamenti viticoli sono state essenziali per la formazione e l’esistenza della stessa società valtellinese, imprimendole speciali caratteri. L’importanza dei terrazzamenti nel sistema produttivo e nel ciclo agrario annuale è stata, da tempo immemorabile, alla base dell’organizzazione economica e sociale locale, connettendone tutte le componenti: i coltivatori, impegnati nella realizzazione materiale degli artefatti territoriali con forme di cospicuo auto-sfruttamento nel loro continuo e faticoso uso agrario; i proprietari, la cui ricchezza e benessere dipendevano dalle rendite fondiarie, e dunque, sostanzialmente, dalla sovra-produzione ottenuta su terreni poveri e scarsi (alla cui valorizzazione poco o nulla contribuiscono in modo diretto) e dalla commercializzazione del prodotto finito; i pochi professionisti (notai, medici, legulei), artigiani e artisti (spesso poco legati alla terra perché forestieri) traevano i loro guadagni dalla ricchezza derivata dalla vitivinicoltura messa in circolazione dai proprietari fondiari per soddisfare la propria domanda di beni e servizi.
Tutte le espressioni della società valtellinese, a partire dal Medioevo, sono legate a doppio filo alla viticoltura e poi al fenomeno ciclopico del terrazzamento artificiale: da quelle sociali (i proprietari terrieri, al vertice della scala sociale, concedono ai coltivatori il terreno a livello, un contratto di enfiteusi perpetua che dà ai contadini la sensazione di essere proprietari del fondo e li spinge a forme estreme di auto-sfruttamento, come quelle necessarie per mettere a coltura i ripidi versanti rocciosi)7, alle agronomiche (tipologie colturali, sistemi produttivi, cicli ergonomici); dalle manifestazioni di “cultura materiale” di matrice contadina (attrezzi del lavoro, dimora, arredo, edifici utilitari collettivi e individuali come i torchi comunitari), alle infrastrutture (sistemi della mobilità viaria e per il controllo delle acque), all’edilizia civile e religiosa, con le relative espressioni artistiche e culturali. Dalle difficili condizioni di vita degli agricoltori al benessere dei proprietari, tutto è dipeso, fino a un passato recente, dal plusvalore che solo il terrazzamento artificiale di ambienti morfologicamente ostili consentiva all’agricoltura locale tramite la coltivazione della vite e la produzione di vini di qualità. Tutto ciò non si sarebbe potuto conseguire con differenti sistemi di preparazione dei terreni agrari e con diverse produzioni agricole.
La coltivazione della vite, la produzione del vino e il suo commercio a largo raggio sono stati la chiave di volta dell’intera vita (sociale, economica, culturale, territoriale) di una parte rilevante della Valtellina: effetti che si manifestano per il “lungo periodo” di un millennio, da quando la coltura si impianta stabilmente, progressivamente cresce e acquisisce fondamentale importanza soprattutto nel XV secolo, quando matura una filiera economica (coltura della vite - vinificazione - commercio del vino) che dominerà la vita locale per più di 500 anni.
Amenità e produttività della Valtellina, un topos letterario di lungo corso
Se questa è la sintesi delle vicende storiche (economiche, sociali, territoriali) della vitivinicoltura valtellinese, non pochi sono i problemi per l’acquisizione di informazioni concrete su di essa per quanto riguarda l’età pre-statistica (con l’importante eccezione, come vedremo, dell’estimo del 1531, che rimarrà senza paragoni fino al XIX secolo), così che il ricorso a fonti descrittive, sia storico-scientifiche che artistico-letterarie, sarà indispensabile per farne un quadro, se non esaustivo, almeno soddisfacente.
La Valtellina è dunque vista e descritta come una regione ubertosa in cui fioriscono attività agrarie diverse, in specie la viticoltura e l’allevamento; già nel XII secolo il cosiddetto Anonimo Cumano, che narra la drammatica guerra decennale fra Milano e Como (1118-1127), così descrive la valle:
Vallis erat formosa satis, nimis apta colonis, / moribus ornata, est vallis Tellina vocata. /
Arboris est illic vitum generosa propago, / fertilis est frugum, satis est ibi copia lactis, /
castaneaeque multaeque, nuces ibi sunt quoque plures. / Somnia sed faciunt ibi plura papavera nata8.
Scarno, ma in linea con questo, è il più tardo commento di Leonardo da Vinci, che visita questi territori alla fine del s. XV, in veste di ingegnere militare (“Valtolina come detto valle circumdata d’alti e terribili monti. Fa vini potentissimi e assai e fa tanto bestiame che da’ paesani è concluso nascervi più latte che vino. […] In questo paese ognuno può vendere pane e vino, e ‘l vino vale al più un soldo il bocale”)9, mentre l’umanista Francesco Negri, ex-frate rifugiato per motivi religiosi a Chiavenna, nel poemetto Rhetia (1547), così parla dell’Adda: “Celer ille tuos præterluit agros/ Volturena, simul Baccho Cererique dicatos”10.
Del resto, ancora alla fine del Cinquecento, nelle Relationi universali di Giovanni Botero la Valtellina è descritta come “una delle migliori valli d’Europa, piena di grani, di bestiami, e di vini nobilissimi, di Castelli e Terre grosse”11.
Dunque, il vino era divenuto il prodotto principe dell’agricoltura valligiana già alla fine del Quattrocento: per il funzionario milanese Tristano Calco, che descrive il percorso del corteo nuziale di Bianca Maria Sforza che andava in sposa all’imperatore Massimiliano I (1494), là dove inizia il Lario “versa le sue acque la Valtellina, uno degli angoli fra i più felici di tutta Italia per la generosità dei vini”. Sondrio fu “il successivo luogo di sosta per la prodiga generosità dei fratelli Giovanni e Castellino Beccaria: presso i quali si trovarono sia vini vecchi di cinquant’anni, che anche un aceto dolce: ne fu preso un carico, non solo per condire i cibi, ma anche per i profumi e per usi medici”. Inoltre, per evitare il continuo e fastidiosissimo attraversamento dell’Adda, si presero “nuove strade selciate attraverso vigneti e dolci pendii”12.
