I nuovi scenari
E’ un dato acclarato che nel 1861, al momento del compimento del processo unitario, la coltura dell’albero fosse già largamente presente nel paesaggio agrario del Mezzogiorno d’Italia1. Eppure, la proclamazione del nuovo Regno d’Italia determinò nel breve periodo un’accelerazione delle trasformazioni colturali in atto da secoli. Infatti, l’inserimento della penisola italiana nel contesto europeo degli scambi commerciali - facilitato dalla politica di stampo libero-scambista perseguita dalla classe dirigente politica del nuovo Stato unitario – intensificò consistenti processi di trasformazione colturale, soprattutto in alcune regioni del Mezzogiorno d’Italia2. Si trattò di cambiamenti repentini, realizzati sia dai grandi proprietari che da affittuari di piccoli fondi in maniera approssimata e a tratti disordinata, che seppure nel complesso mutarono sensibilmente i caratteri dell’agricoltura meridionale, non vanno però associati a processi di ben più ampia portata che tra il diciassettesimo e diciottesimo secolo coinvolsero le zone a coltura intensiva e irrigua dell’Alta Val Padana3. In questa prospettiva, l’incapacità del settore primario di percorrere, anche nelle fasi di crescita e di sostanziale mutamento, un significativo percorso di accumulazione originaria di capitali nelle regioni meridionali fornisce una spiegazione plausibile e ragionata del dualismo di lunga durata che distingue la storia economica dell’Italia4. Risultava così enfatizzato il ruolo di stagnazione dell’attività economica fondamentale del Mezzogiorno che, pur stabilmente coinvolto in mercati decisamente più vasti e articolati, restava ancorato a schemi di gestione delle terre e a paradigmi organizzativi della produzione in marcata continuità con il passato. Anzi, un elemento che affiora nell’analisi delle forme contrattuali è che, pur rimanendo le medesime nel tempo, riuscivano ad assorbire e inglobare radicali quanto veloci trasformazioni colturali, i cui costi finanziari erano sopportati soprattutto degli affittuari, senza generarsi il più delle volte una seppur marginale forma di revisione degli accordi cristallizzatisi con lo scorrere dei secoli.
Nel contesto di questo scenario più vasto, è da inquadrare la particolare ma emblematica vicenda relativa alla rilevante crescita della viticoltura e della produzione vinicola del Mezzogiorno5. Nell’evoluzione di questa coltura, tutt’altro che inedita nella storia del paesaggio agrario meridionale, sono da considerare due grandi questioni che maturano nel panorama europeo negli anni a ridosso dell’unità d’Italia: le infezioni fillosseriche, che distrussero gran parte dei vigneti francesi e la successiva crisi agraria, configuratasi poi come la prima grande crisi dell’economia capitalista.
La prima questione si pone in modo molto favorevole per l’Italia, in primo luogo per le campagne meridionali. Il celere propagarsi della fillossera in Francia, anche in virtù dell’accordo commerciale bilaterale del gennaio 1863 che legava i due Paesi6, pose in una posizione di assoluto privilegio i viticoltori e i produttori vinicoli italiani7. Aspetto confermato, sia dal sollecito ampliamento della superficie vitata e della produzione di vini8, sia dall’assorbimento delle esportazioni italiane di vino dei mercati d’oltralpe9. La crisi agraria, sopraggiunta all’indomani della massiccia immissione sui mercati del vecchio continente dei grani americani, tanto da provocare una sensibile diminuzione dei prezzi negli ultimi decenni dell’Ottocento, intensificò i cambiamenti in atto nelle campagne italiane, come anche in altri contesti europei, imponendo un’ampia ristrutturazione dell’offerta agricola, con una consistente riconversione delle colture e l'adozione di nuovi indirizzi produttivi. Ed è anche questo il sintomo evidente di quanto l’agricoltura italiana fosse pienamente inserita nello scenario internazionale e dovesse fare i conti con i repentini mutamenti del più ampio contesto europeo. D’altronde, una conferma delle tendenze appena delineate, si traeva dalla seta, che seppure in misura più modesta che nel passato, all’indomani dell’Unità continuò ad espandersi fino agli inizi degli Novecento, conquistando posizioni di nicchia nell’ambito del commercio internazionale10.
Dimensioni e limiti della crescita viticola e vinicola nelle campagne meridionali
Alcuni dati complessivi riportati da Emilio Sereni evidenziano che la crescita dei vigneti e della produzione vinicola si radicò soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia. Infatti, nel quinquennio 1890-1894, quando i mutamenti colturali erano già avviati da tempo, l'estendersi dei vigneti nelle regioni meridionali e insulari conseguì un incremento rispettivamente del 60% e del 42%, a fronte di una pressoché totale tenuta delle regioni centrali, mentre le regioni settentrionali registrarono una diminuzione pari al 7% circa11.
