Montalcino e il suo Brunello: evoluzione e affermazione.

Translation(s):
Montalcino et son Brunello : évolution et succès.

Abstract

There is a crucial question, related to the reasons why Montalcino, a land where its wine is appreciated for centuries, until the end of the Sixties of the Twentieth Century, has not developed the wine potential production that it held. It is a complex process which interweaves the most important historical events of the Italian Twentieth Century and often played a key role in the realization of the enormous heritage that Montalcino people had at their disposal. Two world wars, the economic boom of the Fifties and the serious state of crisis, in which the countryside went through, didn’t certainly encouraged a production that only in the Eighties became a real source of pride for the Italian viticulture in the world. The winning formula for Brunello di Montalcino was the fellowship between tradition and marketing, respectively represented by Biondi Santi family and Villa Banfi, after having achieved the authorization for DOC before and DOCG after. The history of this famous wine and men, who have been able to build with wise dedication the value and image of Montalcino, outlines a process in which the original values ​​of the rural world are completed in a more modern approach to doing business. Even after the unpleasant events of Brunellopoli, Montalcino, already strong and aware of the immense heritage in its possession, managed to release an icon that, though for short time, was likely to be compromised.

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Introduzione

Affrontando il tema della nascita e dell’evoluzione di un territorio vitivinicolo di eccellenza quale è Montalcino, si pone un interrogativo di fondo: quello relativo alle ragioni per le quali questa terra, che vede apprezzato il suo vino da secoli, fino alla fine degli anni Sessanta del Novecento non abbia sviluppato pienamente il proprio potenziale produttivo. La risposta passa attraverso un percorso complesso che si intreccia con le più importanti vicende storiche del Novecento italiano, che spesso hanno giocato un ruolo chiave nella presa di coscienza dell’immenso patrimonio che i Montalcinesi avevano a loro disposizione. Due guerre mondiali, il boom economico degli anni Cinquanta e il grave stato di crisi in cui versavano le campagne non hanno certamente incentivato una produzione che solo negli anni Ottanta diventò vero motivo d’orgoglio per la viticoltura italiana nel mondo. La formula vincente per il Brunello di Montalcino fu il sodalizio tra tradizione e commercializzazione, rispettivamente rappresentati dalla famiglia Biondi Santi e da Villa Banfi, dopo aver ottenuto il riconoscimento prima della DOC e poi della DOCG. La storia di questo celebre vino e degli uomini che hanno saputo costruire con sapiente dedizione il valore e l’immagine di Montalcino delinea un percorso articolato, in cui i valori originari del mondo contadino si completano in una più moderna concezione del fare impresa. Anche a seguito alle spiacevoli vicende di Brunellopoli, verificatesi nel 2008, Montalcino, ormai forte e consapevole dell’immenso patrimonio in suo possesso, è riuscito a riscattare un’immagine che, seppur per poco tempo, ha rischiato di essere irrimediabilmente compromessa.

Il paesaggio montalcinese

Montalcino è un piccolo centro nel cuore della Val d’Orcia: dolci colline, boschi e viali di cipressi, ma non solo; 3.500 ettari di vigneti specializzati, di cui 2100 a Brunello. Oggi si contano 250 produttori, di cui 208 imbottigliatori, con una superficie media per azienda di 12 ettari e un fatturato medio annuo di 150 milioni di euro. Cifre enormi se si considera che cinquant’anni fa Montalcino non solo era un’area molto depressa, ma anche uno dei comuni più poveri della provincia di Siena, dove la mezzadria era la forma di conduzione maggiormente praticata.