L’eccellenza del vino di Valtellina è un fatto ormai acquisito nel s. XVI, quando alcuni letterati la consacrano nelle loro opere: ad esempio, Matteo M. Bandello, ricordando un soggiorno ai Bagni di Masino in Valtellina negli anni ’20 del Cinquecento, parla così della viticoltura della valle e della commercializzazione dei suoi prodotti: “E ben che tutta la valle faccia ottimi vini, nondimeno la costa di Tragona [Traona], che è sotto Caspano, gli genera di tutta eccellenza. Quivi tutto il dí si vedono grigioni e svizzeri, che vengono a comprare del vino”13.
Più originale e scanzonata è la presentazione degli stessi vini da parte di Ortensio Lando, lo stravagante autore del Commentario delle più notabili, & mostruose cose d’Italia (1553): il preteso viaggiatore “arameo” (un estroso precursore degli Usbek e Rica delle Lettres persanes di Montesquieu), giunto in Valtellina, ne apprezza così – iperbolicamente – i vini: “Or qui bevei vino dolcissimo e insieme piccante e il quale, non nuotando nel stomaco, secondo la proprietà de’ vini dolci, ma cercando tutti i meati del corpo, miracolosamente conforta chiunque ne beve. Quivi sono vini stomatici, odoriferi, claretti, tondi, raspanti e mordenti. Essendo in Tilio, al presente detto Teio, donde ne ebbe già il nome la valle, e trovandomi nelle case del cortesissimo e umanissimo signor Azzo di Besta, bevei di un vino detto vino delle sgonfiate. Credo fermamente ch’egli sia il miglior che al mondo si beva: s’è più fiate [volte] veduto tal isperienza, esser l’infermo abbandonato da’ medici e per morto da’ cari parenti pianto, e solo col vino delle sgonfiate essersi risanato e preso tal vigore, che pareva si fussero loro raddoppiate le forze. […]. Non si cambiano, non si corrompono nel nascere della nocevole canicola; non accade mitigare l’asprezza loro col gesso, come far si suole in Affrica; né accade eccitarli con l’argilla o col marmore o col sale come fa la Grecia. Né solamente vi sono i vini perfettissimi, ma le cànove [cantine] ancora dove li ripongono sono fatte con le debite condizioni, rimote da ogni cosa fetente e da luoghi dove siano piantati alberi de fichi, con le finestre volte verso Aquilone e con i vasi l’un dall’altro con debita proporzione distanti. Trovansi vini di quaranta, di sessanta e di ottant’anni”14.
La nobiltà del vino di Valtellina e i vini “retici” dell’Antichità
Il diffondersi della cultura rinascimentale in tutta Europa spinge alcuni umanisti all’identificazione del vino di Valtellina col “vino retico” di cui parlavano gli autori antichi (Catone, Livio, Virgilio, Plinio, Columella, Svetonio, Strabone), vantandone così l’eccellenza e la fama come risalenti a più di 1500 anni prima (ad esempio, lo storico comasco Paolo Giovio nel 1537/8, cita un’opera del 1498 di Annio da Viterbo, che attribuisce a un certo Caio Sempronio le informazioni sulla qualità di tale vino e sul suo miglioramento con l’invecchiamento, tanto da risultare medicinale)15.
In particolare, questa visione è specialmente forte negli umanisti di lingua tedesca, i quali riscoprono la “Rezia” romana, cui riconducono – un po’ forzatamente, invero – le origini delle genti alpine: così fa l’uomo politico e storico glaronese Gilg (Aegidius) Tschudi, il quale, nell’opera De prisca ac vera Alpina Rhætia (1538), identifica il “vino retico” degli antichi con quello prodotto nella “Rezia” del tempo, e cioè, certo, con gli ottimi e importantissimi, ottenuti in Valtellina, ma anche con quelli prodotti nel tratto alpestre della valle del Reno (Vorarlberg, Lichtenstein, Cantoni Glarona e Grigioni)16.
Il già noto cronista Johannes Strumpf (1548), limita invece alla sola Valtellina il territorio interessato dal “vino retico” degli Antichi, che cita puntualmente (ma accompagna il brano con una curiosissima illustrazione, di evidente matrice biblica, in cui due individui sorreggono un enorme grappolo d’uva tramite un palo); più preciso nella descrizione del territorio è il boemo Kaspar Brusch (noto in Italia come Gaspare Bruschio), che, nell’Iter Rheticum (1580) ricorda come a Tirano inizi il territorio favorevole alla viticoltura, che eccelle in molte località, ma soprattutto a Manescia, presso Traona: “omnium Volturiensium vinorum præstantissimo et loci nomine passim nobili longe lateque præ aliis celebrato”17, mentre il ministro riformato e storico grigione Ulrich Campell (Duric Champell, in ladino) ne ricorda i pretesi estimatori antichi ma anche i caratteri della moderna vitivinicoltura: “Ma di vino, quasi rosso e in qualche luogo purpureo, è ricca a tal punto che la sua abbondanza quasi supera le aspettative di chi ascolta, poiché non passa giorno in cui non ne siano esportati molti carichi di cavalli da soma per la Rezia e fuori di essa, ovunque, nelle vicine province Elvetiche, Sveve, Vindeliche, del Norico etc., poiché si è scoperto che portato in giro riesce più forte e più corposo, quanto più è condotto lontano e quanto più è scosso nel trasporto. Sopporta mirabilmente anche l’invecchiamento, così che vi sono molti che hanno conservato il vino Retico o Valtellina dall’anno 1540 fino al 1572; esso da rosso di colore mutato in biondo, già un tempo fu considerato superiore al vino di Creta per sapore e profumo, come ricorda Strabone, libro IV. […] Il vino nasce quasi sulla sponda destra dell’Adda che, in quanto soleggiata, così è adatta ai vigneti e perciò ne è ricoperta”18.