Appare tuttavia molto arduo esaminare con l’utilizzo di dati analitici e affidabili la crescita dei vigneti meridionali. Come è noto, un accurato monitoraggio delle trasformazioni in atto era impossibile da compiersi in quegli anni. Una fonte da cui si possono trarre elementi significativi sono i manuali di viticoltura dell’epoca che insistono nel porre l’accento sulla crescita della superficie vitata nelle regioni meridionali, tanto cha a tale coltura è attribuito il merito di calmierare le ansie e gli affanni moltiplicatisi con la crisi granaria degli inizi degli anni Settanta12. Ma fin da subito negli stessi manuali si sottolinea che tali mutamenti non erano stati in grado di apportare miglioramenti alla coltivazione dei vigneti e alla preparazione e conservazione dei vini13.
Una fonte di indubbio rilievo che consente un’analisi più particolareggiata, sebbene non sempre adeguatamente suffragata da dati pienamente attendibili, è la pubblicazione della Carta vinicola d’Italia, promossa su iniziativa della Società generale dei viticoltori italiani, collegata alle varie inchieste conoscitive attivate nei primi decenni dopo l’unità, di cui la più famosa fu l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola presieduta da Stefano Jacini14. Le difficoltà incontrate nell’elaborazione della Carta furono numerose: d’altronde, i problemi organizzativi del settore vinicolo si riflettevano in tutti gli ambiti produttivi del Regno, in larga parte spiegabili con il recente compimento del processo unitario, e il conseguente, annesso, rallentamento nella creazione di uffici preposti a raccogliere informazioni e statistiche che, una volta entrati in funzione, dovevano necessariamente attraversare una fase di “rodaggio” prima di poter lavorare a pieno regime. Risultava così evidente che l'espansione viticola, che aveva raggiunto notevoli dimensioni, non era stata seguita, né tanto meno guidata, da alcun piano generale su scala nazionale o anche regionale, e la spontaneità del processo di crescita si rifletteva sulla ricerca, creando serie difficoltà nel tentativo di reperire dati e notizie affidabili, soprattutto nell’ambito delle province meridionali. Si trattava, dunque, di cercare di mettere ordine nella conoscenza dell’evoluzione in atto della realtà viticola e vinicola, a sua volta inserita nel contesto dell'ancora in buona parte inesplorato quadro conoscitivo dell'agricoltura nazionale15.
Pur con questi limiti, la Carta è un documento di indubbio interesse, anche perché fu pubblicata nel 1887, anno di cruciale rilevanza per le sorti della viticoltura italiana in quanto segnò la denuncia del trattato doganale con la Francia, ponendo così fine alla “fase aurea” della viticoltura meridionale. Il quadro d’insieme consente di circostanziare l’analisi sui cambiamenti colturali realizzatisi nelle campagne meridionali, ponendoli anche in chiave comparativa con le altre zone della penisola italiane. Si desume pertanto che se l’incremento riguardò, in misura diversa, quasi tutto il territorio nazionale, le aree di maggiore crescita si concentrarono oltre che in varie regioni del Mezzogiorno, tra cui spiccavano la Sicilia, la Puglia, la Calabria e la Sardegna, anche in Piemonte e nel Lazio, mentre Veneto, Liguria e Lombardia manifestavano un sensibile ridimensionamento della superficie vitata16. Ma fu proprio in rapporto alle campagne meridionali, dove la crescita negli ultimi venticinque anni era divenuta particolarmente intensa, che le singole monografie regionali volte a comporre il complesso mosaico della Carta tesero a fornire gli elementi di indagine e di conoscenza più pertinenti e rilevanti.
Nell’ottica di un’analisi più particolareggiata nell’ambito dei singoli contesti regionali, si evidenziava che la recente crescita della superficie vitata siciliana ampliava i confini di un’area già da tempo densamente viticola e vinicola, diffusa a macchia di leopardo e volta a includere vaste aree del trapanese, diverse ricche plaghe della provincia di Messina, la fertile regione Etnea e quella delle Terreforti della provincia di Catania. La presenza di molti vigneti si associava all’attività di alcuni importanti stabilimenti indirizzati a produzioni altamente specializzate, che andavano dal marsala al moscato e all'albanello, raffinati e pregiati tipi di vino ricavati da vitigni uniformi e ben selezionati,17. Fra tutti conobbe una significativa espansione lo stabilimento vinicolo della casa Florio, che disponeva di una forza lavoro di circa 300 addetti18. Si trattava tuttavia di casi isolati: in genere, la notevole crescita della superficie vitata, fattasi tumultuosa negli ultimi decenni, non era accompagnata da un eguale sviluppo della produzione. Infatti, lo stimolo decisivo a produrre sempre di più veniva dalle condizioni climatiche e di territorio altamente favorevoli per la coltivazione della vite, tanto da far registrare, ogni anno, un surplus di prodotto, a dispetto della piccola porzione di terreno a essa dedicata, che trovava facile sbocco nel mercato francese mediante l’intensificazione delle rotte commerciali marittime. Il rischio paventato dalla monografia era che la convenienza a esportare l’uva grezza avrebbe potuto mettere in crisi gli stabilimenti vinicoli volti a dare centralità alla qualità e alla tipicità della produzione siciliana.
La Calabria, grazie al clima autunnale caldo e secco e alla mitezza di quello invernale, si poneva in chiara continuità con la Sicilia, dedita a una produzione intensiva con un’alta gradazione alcolica, facilmente conservabile e nel complesso economica. La prossimità con la Sicilia consentiva di usufruire dei medesimi mercati esteri di sbocco, di cui la Francia occupava un ruolo di assoluto rilievo19.