Montalcino si trova a circa 40 chilometri a Sud di Siena; il territorio è delimitato dai fiumi Orcia, Asso e Ombrone e ha una superficie di 243,62 chilometri quadrati, di cui il 29% pianura, il 70% collina e l’1% montagna. È il comune più grande della provincia di Siena, con un’economia prevalentemente agricola, che occupa però solo il 56% della superficie municipale, così distribuita: l’8% è occupato da oliveti, il 12% da vigneti, di cui il 62,8% iscritti all’albo del Brunello, il 36% da seminativi e pascoli; il restante 44% è una distesa di boschi, che per molti anni rappresentarono un’importante risorsa economica per la popolazione montalcinese (Figura 1).

Figura 1: Ripartizione d’uso della superficie agricola a Montalcino nel 20091.

Figura 1: Ripartizione d’uso della superficie agricola a Montalcino nel 20091.

L’intero territorio si è formato in ere geologiche diverse, presentando quindi caratteristiche del suolo estremamente diverse per costituzione e struttura: permangono porzioni di terreno ricco di calcare frammisto a scheletro, costituito da scisti di galestro e alberese; vi sono aree con maggiore presenza di argilla e infine zone composte da depositi di detriti alluvionali. Il clima è tipicamente mediterraneo, con precipitazioni concentrate nei mesi primaverili e autunnali, mentre in inverno, al di sopra dei 400 metri, non sono rare le nevicate. La collina su cui si erge Montalcino dista dal mare 40 chilometri e la vicinanza del Monte Amiata crea una protezione importante contro il verificarsi di eventi di particolare intensità, quali le forti precipitazioni o le grandinate. La fascia di media collina, in cui è concentrata la maggior parte delle aziende vitivinicole, non è di norma interessata da nebbie, gelate o brinate tardive, che possono invece riguardare le zone vallive, mentre la frequente presenza di vento garantisce le condizioni migliori per lo stato sanitario delle piante.

Figura 2: Vigneto nell’area meridionale di Montalcino. Sullo sfondo, a sinistra, il Monte Amiata (Fotografia dell’autore).

Figura 2: Vigneto nell’area meridionale di Montalcino. Sullo sfondo, a sinistra, il Monte Amiata (Fotografia dell’autore).

Infine, la presenza sul territorio di versanti con orientamenti diversi, la marcata modulazione delle colline e uno scarto altimetrico piuttosto pronunciato determinano dei microambienti climatici molto diversi l’uno dall’altro, seppure, talvolta, estremamente vicini, tanto che non è raro trovare un vigneto che abbia caratteristiche assai diverse da quello distante poche decine di metri.

Per quanto concerne la produzione vinicola, per il Brunello essa si attesta mediamente su 8,5 milioni di bottiglie; di questa quantità il 65% è venduto all’estero, ripartito per il 25% negli Stati Uniti, per il 7,5% in Germania, per il 7% in Svizzera, per il 5% in Canada, per il 3% in Inghilterra così come in Giappone, mentre il restante 14,5% è distribuito in altri 60 Paesi.

Figura 3: La destinazione estera del Brunello nell’anno 20092.

Figura 3: La destinazione estera del Brunello nell’anno 20092.

Il 35% residuo è destinato al mercato interno; le principali regioni di vendita sono la Toscana, che ne assorbe circa il 7%, il resto dell’Italia Centrale il 5%, il Nord Italia l’8%, il Sud Italia il 2% e infine Montalcino che da sola ne trattiene il 13%, di cui l’8% per vendita diretta in azienda.

Figura 4: La destinazione interna del Brunello nell’anno 20093.

Figura 4: La destinazione interna del Brunello nell’anno 20093.

La produzione media annua degli altri vini montalcinesi riguarda il Rosso di Montalcino per 4 milioni di bottiglie, il Moscadello per 80 mila bottiglie e il Sant’Antimo per 500 mila bottiglie; dalle vinacce di Brunello si producono invece circa 250 mila bottiglie di Grappa. Complessivamente, gli ettari vitati a Montalcino sono 3.500, così ripartiti: 2.100 ettari coltivati a Brunello di Montalcino (nel 1967 erano appena 64), 510 ettari coltivati a Rosso di Montalcino, 50 ettari coltivati a Moscadello, 480 ettari coltivati a Sant’Antimo Doc e la restante parte a Igt.