La storia della vitivinicoltura in Valtellina, qualche riferimento cronologico
In realtà, nonostante il richiamo ai tempi antichi, i primi documenti che testimoniano la presenza di vigneti e la produzione di vino in Valtellina risalgono al s. IX dell’era odierna e riguardano la bassa valle: in particolare una corte a Dubino, proprietà monastero S. Ambrogio di Milano, la cui produzione di vino è destinata al pagamento dei canoni agrari; di vigneti si parla invece nella vendita di alcuni poderi imperiali siti in Valtellina a Cexino (Cercino): dal contenuto degli atti risulta evidente che si tratta ancora di aziende agrarie policolturali, e non prevalentemente dedite alla viticoltura né, tantomeno, in essa specializzate19. La bassa Valtellina, con le proprietà di grandi monasteri o signori feudali, è, probabilmente, il primo luogo di impianto e diffusione della coltura viticola; un secondo areale in cui i documenti mostrano l’azione dei monaci nella promozione del vigneto è quello di Tirano, in cui il piccolo ospizio di San Romedio (o Remigio, fondato prima del 1055), posto sulla strada del valico del Bernina, in Val Poschiavo, raccoglie donazioni e acquista proprietà terriere, ma attua anche dissodamenti sul versante retico e sul fondovalle dell’Adda, mettendo a frutto terreni incolti (novalia) appartenenti alle comunità di Tirano e di Villa (l’operazione è testimoniata nel 1140, ma prosegue ancora alla metà del XIII secolo).
Processi analoghi, benché apparentemente meno sistematici, sono presenti anche in altre località della media Valtellina20.
La progressiva specializzazione vitivinicola della Valtellina dimostrata da questi atti trova conferma in altri documenti di quegli anni: ad esempio, una rubrica degli Statuti del comune di Como (1209) mette in guardia quanti esportassero del vino “a Clavenna seu burgo de Plurio supra in Ultramontanas partes, seu in partes Cruale” (ovvero nel territorio di Coira) a non pretendere interventi del comune lariano in caso di furti o sequestri (non infrequenti in quegli anni di torbidi internazionali)21; nel 1367, la tariffa delle merci in entrata a Zurigo prevede il “Klefner oder welsche wein” (il “vino di Chiavenna o italiano”, detto così probabilmente per la sua provenienza commerciale e non per l’origine geografica del prodotto)22.
Anche se i luoghi di produzione di tali vini non sono specificati, è ragionevole pensare che almeno una parte provenisse dai vasti e numerosi territori viticoli della valle dell’Adda: del resto, i conti del comune di Chiavenna del XIII secolo registrano entrate notevoli per il dazio sul vino “forense”23.
Le notizie sul commercio del vino valtellinese si moltiplicano nel secolo XV, quando Svizzeri e Grigioni cercano, in ogni modo, di ottenere l’esenzione dai dazi sulle esportazioni, e a questo fine trattano a lungo coi poteri ducali (titolari dei diritti doganali), conseguendo notevoli vantaggi24.
Ancora, nel 1477, si registra una consistente importazione di vino di Valtellina a Zurigo, mentre l’anno successivo sorgono questioni doganali per lo stesso prodotto25.
In sintesi, allorché gli autori di questo periodo parlano della vitivinicoltura, l’attenzione di tutti è rivolta, comunque e soltanto, alla produzione del vino (significativo il richiamo di Ortensio Lando alla bontà di cantine e vasi vinari), non alla coltivazione della vite e alle sue componenti socio-economiche e condizioni tecnico-produttive.
Mutamenti del sistema produttivo e orientamento ‘settentrionale’ della vitivinicoltura
Un deciso mutamento nel sistema produttivo e, soprattutto, commerciale si manifesta durante la dominazione dei Grigioni in Valtellina (1512-1797), che ne promuove un deciso orientamento verso N, che, già in atto nel Quattrocento (l’abolizione dei dazi sul vino esportato in Svizzera e nei Grigioni ne aveva incrementato il commercio), si consolidò progressivamente nei primi decenni del secolo successivo, provocandone mutamenti strutturali: fondamentali furono alcuni provvedimenti normativi e alcuni fatti concreti.
L’istituzione di una fiera a Tirano (1514) e la valorizzazione dell’itinerario del valico del Bernina rivoluzionarono il sistema commerciale valtellinese, creando un luogo e un momento unitari di contrattazione dei prodotti dell’intera area economica di cui la Valtellina era parte: qui i mercanti lombardi e veneti trattavano manufatti, gli svevi e tirolesi cereali e sale, gli svizzeri e grigioni bestiame e latticini, i valtellinesi il vino: un sistema in cui il Veltliner era la chiave di volta di un commercio multilaterale (quasi il mezzo di scambio), in cui ognuna di queste aree economiche complementari metteva a disposizione i propri prodotti riportandone quelli di cui abbisognava (in particolare, vino e prodotti artigianali andavano a N, bestiame e cerali a S, mentre la Valtellina si riforniva da S di manufatti e da N cerali e sale, pagati coi proventi della vendita del vino).
La liberalizzazione del commercio, l’attivazione di tale fiera e la valorizzazione dell’itinerario del Bernina, peraltro, provocarono la decadenza del commercio di Bormio, che prima, tramite il monopolio sui transiti sul proprio territorio, controllava direttamente il trasporto di vino di Valtellina verso il Tirolo, ricavandone cospicui redditi26.
Un altro fatto di grande importanza nella nuova organizzazione dell’economia di quegli anni è la definizione del nuovo estimo sui beni immobili che, avviato ai primi del Cinquecento, si accelera con l’avvento dei Grigioni (negli anni 1523-31): il riordino del sistema della proprietà fondiaria mise ordine anche nel sistema fiscale, riequilibrandone i carichi fra le diverse componenti sociali (eliminando le esenzioni concesse alle maggiori famiglie: Quadrio, Venosta, Beccaria), con evidenti effetti “di innovazione, di egalitarismo e di democrazia” nella vita delle comunità locali27.