La Sardegna mostrava anch’essa lineamenti in buona parte omogenei a quelli della Sicilia, con alcune importanti discriminanti: la prima era che la vite era da considerarsi la coltura pressoché esclusiva a determinare il passaggio dalla coltura estensiva o a pascolo a quella intensiva. La seconda era dovuta al tratto maggiormente speculativo di questa regione, tanto che spesso si coltivavano differenti varietà di vitigni in un medesimo vigneto, con notevoli danni dal punto di vista qualitativo, tali però da non limitare la portata quantitativa della produzione annuale. Infine, i bassi prezzi, accentuati dalla frammentazione delle proprietà, rendevano i vini sardi, di frequente secchi e quindi facilmente conservabili, più convenienti rispetto a quelli siciliani20.
In Puglia le trasformazioni colturali degli decenni seguenti all’unità erano state tra le più rilevanti a livello nazionale. Ancora una volta le sollecitazioni del mercato estero erano state determinanti in quanto i vini pugliesi si caratterizzavano per un elevato tasso alcolico, particolarmente ricercato dai mercati francesi. L’espansione riguardò inizialmente il circondario di Barletta, di tradizione il fulcro della viticoltura regionale, per poi diffondersi a gran parte delle campagne delle province pugliesi, soprattutto nelle aree caratterizzate da pianure, tanto da coinvolgere in modo sempre più tangibile l’area del Tavoliere. E’ interessante peraltro constatare che la forte espansione della viticoltura si innestò su di una situazione di decremento dei guadagni tratti dagli oliveti, mandorleti e seminativi, e si concentrò in terreni precedentemente considerati a basso rendimento, e perciò destinati a pascoli o lasciati alla macchia. La possibilità, inoltre, di un rapido spostamento del vino, attraverso le reti marittime e ferroviarie, divenne un polo d’attrazione per manodopera e capitali, e si trasformò in un traino per le attività economiche della regione, non solo per società enologiche italiane, ma anche straniere, che decisero di stabilire agenzie e magazzini a Barletta, Bari, Brindisi e Bisceglie21.
Le scuole di viticoltura ed enologia
Sull’istruzione agraria, e in particolare su quella viticola e vinicola, la classe dirigente del nuovo Regno sembrò concentrare larga parte delle sue speranze. Tale orientamento poggiava sulla solida convinzione che l’Italia dovesse rimanere, anche nel lungo periodo, una nazione eminentemente agricola: pertanto, il sistema formativo che si sarebbe dovuto sviluppare doveva fornire braccia alla terra, intesa come <<scuola di moralità, onestà, buona fede e cordialità, ispiratrice dell’amor di Patria>>22. Fu tuttavia subito evidente che in questo ambito l'eredità trasmessa dagli Stati preunitari era carente, sia per numero, sia per condizione23. Occorreva, pertanto, muoversi su due livelli distinti: l’istruzione agraria superiore e quella inferiore. Per quanto concerne il primo settore, agli inizi degli anni Settanta furono inaugurati i due istituti agrari superiori di Milano e di Portici, che rivestirono una funzione di rilievo nell’attività di studio e formazione su questioni relative al settore primario. In particolare, la “scuola di Portici”, come fu più semplicemente conosciuta nel mondo scientifico italiano e internazionale anche nel corso del ventesimo secolo, divenne la sede altamente qualificata dove gran parte del personale direttivo in questioni d'agricoltura, e nel caso specifico di viticoltura e di enologia, compì e perfezionò i propri studi.
In relazione all’istruzione inferiore orientata a raccogliere adolescenti e ragazzi delle campagne italiane, si impose l’esigenza di ricorrere a formulazioni meno generiche, anche in linea con i processi di specializzazione colturale evidenziatisi nel corso dei primi decenni post-unitari. Pertanto, nell’ottica di una maggiore attenzione per il consistente ampliamento della superficie vitata e il forte innalzamento della produzione vinaria, assunse rilevanza l’esigenza di dare vita a scuole regionali speciali che seguissero e cercassero allo stesso tempo di indirizzare gli importanti mutamenti colturali in atto nelle campagne italiane. Il basilare intento era di creare scuole in grado di armonizzarsi e dialogare con gli ambienti agricoli entro cui si collocavano e avrebbero dovuto agire, senza in alcun modo imporre in modo pregiudiziale saperi, innovazioni e tecniche estranei e lontani dalla realtà locale. La scuola di viticoltura ed enologia di Avellino, inaugurata nel novembre del 1880, fu la prima del Mezzogiorno, e la seconda in Italia, dopo quella di Conegliano in Veneto24. Fu fortemente voluta da Francesco De Sanctis, eminente intellettuale irpino e in quel frangente ministro della Pubblica Istruzione del governo di Benedetto Cairoli. Ed anche per questo motivo, fu una scelta dettata soprattutto da motivi politici piuttosto che da concrete esigenze scaturite dalla realtà agricola entro cui si situava. E in effetti fin dall’inizio dell’attività della scuola, accanto a pressanti problemi finanziari, emersero contrapposizioni e rigidità di natura ambientale. Si evidenziavano atteggiamenti di esplicita diffidenza e ostilità da parte delle famiglie, tali da compromettere l’ordinario funzionamento della struttura formativa. Più volte il direttore Michele Carlucci, tra i più apprezzati esperti di viticoltura dell’Italia liberale, evidenziò le difficoltà incontrate: «Le passate dominazioni, gli eccessi dei pubblici poteri civili, ecclesiastici e militari, hanno lasciato una triste eredità nello spirito di questi popoli, abituati a riconoscere come meritevole di considerazione e di stima solo chi riveste una qualsiasi carica pubblica nell'esercito, o nel clero o nelle amministrazioni»25. Così gli insegnanti erano guardati con sospetto e sfiducia, mentre gli stessi allievi erano giudicati come persone che o per inettitudine, o per pigrizia, erano stati dalle famiglie obbligati a compiere un mestiere umiliante. Sovente docenti e studenti erano oggetto di facile scherno e qualche volta si dovette ricorrere all’aiuto dell’autorità pubblica per fare cessare le contestazioni e le minacce contro il personale della scuola. «Questa popolazione - denunciava ancora Carlucci con toni decisi - non era quindi in grado di comprendere l'importanza della funzione che la Scuola era chiamata ad esercitare e assisté alla sua creazione, oltre che colla diffidenza, colla quale vengono accolte le cose nuove, anche col dispregio, di cui si è larghi verso le cose reputate volgari»26. La situazione migliorò con l’abbandono in parte dell’indirizzo esclusivamente viticolo, quando fu deciso che sia gli insegnamenti, sia le coltivazioni dei terreni della scuola, riflettessero maggiormente gli orientamenti colturali prevalenti dell’area irpina. Inoltre Carlucci si fece promotore degli insegnamenti ambulanti, cioè itineranti, mediante l’attivazione di lezioni e conferenze da tenersi per lo più il sabato e la domenica o nei giorni lavorativi in orari serali, nei luoghi dei borghi rurali in cui di solito la comunità contadina si riuniva. Il linguaggio utilizzato era volutamente dialettale in modo che da un canto i contenuti che si intendevano trasmettere potevano essere accessibili, dall’altro, non si frapponevano barriere linguistiche tali da impedire l’instaurazione di un rapporto di familiarità e cordialità tra insegnanti e contadini, soprattutto adulti, che erano i principali destinatari degli insegnamenti proposti.
Catania e Cagliari furono gli altri due centri in cui sorsero scuole di viticoltura ed enologia nell’Italia meridionale. La scuola siciliana fu istituita con decreto del 24 novembre 1881, ma dalla data di pubblicazione seguirono circa tre anni di stasi segnate da faticose trattative, che riguardarono principalmente la ricerca di un terreno destinato a sede della futura istituzione. Fu attivato il solo corso inferiore, volto a dare un’istruzione essenziale e pratica agli allievi, anche se la mancanza di un convitto rese la regolarità della frequenza problematica perché molti ragazzi necessitavano di usufruire di strutture ricettive27. Come era già accaduto per Avellino, anche a Catania l’esperienza progressivamente maturata spinse i responsabili a mutare alcuni degli iniziali orientamenti: così nell’estate del 1894 si decise di trasformare il corso inferiore in cicli di lezioni di brevissima durata, rivolti agli agricoltori di qualsiasi età e grado di istruzione, mentre, allo stesso tempo, si promossero conferenze itineranti nei luoghi più densamente viticoli, sollecitati anche dal rapido propagarsi delle infezioni fillosseriche che distrussero larga parte della viticoltura della provincia etnea28.
Più marginale fu la capacità di incidere della scuola di viticoltura ed enologia di Cagliari29. In questo caso si ritrovano molti dei problemi già incontrati ad Avellino, anche se sotto certi aspetti furono ulteriormente esasperati. Pertanto, un clima pesante, misto di sfiducia e di radicata diffidenza, si impose attorno alla scuola; era infatti opinione diffusa che i figli dei contadini non si sarebbero potuti iscrivere non solo per gravi difficoltà economiche, problema comune a tutte le altre scuole, ma perché completamente analfabeti: d’altronde, commentava il direttore della scuola Sante Cettolini, «L'operaio di campagna desidera ritrarre dai figli al più presto possibile qualche vantaggio dedicandoli ai lavori campestri»30. Per la mancanza di un adeguato numero di iscrizioni la scuola fu chiusa per lungo tempo. Le condizioni del podere risultavano pessime: il campo si estendeva per circa 16 ettari, e malgrado diversi lavori di scasso e di impianto, il direttore della scuola Cettolini lamentava che per le esercitazioni degli allievi era sempre necessario utilizzare altri vigneti della zona.
Rispetto alle scuole di viticoltura ed enologia, maggiore successo ebbe l’istituzione delle cantine sociali. Già a Cagliari, nel 1893, si diede vita ad una piccola cantina sociale con la finalità di raccogliere il prodotto e di vinificarlo in comune in modo da trarre vini che maggiormente corrispondessero alle domande del commercio e meglio retribuissero i proprietari dalle spese di coltivazione della vite31. Ma l’istituzione di nuove cantine si ebbe nei centri viticoli più importanti della Puglia e della Sicilia, come a Barletta, Noto e Risposto. In generale, esse furono ben accolte dalle popolazioni locali, e non incontrarono quei problemi di natura ambientale a più riprese denunciati da alcuni direttori delle scuole di viticoltura: probabilmente ciò può essere spiegato, sia dalla loro funzione eminentemente pratica e sperimentale, sia dal contesto più propriamente viticolo in cui furono collocate.