Nella stessa direzione di maggiore equilibrio fra le componenti sociali interne va anche la revisione delle norme statutarie delle varie entità politico-amministrative: in particolare i nuovi Statuti di Valtellina, emanati nel 1531, fissano in maniera chiara e universalmente intellegibile (soprattutto nella versione italiana del 1548) norme relative ad ogni manifestazione della vita individuale e collettiva28.
Di fronte alla tendenza alla parziale “liberalizzazione” del commercio (e quindi alla sua crescita quantitativa) qualche provvedimento parrebbe andare in senso opposto: di fronte all’incapacità delle diverse istanze presenti nel Consiglio di Valle (il massimo organo politico-amministrativo della Valtellina) di trovare un accordo sulla politica commerciale da mettere in atto riguardo al vino in un momento di crisi produttiva, un decreto sovrano del 1547 ne proibì l’esportazione verso S: atto che certo favoriva i mercanti grigioni (nonché svizzeri e tirolesi, oltre che locali, anche contenendone il prezzo a vantaggio dei compratori), ma sfavoriva alcuni grandi proprietari (come i Quadrio), che da quel commercio (soprattutto col Veneziano) traevano grandi vantaggi29. Situazione peraltro non nuova, se già nel 1491 il podestà sforzesco di Bormio lamentava l’incetta di vino da parte veneziana che, assieme al fatto che “la mazore parte del vino de Valthelina he in le mani de XII de li più richi d’essa vale”, faceva temere un rincaro del prezzo a scapito del mercato locale30.
In effetti, l’azione del governo delle Leghe sembra puntare decisamente alla rottura dell’oligopolio nel commercio del vino: ciò risulta evidente soprattutto nel XVII secolo (quando la documentazione si fa più ricca), come risulta da un provvedimento governativo del 10.8.1614, il quale ribadisce (su richiesta del Consiglio di Valle) la libertà di commercio interno alla valle31, mentre la Grida generale per il Terziere di Mezzo del 12.6.1632 (nel periodo di temporanea indipendenza dai Grigioni durante la Guerra di Valtellina, a conferma che la libertà di commercio non interessava soltanto Oltralpe) vieta l’accaparramento (l’“incaparar”) delle uve in occasione della vendemmia: in particolare ordina “Che niuno possi far il malosser [sensale] sotto pena de 100 scudi […] ne interponersi nei mercati di vino senza espressa licenza di SS.M. Ill.re [il magistrato] dal qual riceverà li ordini e maniera con che ha da portarsi per servitio e delli mercanti e delli particolari”32. La ratio di questi provvedimenti è bene esplicitata dalla Grida generale di Valtellina del 6.8.1717, capitolo 26: “Si prohibisce l’incaparatura, & imbottatura de Vini e far Canepa di Vino [spaccio privato] per rivenderlo nel paese, e non già per comprare Vini per condurlo fuori […]”33: dunque il commercio all’ingrosso di vino è ammesso per l’esportazione, ma non per il mercato interno.
Questo insieme di processi giuridici ed economici promuove l’ampliamento del terreno destinato a vite e l’incremento della produzione, e quindi una progressiva specializzazione produttiva della valle, sia dal punto di vista settoriale che territoriale.
Un punto fermo per l’agricoltura valtellinese: l’estimo del 1531
La realizzazione dell’estimo agrario del 1531 fornisce peraltro un importante quadro di sintesi sulla viticoltura valtellinese dei primi del Cinquecento, sia dal punto di vista quantitativo che distributivo e territoriale: i dati qui di seguito riportati lo illustrano con chiarezza.
Fonte: Boscacci, 200034. La pertica valtellinese corrisponde a circa m2 688, ed è divisa in 24 tavole. Nel Terziere superiore appartengono al versante retico i comuni di Bianzone, Villa e Tirano (sul fondovalle, ma con ampia porzione rivolta a S); all’area intermedia quelli di Vervio, Grosotto e Grosio (posto al limite della coltura della vite), esposti a S-E; gli altri (“Territorio rimanente”) sono affacciati a N-O (ma talora con porzioni di terreno a vite sul fondovalle o sul versante opposto) oppure si trovano al di sopra del livello altimetrico di coltura della vite.
Questi dati mostrano soprattutto due aspetti: il terreno vitato è, comunque, una porzione decisamente minoritaria del territorio vallivo (sia di quello agrario utile che, a maggior ragione, di quello complessivo, come risulta dalla penultima colonna della tabella)35; però tale specializzazione (che, come mostra l’ultima colonna, interessa, ovviamente, soprattutto il versante retico della Media Valtellina, che nel XVI secolo ha assunto un peso decisamente maggiore della Bassa, dove la viticoltura si era sviluppata dapprima), ma non è assente neppure sull’orobico: o meglio, è presente in misura notevole nei comuni in sinistra idrografica dell’Adda che comprendono vaste conoidi di deiezione che, per i terreni sciolti e l’esposizione al sole, sono adatte alla coltura della vite (qui, come a Morbegno, si tratta di norma di “vineae silvatae”, e cioè allevate in coltura promiscua con maggiore attenzione alla quantità del prodotto che alla qualità)36.
La maturità del sistema vitivinicolo valtellinese
I tre fattori assieme caratterizzanti la vitivinicoltura valtellinese nel secolo XVI finora descritti (orientamento economico verso N, mutamenti strutturali del settore, richiamo agli autori classici come garanzia di qualità) ne fanno un processo complesso e organico che acquisisce consistenza e durata nel tempo; benché non si tratti certo di un’operazione di ‘marketing’ unitaria, l’effetto complessivo è quello di creare un vero e proprio prodotto di mercato (un brand , per così dire), che funzionerà perfettamente per quattro secoli (e anche oltre).
L’orientamento duraturo e quasi esclusivo verso N e la virtuale chiusura del mercato meridionale (le Leghe si occuperanno ripetutamente delle richieste di esportazione di vino in Val Camonica nel secondo Cinuecento)37 fanno sì che il vino di Valtellina sparisca di fatto dal mercato italiano, come dimostrano anche i trattati enologici del secolo XVI, quali l’epistola del “bottigliere” di papa Paolo III Farnese, Sante Lancerio (1553-9)38 o quello del medico marchigiano Andrea Bacci (1596)39.