Nel complesso, il progetto formativo che le classi dirigenti del Regno d’Italia intesero perseguire fu volto a favorire un’ampia razionalizzazione delle importanti trasformazioni colturali che caratterizzarono le campagne meridionali dell’Italia liberale. Il limite di questo progetto, però, oltre che finanziario, era da connettersi agli scenari territoriali entro cui le scuole operavano; il confronto appariva squilibrato anche perché le consuetudini locali, fortemente cristallizzate nel tempo, si frapponevano a un sapere che spesso appariva alieno e incomprensibile a causa anche delle fratture linguistiche che segnarono la storia dell’Italia nei decenni successivi il compimento dell’Unità. Insomma, la relazione tra la presenza di una struttura scolastica e l’elevazione pressoché automatica delle nozioni tecniche nel territorio circostante non appariva scontato; i problemi da affrontare erano complessi ed erano da mettere in relazione a difficoltà e resistenze che non potevano essere vinte solo nell’ambito di una logica basata in modo pressoché esclusivo sulla contrapposizione. Anzi, quanto più questo atteggiamento tese a rafforzarsi, tanto più separazioni e cesure sembrarono insanabili fra i portatori di un sapere, seppure scientificamente fondato ma intrinsecamente elitario e autoreferenziale, e coloro che ne avrebbero dovuto essere i principali fruitori, eredi e portatori di una tradizione plurisecolare e segnata da una grande pervasività e organicità di contenuti. Il rischio, dunque, era l’accrescersi del distacco, alla cui base vi era una sostanziale incomunicabilità, fra il ceto dei tecnici e i lavoratori della terra, aspetto che si sarebbe esasperato nel corso della difficile congiuntura delle infezioni fillosseriche.
Lo scenario muta: le infezioni fillosseriche in Sicilia
In effetti, l’assenza di dialogo emerse fin da subito in occasione della rapida diffusione delle infezioni fillosseriche in Sicilia. Infatti, l’isola, e più in generale l’Italia che fino alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento avevano goduto di una condizione di forte vantaggio in quanto esenti dalla distruzione dei vigneti a causa del parassita e allo stesso tempo produttori privilegiati dei mercati francesi, nel giro di un brevissimo lasso di tempo videro tale condizione andare incontro a un traumatico sconvolgimento32.
Come si è già evidenziato in precedenza, in Sicilia la viticoltura aveva conseguito vistosi avanzamenti. Infatti, all'interno del contesto eminentemente agricolo dell’isola che assorbiva larga parte della manodopera, la coltura della vite esercitava un ruolo centrale ed era considerata la più produttiva dopo quella dei cereali. Si era così passati dai 120.000-130.000 ettari degli anni Cinquanta ai circa 200.000 all'inizio degli anni Settanta, fino a superare i 300.000 ettari negli anni Ottanta33. La rilevanza del settore era confermata dalla capacità di assorbire consistenti aliquote di manodopera. Giuseppe Inzenga, direttore degli Annali Siciliani e docente di economia ed estimo rurale presso la scuola di applicazione degli ingegneri di Palermo, si soffermò proprio su questo aspetto, considerando la viticoltura come «la valvola di sicurezza contro la campestre miseria (...) il pane certo e sicuro del campestre proprietario»34. Di conseguenza, il possesso di piccoli vigneti da parte dei contadini si rivelava fonte di un certo benessere, e consentiva di assicurare il mantenimento di un discreto ordine sociale, tanto da «essere molto lontani di osservare fra noi quelle campestri agitazioni, che in terraferma si agitano spesso fra contadini e proprietari, quando ai primi per un caso qualunque, messi colle spalle al muro, manca un tozzo di pane per potersi sfamare alla giornata»35.