I caratteri strutturali della vitivinicoltura valtellinese si possono in parte ricondurre, in effetti, ai problemi derivanti dal trasporto del prodotto (altro fattore formativo del modello), che dalla zona di produzione avviene, nel primo tratto, mediante vie terrestri, per affidarsi poi alle acque del Lario, verso S, a quelle del Reno verso N, dell’Inn e del Danubio verso N-E. In effetti, il trasporto è fattore ed elemento fondamentale di tale modello di sviluppo produttivo, come dimostrano sia la terminologia e l’adattamento formale dei contenitori alle necessità del trasporto, sia le nuove unità di misura (del vino, ma anche dei cereali): progressivamente, a condi e brente si sostituiscono, nella prassi, some e plaustri (a richiamare il trasporto someggiato e su carro); inoltre le botti assumono forma oblunga atta a facilitarne il trasporto a dorso d’animale, su carro o su battello (ad esempio, al trasporto rinviano, ancora una volta, denominazioni vernacolari come vasèl e caréra per due tipi di botti di diversa capacità)40.
Nella seconda metà del XVI secolo e nei primi decenni del successivo, dunque, ha preso forma definitiva il “modello della vitivinicoltura valtellinese”, raggiungendo la sua maturità strutturale, fondata su una serie di elementi che ne garantiscono qualità e riconoscibilità (ovvero, identità): elementi che si sostanziano nella fama pubblica, nell’eccellenza qualitativa, nel valore economico, nella territorialità (e cioè nel legame armonico col territorio e coi suoi peculiari caratteri climatici e morfologici) del prodotto. Rimangono esclusi però, a lungo, i fattori umani del sistema produttivo e commerciale della vitivinicoltura valtellinese, e in particolare gli aspetti sociale (essa ha plasmato profondamente la società locale nelle sue componenti di ceto e di classe), economico (in specie micro-economico: i caratteri di tale settore hanno agito a fondo su organizzazione produttiva, ripartizione dei proventi fra e disponibilità di risorse per le diverse cellule della società, dalle famiglie alle comunità di villaggio o di borgo) e tecnico (agronomico, ergonomico, organizzativo dei diversi comparti della filiera).
Coltivazione della vite e vinificazione sono due fasi di tale filiera che di norma sono integrate (soprattutto da parte dei maggiori produttori, che vinificano in proprio e mettono sul mercato grandi quantità di prodotto, spesso invecchiato nelle proprie cantine) ma che possono essere, almeno parzialmente, distinte (molti coltivatori livellari consegnano l’uva ai proprietari, che la vinificano): i due settori possono perciò procedere anche separatamente, tanto che gli osservatori si occupano soprattutto (e talora esclusivamente) dei processi di vinificazione e della qualità del vino in quanto prodotto commerciale, mentre ignorano la parte agraria e produttiva, forse considerandola scontata.
Ai primi del secolo XVII, però, alcuni osservatori cominciano a superare il solo e tradizionale apprezzamento per la qualità del vino, prestando maggiore attenzione alle modalità di sistemazione del terreno agrario e di coltivazione, con la scoperta, per così dire, della creazione del terreno agrario là dove esso non esisteva naturalmente. Il primo autore a prendere atto di questa realtà è, probabilmente, il grigione Johannes Guler von Weineck, il quale, nel volume Raetia (1616), fa esplicito riferimento alla grande estensione della vite su entrambi i lati della valle, ma pure alle dure e ingegnose modalità di coltivazione della vite allora in uso sugli impervi versanti vallivi: certo, “il lato a destra dell’Adda, in quanto più soleggiato, è molto più produttivo e ricco di viti del sinistro”, ma nondimeno presenta cospicui ostacoli alla coltivazione, soprattutto per la sua morfologia; ma a ciò si rimedia così: “Si appoggiano i tralci su legno e sulla roccia; c’è qualche luogo, che di per sé non produrrebbe nulla, poiché non è che pietra e dirupi, e parecchi la considerano sterile per la piantagione di ogni cosa e inutile e non dissodabile. Ma si porta la terra fra le pietre così che i tralci, là dove si vogliono piantare, possano mettervi radice: ed essi sono coltivati bene sulle grosse pietre e sui dirupi, così che formano belli e piacevoli vigneti: non solo sono belli da vedere, ma risultano anche molto fruttuosi e utili”41.
Tra molte altre osservazioni (qualità del vino che migliora col tempo e perfino col trasporto a lunga distanza; uso quasi medicinale; entità delle esportazioni, attestate in media sulle 100 some al giorno), l’autore ricorda anche la particolare bontà del vino prodotto in località Grigioni: “presso Castione, al di sopra della valle, s’innalza una costiera a vigneto soleggiata e rocciosa, detta Grigioni: la quale produce il vino migliore e più squisito in tutta la valle, che si può conservare soave a lungo e che dai mercanti viene portato in terre lontane alle corti di imperatori, re, principi e signori”)42, un luogo che si ricorderà a proposito di un trasporto di vino a Vienna nel XVII secolo.
Il suo coevo e concittadino Fortunat Sprecher von Berneck (1617), non si discosta dalla tradizione descrittiva della vitivinicoltura di Valtellina vigente a quel tempo, ma, forte di molte osservazioni minuziose, mette in evidenza come l’andamento della produzione, la qualità del prodotto e il suo prezzo di mercato dipendano, in molti casi e in larga parte, dall’andamento climatico e dalla bontà delle stagioni, oltre che da fattori più propriamente economici43.
Un ulteriore passo verso una migliore comprensione del sistema vitivinicolo valtellinese è compiuto però da un comune agrimensore (impegnato proprio in operazioni d’estimo) originario della Valcamonica, Giovan Battista Apollonio, il quale, in una relazione del 1621 (probabilmente al governo veneziano di cui è agente), annota come la coltura della vite promuova benessere per i proprietari ma miseria per i coltivatori, che dipendono totalmente dai primi, verso i quali sono strutturalmente debitori e che “al tempo de mosti gli levano per quel che vogliono”, privandoli di parte dei redditi. Perciò, paradossalmente, gli abitanti del versante ombroso sono in condizioni migliori dei contadini di quello solatio, con le sue colture viticole di elevato valore commerciale44.