Fu così inevitabile che nei primi mesi del 1880 la scoperta delle prime infezioni in provincia di Caltanissetta, che pure era tra le zone meno densamente viticole dell’isola, generasse un diffuso senso di preoccupazione, alimentata peraltro anche dalla sostanziale impreparazione del personale addetto alle ispezioni dei vigneti. Il disagio trovò sbocco in poco tempo in massicce proteste e manifestazioni, sostenute in sede parlamentare dalla deputazione siciliana, formata in larga parte da grandi proprietari dei campi vitati. In realtà, accertare con prontezza la presenza della fillossera non era operazione semplice, poiché nell'isola il parassita aveva assunto la peculiarità, fino a quel momento del tutto sconosciuta in altre località, di spingersi nelle radici più profonde. Si procedette, sulla base delle disposizioni di legge approvate l’anno prima, alla generale distruzione dei campi ritenuti infetti e delle aree contigue. Questa scelta, imposta in modo indiscriminato e risoluto, accrebbe di gran lunga le proteste già in atto, con l’appoggio determinante dei rappresentanti politici locali36. Del resto, da un punto di vista concettuale gli esperti si mostravano indecisi sull’adozione generalizzata del metodo distruttivo delle vigne infette, sia perché a livello internazionale, e soprattutto nelle campagne francesi, si era mostrato inefficace mentre proprio in quegli anni altre strategie, come l’innesto della vite europea su quella americana, si sperimentavano con successo; sia per i pesanti oneri che gravavano sullo Stato nel dovere indennizzare i proprietari dei campi vitati infetti37. Nel frattempo, la fillossera era rinvenuta in altre province siciliane, più densamente viticole: dapprima a Messina, poi a Catania, fino a giungere nelle aree più intensamente viticole del ragusano, quali Noto e Pachino. Il rapido propagarsi del parassita costrinse il personale tecnico a decidere per l’abbandono del metodo distruttivo38. Scelta che non fu accompagnata dall’adozione di soluzioni alternative, eccetto un generico richiamo all’utilizzo di insetticidi per cercare di mantenere in vita vigneti, che pur assicurando ancora vini di buona qualità, erano ormai destinati a estinguersi di lì a poco a causa dell’inesorabile attacco del parassita. Né la scoperta di estese infezioni in altre zone dell'isola frenò l'impianto di nuovi vigneti, che sull’onda dell’opportunità di esportare nei mercati francesi rilevanti quantità prodotto per lo più grezzo continuò in maniera incessante e senza alcune basilare norma preventiva, sintomo di quanto i coltivatori del posto ritenessero remota l'eventualità di un rischio di propagazione del parassita nelle loro campagne. I protagonisti delle rilevanti trasformazioni colturali furono soprattutto i contadini e i coloni, sollecitati dall’opportunità di incrementare i propri guadagni mediante la produzione di vino. Alle spese iniziali d’impianto, in generale, «si provvedeva ricorrendo a prestiti usurai, sotto forma cambiaria, presso privati o presso banche popolari, le quali riscontravano gli effetti presso gl'istituti di emissione»39.
Si rimaneva dunque immersi nell’ambito di una palese contraddizione: da un canto il rapido estendersi delle infezioni, presenti in larga misura in Sicilia ma anche in altre regioni meridionali, quali la Sardegna e la Calabria, dall’altro l’assenza di una strategia a livello governativo in grado di pianificare la lotta contro la fillossera, con la conseguenza pressoché scontata e immediata che la sorte dei vigneti ancora esistenti o che si andavano ricostruendo sarebbe stata inevitabilmente segnata, senza l’adozione di misure preventive atte a evitare il contagio delle infezioni.
In effetti la ricostruzione dei campi proseguì in maniera incessante e autonoma fino al 1887, anno della denuncia del trattato doganale con la Francia, che determinò un repentino crollo delle esportazioni in quel Paese. Da quell’anno, infatti, il quadro mutò in modo sostanziale e risulto inopportuna la ricostruzione dei campi realizzata in modo anarchico, senza avere peraltro la sicurezza che la produzione vinicola fosse assorbita all’estero.
Ed è proprio in questo frangente che nell’isola si perseguì con maggiore determinazione che nel passato la parziale ricostruzione dei campi con viti americane su cui erano poi innestati i vitigni europei, soluzione già adottata da tempo nelle campagne francesi e che dava buone garanzie di riuscita40.
Nel complesso, se prima della comparsa del parassita la vite si estendeva non soltanto lungo le coste pianeggianti, ma in zone interne e nei pressi dei paesi collinari o montani, in seguito allo sviluppo delle infezioni fillosseriche, la tradizionale geografia viticola dell'isola ne uscì profondamente sconvolta. In molte contrade interne e montuose la vite scomparve del tutto, e il processo di ricostruzione dei vigneti su piede americano si concentrò nelle fertili campagne costiere. Si calcolò che su 308.000 ettari di vigneto esistenti in Sicilia prima dell'invasione fillosserica, soltanto 78.000 erano sopravvissuti fino al 1903; dei 230.000 distrutti se ne erano potuti ricostruire sempre fino a quell'anno 73.000, vale a dire meno di un terzo41. La perdita complessiva causata dalla fillossera ammontò a circa 800.000.000 di lire e la ricostruzione dei vigneti richiese notevoli capitali da investire, poiché l'impianto di 1000 viti innestate attraverso lo scasso costava dalle 500 alle 600 lire, mentre senza questa preliminare operazione, che aveva la funzione di bonificare il terreno infetto per impedire l'insorgere di nuovi focolai fillosserici, oscillava tra le 250 e le 400 lire. Il governo cercò di aiutare i viticoltori siciliani attraverso la distribuzione a basso costo di talee e viti americane coltivate nei vivai posti in diverse località viticole dell'isola: tuttavia, coloro che pagarono maggiormente il costo dell'invasione fillosserica furono i contadini ed i piccoli proprietari42.