Crisi e ripresa della vitivinicoltura valtellinese nel secolo XVII
Ma lo scoppio della Guerra di Valtellina (1620-1639) indusse una serie di conseguenze disastrose per la società valtellinese: il passaggio delle truppe imperiali dirette alla “Guerra di Mantova” (che opponevano gli Imperiali ai Francesi) provocò la peste (1629-30) e il drammatico decremento della popolazione45, la devastazione del territorio (soprattutto dei vigneti, i cui pali di sostegno delle viti erano usati spesso come legna da ardere dalle milizie di passaggio): da tutto ciò derivò una crisi economica gravissima, di cui fece le spese soprattutto la viticoltura, con conseguenze intuibili sulle condizioni di vita delle popolazioni locali. La volontà di ripresa dei superstiti e le loro consolidate capacità di dissodamento e preparazione del terreno, nonché l’abilità nel gestire la coltivazione della vite, permisero però una rapida ripresa, sia demografica che economico-colturale, della Valtellina: il veloce infoltirsi dei ranghi demografici permise un’altrettanto rapida ripresa della coltura della vite e della commercializzazione del vino (tanto che un osservatore locale come il sacerdote Giovanni Tuana, che scrive prima del 1636, sembra non rendersi neppure conto della crisi)46.
Un bell’esempio di queste attività è fornito dal caso del mercante Gaudenzio Molinari (di Bondo in Val Bregaglia), il quale, nell’autunno 1637 – inverno 1638, compie il viaggio a Vienna per vendere una partita di 17 some (circa hl 22,5) di “vini dulzi de Valtolina” acquistati a Castione. Di grande interesse è il suo resoconto, sia riguardo all’itinerario e alle modalità di sua percorrenza, che agli aspetti finanziari dell’operazione, annotati nei minimi particolari47.
Al tornante del secolo la situazione è pienamente ripristinata, tanto che nel 1717 il Consiglio di Valle di Valtellina dibatte un problema costante per la vitivinicoltura commerciale: privilegiare la qualità della produzione o la quantità del prodotto ? Infatti, la ripresa del mercato enologico ha promosso un ulteriore ampliamento del terreno vitato, che così si è esteso a terreni marginali e poco adatti alla coltura, specie in altitudine o sugli umidi terreni di fondovalle: è evidente, perciò, il rischio di progressivi dequalificazione e deprezzamento del prodotto, e quindi di declino dell’immagine del vino coi conseguenti problemi di smercio sui mercati tradizionali, abituati a standard qualitativi diversi. Donde l’opposizione fra politiche produttive e commerciali sostenute dai diversi tipi di proprietari, con il contrasto fra i grandi (che privilegiano la qualità) e i piccoli (che puntano alla quantità): non si sa quale sia stato l’esito della discussione, ma quello del processo sì: le colture della vite seguitarono a espandersi, anche là dove i risultati qualitativi non erano consoni alla tradizione: effetto che non tardò a pesare sulla vitivinicoltura locale48.
Le testimonianze dell’epoca riprendono, inoltre, l’andamento e i contenuti propri dei decenni precedenti: ad esempio, l’ecclesiastico locale Pietro Angelo Lavizzari presta grande attenzione ai fatti reali, sia mettendo in serio dubbio la corrispondenza tra “vino retico” degli antichi (a suo parere prodotto nel territorio veronese) e dei moderni (che “invece però della corte del romano Augusto, gloriarsi si può di quella di Vienna, che stima cotesti vini provvisione conveniente alla sua grandezza”), sia descrivendo il paesaggio derivato dalla viticoltura, facendo cenno, forse per la prima volta, ai terrazzamenti artificiali, pur in chiave puramente estetica (la “collina, esposta ad oriente e il mezzogiorno per il corso continuato di quarantacinque miglia, coperta di viti maestrevolmente lavorate, e tutta sostenuta a corone murate, non può fare più vaga comparsa, dandosi a credere per un delizioso teatro di Bacco, in cui esso voglia far pompa, e mettere in ispalliera i suoi maggiori tesori; per cui angusta quasi la per altro vasta pendice, allargansi anche alla pianura, e sino per le costiere, vôlte a tramontana”), sia lodando la qualità dei vini (“vi provengono vini sì generosi, che guadagnando perfezione dagli anni, a’ secoli stessi la resistono; e quanto più incontrano di rigido clima ove sono condotti, tanto più ottengon di pregio e fragranza”) (1716)49.
Più tradizionali sono invece le descrizioni della Valtellina e della sua vitivinicoltura in altre opere del tempo, come nel famoso État et délices de la Suisse (1730) di un sedicente Gottlieb Kypseler, in realtà una rielaborazione di opere precedenti50: in Valtellina “Le vin est ce qu’il y a de plus considérable, & le plus grand revenu du Païs. Les seps y portent des grappes d’une grosseur prodigieuse : il y a de ces grappes qui ont jusqu’à 450. à 460. grains de raisins. Le vin en est très-exquis, & fort estimé dans tous les Païs d’alentour”51.
Parole cui fanno da pendant quelle dell’abate valtellinese Francesco Saverio Quadrio, che nel 1755, così ne parla: “Che il Vino sia l’Entrata maggior del paese, è cosa sicura […] Infatti non sol le Colline esposte ad Oriente e Mezzogiorno, per lo continuato corso di più di sessanta miglia, si veggono tutte coperte a viti maestrevolmente lavorate, e tutte sostenute a corone murate a foggia di delizioso teatro; ma le pendici tutte e le pianure altresì e le costiere persino, a tramontana rivolte, si veggon tutte frondeggiare di viti. La qualità del vino n’è la sola cagione. Esso, che vince colla dolcezza e soavità tutti i vini del Mondo, come scrive il Cluverio, e che colla sua generosità guadagna vigore dagli anni, e resiste a ogni Clima, tal reputazione si fa guadagnata, che non pure le parti vicine d’Italia, e la Rezia contigua se ne provveggono; ma l’Elvezia, il Tirolo, la Svevia, la Baviera, l’Austria, la Boemia, la Polonia, l’Ollanda, e fin l’Inghilterra ne fanno ricerca”52.