I consorzi antifillosserici in Puglia
Come si è evidenziato nell’analisi della Carta vinicola italiana, le campagne pugliesi erano state largamente coinvolte nel processo di espansione della viticoltura e della produzione vinicola. Pertanto, fu inevitabile che la scoperta delle prime macchie fillosseriche nel 1899 in provincia di Bari suscitassero grande allarme. Sollecitati anche da quanto si era verificato in Sicilia e motivati dalla rilevanza degli interessi in gioco, i grandi proprietari pugliesi, che in larga parte costituivano la deputazione parlamentare della regione, decisero di elaborare una comune proposta che disciplinasse l’istituzione di consorzi antifillosserici. Pertanto, soprattutto per iniziativa di Eugenio Maury, grande proprietario di vigneti a Cerignola ed eminente politico meridionale, si giunse alla redazione di un disegno di legge, presentato al ministro dell’Agricoltura Antonio Salandra in occasione di un suo viaggio a Bari, avvenuto subito la scoperta delle prime infezioni fillosseriche. La proposta presentava tratti palesemente innovativi, e si soffermava in larga parte sull’esigenza impellente di creare consorzi antifillosserici, sostenuti parzialmente da contributi finanziari dei titolari dei vigneti dell’area coinvolta. I principali obiettivi dei consorzi erano di garantire la sorveglianza dei vigneti, la preventiva esplorazione dei campi sospetti e la creazione di vivai volti alla produzione di talee e viti resistenti alla fillossera per accelerare la ricostruzione con portainnesti americani43. Salandra recepì e fece propria la proposta, che in tempi rapidi si trasformò in legge44. La lotta contro la fillossera si sviluppò dunque in modo diverso rispetto a quanto era accaduto in Sicilia. Il coinvolgimento dei proprietari, anche sotto il versante finanziario, era evidente, come del resto l’esigenza di adottare senza incertezze la soluzione di ricostruire i vigneti su piede americano45. Sembrava dunque porsi su basi diverse il complesso rapporto fra tecnici e proprietari e affittuari dei campi vitati.
Il funzionamento dei consorzi, però, fu tutt’altro che agevole: in primo luogo si frapposero ostacoli di natura amministrativa, incentrati soprattutto in merito all’elaborazione dei regolamenti attuativi, tanto che la loro operatività avvenne con palese ritardo rispetto ai tempi previsti dalla legge. In secondo luogo, malgrado il clima collaborativo realizzatosi nella fase preparatoria, le nuove istituzioni furono guardate con diffidenza: in particolare, si accentuò la divisione, e in alcuni casi la contrapposizione, fra tecnici preposti alla direzione dei consorzi e proprietari e affittuari dei campi vitati. A fare il punto della situazione fu Leobaldo Danesi, responsabile dei consorzi pugliesi e della provincia di Teramo, in un’accurata relazione del luglio 1907. Da quanto riportato si evinceva che nelle quattro province interessate – Bari, Lecce, Foggia e Teramo – si erano costituiti 55 consorzi, di cui 35 nel barese, 12 nel leccese, 6 in Capitanata e 2 nella provincia abruzzese. Nel complesso, gli enti possedevano 79 vivai di viti americane che, soprattutto nella stagione invernale, mettevano a disposizione dei viticoltori associati talee e barbatelle sulla base della norma che prevedeva la distribuzione ai soci in proporzione al contributo pagato annualmente. Il numero dei consorzi volontari fra i proprietari dei campi vitati, invece, permaneva basso, anche perché il sostegno finanziario del ministero dell’Agricoltura affinché si promuovessero questo tipo di associazioni, a distanza di tempo, si mostrava del tutto inadeguato46. Fu questa la ragione per cui si decise una parziale revisione della legge, per cui il ministero dell’Agricoltura si riservava il diritto di istituire il consorzio di propria iniziativa, quando la mancata realizzazione da parte dei proprietari locali avesse rappresentato un grave danno alle campagne dei comuni e delle province limitrofe47. Nel 1913 fu poi varata una nuova legge volta a decentrare la lotta contro le infezioni favorendo la concessione di mutui ai consorzi da parte della Cassa depositi e prestiti per l’ammontare di due milioni di lire annui48. Le agevolazioni previste dalla nuova legge erano state insistentemente richieste dai deputati pugliesi, i quali in Parlamento ne furono i più accesi sostenitori. Eppure, malgrado tali concessioni, i progressi furono modesti: complessivamente tra il 1910 e il 1915 il numero dei consorzi passò da 101 a 113, di cui la maggioranza era ancora in Puglia. In altre aree gravemente colpite dalle infezioni, quali la Sicilia e la Sardegna, invece, i consorzi erano appena due, uno a Marsala e un altro nelle campagne del cagliaritano.
Ancora una volta fu Eugenio Maury a spiegare con chiarezza i motivi che impedivano un sensibile incremento dei consorzi. Nel corso di un acceso dibattito alla Camera sul bilancio del Ministero dell’Agricoltura del 1916, il deputato pugliese denunciò il mancato rispetto delle norme previste nella legge del 1913, che pure aveva fatto ben sperare. La situazione, infatti, era andata incontro a un marcato peggioramento poiché i mutui che i consorzi potevano contrarre con la Cassa depositi e prestiti furono ben presto sospesi, mentre lo stanziamento di un milione di lire che il ministero era solito destinare per la lotta contro la fillossera, già insufficiente, fu ridotto a 400.000 lire. In sostanza, i consorzi continuarono a dibattersi fra notevoli difficoltà economiche, senza poter usufruire delle agevolazioni finanziarie che la legge del 1913 concedeva, mentre l’impegno a livello ministeriale tendeva sempre più a diradarsi49.