Le parole e il tono descrittivo di questo autore, peraltro, dimostrano come, nel corso del secolo, la cultura avesse sviluppato alcune rilevanti novità, come il movimento dell’Arcadia, cui si sarebbero accostate la Fisiocrazia e le idee liberali collegate all’Illuminismo.
La vitivinicoltura valtellinese nel Settecento: derive del passato e proiezioni nel futuro
In effetti, la cultura arcadica della seconda metà del ‘700 (come mostrano alcuni autori valtellinesi che trattano di vite e di vino) ignora totalmente gli aspetti agronomici, ergonomici ed economici di questo settore produttivo, o li relega sullo sfondo a favore di altri, più superficiali o perfino immaginari, consoni alla visione poetica del lavoro agreste: così fa lo stesso Quadrio in alcuni epigrammi in cui, con versi scanzonati, celebra Bacco e l’enologia (“Giù per l’arene / di questo fiume [Adda] / sento che viene / Bacco, il mio nume; / sento le grida / della sua guida … / ecco l’amata, / cara brigata. […] // Voglio Refosco, / ch’è l’idol mio, / ben lo conosco / se lo vegg’io; / qual ostro brilla / e sì sfavilla, / re d’ogni vino / per me l’inchino”)53; così fa un altro ecclesiastico, Costantino Reghenzani di Teglio, che vivendo a Pisa, nel 1761 rammenta con nostalgia (ma anche attenzione alla poetica dell’Arcadia) la sua terra d’origine in un poema in esametri latini: “verdi col vertice frondoso, guarda anche i dossi, / leggiadri dossi, ed aprichi, pei dossi, i campi coltivi; / li ornan col frutto dei pampini vigne in grandissimo numero / per ogni dove, e dai tralci sporgono i grappoli ambrosii. // […] A chi parlare dei dolci doni di Bacco munifico, / doni che bastano al censo dei trepidanti coloni ? / Perché dai tini ricolmi spumeggia qui la vendemmia, / e grandi calcano i torchi gl’innumerevoli grappoli, / e si riempion di rosso vino le botti capaci. / A testimoni, o Tedeschi, che vi affrettate alle nostre / terre, a comprare, e spendete ingenti somme nel vino, / io chiamo voi, che diciate quanto vi aggradi, che nobile, / vino si vende e alle vostre mense abbellisca i conviti”)54.
Il pensiero fisiocratico e poi quello liberale comportano invece un’assai maggiore attenzione alle modalità di coltivazione razionale, e quindi alla sistemazione del terreno agrario coi terrazzamenti artificiali, nonché alle condizioni giuridiche, economiche e sociali del sistema produttivo: perciò, mentre gli Arcadi verseggiano con leggerezza, altri autori si occupano concretamente delle condizioni della produzione e del commercio del vino.
Ad esempio, le considerazioni del pittore valtellinese, di buona fama, Pietro Ligari evidenziano come, a metà del Settecento, la vitivinicoltura valtellinese fosse giunta a un bivio ineludibile: modernizzarsi o decadere. Ma mostrano anche una scarsa propensione collettiva (soprattutto da parte della maggioranza dei proprietari, incapaci di trasmettere ai coltivatori stimoli e incentivi al miglioramento della filiera produttiva) di affrontare il problema della razionalizzazione della coltura e della commercializzazione del prodotto, e quindi di individuarne le soluzioni, come fanno alcuni proprietari più illuminati (fra i quali lo stesso Ligari). Ben nota è la qualità dei vini di Valtellina, ma non altrettanto si può dire, in base alla sua esperienza di produttore, della bontà dei metodi di coltivazione: “per maggiormente giovare alla mia Patria ne darò qui tutte quelle poche notizie da me debolmente aquistate nel corso di molti anni e delle molte esperienze che ne ho fatte ed in effetto si possono da ciascheduno osservare nella mia vigna a Cantone detta la Baiacca, parte della quale ho fatta e fo lavorare secondo le regole qui descritte”, ricordando i vantaggi della costruzione del terreno agrario tramite il terrazzamento artificiale (in gennaio, “poco si può fare quando la neve abbia preso il suo solito posesso, ma se avete occasione di far roncare [dissodare] nelle costiere e di far spezzare grossi sassi con mine o con guccie [cunei], sarà questo bonissimo impiego per questo tempo; e nella luna crescente di detto mese potete anche far podare le viti di costiera soliva [solatia]. Ancora far muri, trasportare sassi, ganda [ghiaia e ciottoli] et altro simile materiale”)55.
Le resistenze però sono forti: da una parte, “Non posso però capacitarmi dell’invincibbile ignoranza de nostri contadini de’ quali in gran numero ne vanno a Napoli, a Roma, a Lodi, a Milano et in altre città dell’Italia e se ne ritornano ostinatissimi come prima nel loro costume di coltivare la vite”, benché molti si rendano conto che colà si pratichi una coltura “assai migliore e di maggior rendita”, non volendo nemmeno sperimentarla per non perdere qualche giornata di lavoro e rischiare qualche pianta di vite, “mentre par loro di far torto a loro vecchij con lasciare le regole che da essi impararono, onde in pena dell’ostinazione marciscono nell’errore”. Dall’altra, alcuni proprietari, benché “dall’agricoltura ricevino nottabilissimi vantaggi e piacere, anzi il sostegno delle loro case, s’astengono tuttavia d’aplicarvi il loro talento suponendola arte vile, perché manualmente praticata da’ villani, li quali in verità non sono se non che fachini dell’agricoltura”, il cui ruolo è come quello dei muratori nella costruzione di un edificio: perciò, “tanto è falso il suposto che il contadino possa essere vero e fondato agricoltore, quanto può darsi che il muratore sia perito architetto. Con questa parità [paragone] penso d’avervi abbastanza provato che l’agricoltura non sia in mano de’ villani senonchè rispettivamente alla corporale fatica”56.
Alla gran parte di costoro, infatti, bastano i tradizionali elementi di forza del modello vitivinicolo valtellinese, consolidatosi nei secoli e ancora capace di garantire una posizione di vantaggio comparato sui mercati consueti rispetto ai produttori di altre aree, i cui i sistemi produttivi e commerciali, ma anche le condizioni logistiche (soprattutto nei trasporti a lunga distanza) appaiono oggettivamente più adeguati per affrontare le trasformazioni del mercato vinicolo macro-regionale e perfino continentale che si sta affermando alle soglie del XIX secolo.
Un esempio significativo di questa visione è offerto dall’intellettuale tedesco, ma a lungo residente nelle Tre Leghe, Heinrich Ludwig Lehmann, il quale nell’opera Die Landschaft Veltlin (1797) manifesta grande attenzione per il ruolo dell’agricoltura nella società contemporanea e le ricadute economiche e sociali sulle collettività locali: ma lo fa secondo il modello classico degli osservatori stranieri in Italia, fondato su convenzioni e stereotipi che, spesso, impediscono di interpretare e descrivere correttamente la realtà effettiva. Emblematica di tale approccio è la presentazione del territorio fatta dal Lehmann: “Il paese di Valtellina è indubbiamente una delle più belle e senza contraddizione la più fruttifera valle della Svizzera. Io non esagero minimamente quando affermo che essa è un piccolo Paradiso, o perlomeno l’assaggio, l’ingresso della paradisiaca Italia”57.
L’autore prosegue elencando le diverse tipologie dei vigneti e dei loro impianti (ma non cita i terrazzamenti), le varie qualità ampelografiche dei vitigni coltivati e dei vini prodotti58, ma, rispetto alle pretese straordinarie capacità produttive del territorio, rileva anche l’enorme divario nelle condizioni di vita fra agricoltori e proprietari terrieri, che vivono, a suo dire, in grande lusso: considerazioni certamente fondate, che però l’autore (appartenente al “partito patriottico” grigione, di matrice repubblicana, e protestante) enfatizza per la sua polemica contro la nobiltà e il clero cattolico locali, che sono il suo vero obiettivo politico59.
Questi punti di vista si affermeranno negli anni successivi, allorché la Valtellina entrerà nella Repubblica Cisalpina (proprio nel 1797), e un intellettuale come Melchiorre Gioia vi dedicherà molta attenzione nelle sue “statistiche” (1804, 1813), indagando ogni aspetto del sistema socio-economico locale (e dunque anche della vitivinicoltura), senza remore, ma anche con molta passione civile60: ma ormai siamo entrati nel XIX secolo, di cui altri si occupa in questa sede.
A chiusura di questo ciclo economico e sociale, ma anche di organizzazione e di uso del territorio in Valtellina, è possibile riportare qualche stima quantitativa sulla produzione e lo smercio del vino durante i secoli dell’Età moderna. Si tratta di dati solitamente non ufficiali (eccetto quelli di 1531 e 1811), raccolti da privati per motivi diversi (dai commerciali ai culturali), in maniera spesso non sistematica e senza riferimenti cronologici precisi, e dunque non completamente (e ugualmente) affidabili: la lettura diacronica è perciò problematica, pur fornendo un’idea sull’andamento generale di produzione e commercio del vino; quella sincronica consente di valutare il rapporto, variabile nel tempo, tra produzione e smercio estero di un prodotto (che si aggira sul 60-70% del prodotto)61.
Qualche ulteriore considerazioni è possibile fare, inoltre, sul rilievo economico, assoluto e relativo, della vitivinicoltura valtellinese al tornante del XIX s., quando ne viene ben documentato il peso assoluto e relativo sull’economia valligiana: il commissario governativo cisalpino Francesco Bellati, stila, nel 1802 (ma con dati precedenti), una relazione sui territori di Valtellina, Chiavenna e Bormio, nella quale valuta come le entrate monetarie dovute al commercio del vino ammontino all’82,9% del valore del totale delle merci introdotte nell’area e al 70,7% di tutte le sue entrate monetarie (compresi i trasferimenti dello Stato, come si direbbe oggi)62: dunque una dipendenza quasi totale dell’intero sistema sociale valtellinese (non degli ex-Contadi di Chiavenna e Bormio) dalla produzione e dal commercio del vino, e cioè da un prodotto molto sensibile a fattori positivi e negativi diversi, dall’andamento climatico a quello dei mercati, a loro volta sensibili a diverse variabili riguardo a un bene che, in fin dei conti, è voluttuario e facilmente fungibile con altri (vini di minor qualità o birra, ad esempio, o la semplice acqua).
Rischi forse non ben percepiti (o magari esorcizzati) da amministratori, economisti, intellettuali locali (quasi abbagliati dalla crescita del mercato enologico del secondo decennio del XIX secolo, e dalla conseguente, ulteriore espansione dei terreni a vigna)63, ma che infine si imposero alla pubblica attenzione: ad esempio Luigi Torelli, proprietario terriero valtellinese, in un opuscolo del 1845 mise in guardia contro i rischi di instabilità strutturale derivanti dalle peculiarità di un settore produttivo come la vitivinicoltura, caratterizzato da due aspetti che ne limitano l’efficienza attuale e le prospettive future: la monocoltura e la sovrapproduzione. Caratteri certo non positivi, ma che, accettabili in condizioni di stabilità ambientale e di mercato, possono essere deleteri in momenti di instabilità, come quelli che si manifestarono tra fine Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, con l’ampliarsi dei mercati a scala internazionale e la comparsa di sistemi di trasporto come le ferrovie, capaci di modificare radicalmente le condizioni stesse del mercato64. Ma ormai, si tratta di temi che, qui, toccano ad altri studiosi.