Nuovi tratti della geografia viticola meridionale
Il progressivo diffondersi delle infezioni fillosseriche apportò sostanziali cambiamenti alla geografia viticola italiana. L'ufficio di statistica, istituito nel 1909 presso la direzione generale del ministero dell'Agricoltura, avviò un'indagine al fine di accertare la superficie agraria destinata alla produzione agraria e forestale. Nella nuova statistica la superficie vitata era distinta in due categorie: in quella più estesa del seminativo associato con l'arborato vitato, o con le viti, detta coltura promiscua, e nell'altra, di minore estensione, dei vigneti esclusivi o con alberi fruttiferi, denominata coltura specializzata. Nel Mezzogiorno quest'ultimo sistema era molto frequente prima delle infezioni fillosseriche, caratterizzato da un’elevata densità di vigneti, mentre altri alberi di frutta erano di gran lunga marginali. In seguito alla ricostruzione su piede americano, la vite tese a ridimensionarsi e fu sempre più associata a olivi e mandorli poiché i profitti ricavati dalla produzione di vino risultarono, all’indomani della chiusura delle relazioni commerciali con la Francia, decisamente inferiori. Infatti il rischio, concretizzatosi più volte agli inizi del Novecento, era il verificarsi di frequenti crisi di sovrapproduzione, soprattutto in Sicilia e in Puglia, le due regioni meridionali maggiormente colpite dalle infezioni fillosseriche.
Così, al termine del periodo che nella cronologia storica italiana si suole determinare Italia liberale, la geografia viticola era profondamente mutata: la maggiore frequenza delle viti si riscontrava in Emilia e nelle Marche, in cui circa i due quinti del territorio erano vitati, sia pure con poca intensità; seguivano il Veneto, la Toscana, la Campania, l'Umbria ed il Lazio, mentre in Sicilia e in Puglia circa un dodicesimo della superficie agraria era occupato da viti50. Tuttavia questa classificazione non offriva un'idea precisa dell'importanza della coltura della vite per ciascuna regione, poiché variava di molto l’intensità della coltivazione. In alcuni casi, infatti, a una grande diffusione della vite sul territorio non corrispondeva una rilevante produzione di uva. Per compiere, invece, un'analisi più dettagliata, appariva indispensabile distinguere all'interno della superficie vitata, quella a coltura promiscua e quella di tipo specializzato. Con l’adozione di questi più approfonditi criteri emergeva il ruolo di rilievo esercitato dal Piemonte, Puglia e Campania.
Nell’ambito dei singoli contesti regionali, in Piemonte si riscontrava il maggior raccolto di uva, ed era anche al primo posto per la produzione che derivava dai terreni vitati a coltura promiscua. In questa regione, la più evoluta dell'industria enologica della penisola italiana, la zona collinare continuava ad avere massima importanza51. Notevole era il balzo in avanti compiuto dalla Campania, dovuto, anche in questo caso, principalmente alla produzione che derivava dalle colture associate. La Puglia permaneva su posizioni di rilievo, anche se fra le colture specializzate i vigneti tesero progressivamente a occupare meno terreni rispetto alla fase antecedente le infezioni, sostituiti in larga parte dagli oliveti. In Sicilia era tangibile l'arretramento, determinato dal fatto che il processo di ricostruzione dei vigneti era stato realizzato soltanto parzialmente, soprattutto all’indomani della rottura del trattato commerciale con la Francia del 1887, determinando in tal modo importanti de durature modificazioni colturali. Vi era tuttavia una continuità rispetto al passato: nell'isola la piantagione di nuovi campi vitati sembrava indirizzarsi, come del resto in Puglia, ma anche in Sardegna e in Calabria, nell'impianto di campi vitati specializzati associati, con maggiore frequenza che nel passato, ad altre piante legnose, trascurando invece la coltura promiscua. In definitiva, in queste regioni meridionali il tratto della coltura specializzata non fu abbandonato, sebbene i vigneti occupassero meno spazio che nei decenni precedenti. Questa strategia evidenzia che fra i proprietari e affittuari si diffuse la consapevolezza che la produzione viticola e vinicola non assicurava più gli stessi guadagni, come era avvenuto nei decenni in cui vi erano strette relazioni commerciali fra Italia e Francia, e dunque si preferì parzialmente sostituire i campi fillosserati, la cui ricostruzione peraltro imponeva costi elevati, con altre colture arboree.
Rimaneva sullo sfondo la grande questione di un sensibile miglioramento qualitativo della produzione vinicola del Mezzogiorno d’Italia, che invece, come si è visto, nei decenni seguiti alla proclamazione del Regno d’Italia si era adagiata nella facile prospettiva di spedire grandi quantità di prodotto, per lo più allo stato grezzo, senza alcuna preoccupazione in relazione alla qualità. Questione che avrebbe costituito la sfida dei decenni successivi, e a cui oggi ci si può orientare nel dare un giudizio complessivamente positivo, se si considera che, pur tra varie e crescenti difficoltà connesse ai processi di globalizzazione in corso, la qualità e la tipicità dei vini meridionali è riconosciuta ed apprezzata a livello internazionale.