Figura 5: Ettari vitati a Montalcino nel 20094.

Figura 5: Ettari vitati a Montalcino nel 20094.

Le origini

Storicamente, l’economia imprenditoriale montalcinese era sopravvissuta fra crisi e riprese fino alle soglie dell’Ottocento. Allora i capitali residui si erano rivolti alla terra, ma, allo stesso tempo, si era assistito al fossilizzarsi di un’economia agricola in mano principalmente ad un unico ceto sociale, appagato dagli automatici profitti dati da un’agricoltura arcaica, nella quale il contratto di mezzadria raggiungeva il 95% della forma di conduzione.

In un contesto segnato da un sostanziale immobilismo di fondo, fece però breccia nella seconda metà dell’Ottocento Clemente Santi, che mise al centro dei suoi studi nozioni scientifiche utilissime per la pratica dell’agricoltura, con particolare attenzione alle viti e agli ulivi, insieme ad indicazioni dettagliate per ottenere una produzione di alta qualità5.

Negli anni Ottanta dell’Ottocento una nuova leva di viticoltori Montalcinesi si fece strada; primo tra tutti, Ferruccio Biondi Santi, nipote di Clemente Santi6. Costui, forte dell’esperienza del nonno materno, si dedicò con competenza all’azienda del Greppo, iniziando una metodica selezione clonale del Sangiovese; alla fine, reimpiantò completamente tutti i suoi vigneti, innestandoli su barbatelle selvatiche, con gemme prese dalle piante madri e individuate nella sua tenuta7; in questo modo, nel 1888, portò a battesimo il Brunello e ancora oggi due bottiglie di quella memorabile annata sono custodite nel caveau dell’azienda agricola della famiglia Biondi Santi8. Ferruccio limitò di proposito le rese per ottenere uve più ricche di corpo, di estratti e d’acidità, selezionando solo i grappoli migliori per i vini da imbottigliare; il suo Brunello, naturalmente ricco di tannini, con un elevato grado di acidità totale, proprio come quello odierno, veniva invecchiato per anni in botti di rovere di Slavonia.

Con la Prima Guerra Mondiale che coinvolse l’Italia dal 1915, si manifestò da parte dei produttori di Montalcino, una caduta di interesse per il vino, sostituito con la produzione di alimenti di prima necessità. Nel 1917 morì Ferruccio Biondi Santi mentre altri importanti produttori di quei tempi vendettero le proprietà ed emigrarono.

Negli anni Venti la situazione non cambiò di molto; quando nel 1925, il governo fascista lanciò la battaglia del grano, per raggiungere l’obiettivo degli 80 milioni di quintali, gli agricoltori Montalcinesi furono di riflesso incentivati verso tale produzione, soprattutto grazie ai cospicui premi in denaro elargiti dai numerosi concorsi provinciali.

Per tutti questi motivi, l’interesse per il vino, che si era sviluppato tra fine Ottocento e inizio Novecento, si affievolì sensibilmente; neanche la filossera, che aveva fatto la sua comparsa in Italia negli Settanta dell’Ottocento e per la quale le autorità avevano impartito precise indicazioni di contrasto, era stata così determinante nel tentativo di frenare lo sviluppo della viticoltura. L’origine della crisi va dunque attribuita all’indirizzo generale della politica produttiva dell’Italia, che non incentivò l’affermazione di un’imprenditorialità vitivinicola.

Tancredi Biondi Santi, figlio di Ferruccio Biondi Santi, fu il solo che, nonostante tutte queste difficoltà, mai abbandonò la produzione di Brunello e più in generale di vino. Le prospettive di sviluppo potevano assumere tratti decisamente concreti, anche se non tutti i padronati Montalcinesi ne compresero l’utilità e lo scopo. Tancredi fece da forza trainante per tutta la comunità e nel 1926 ricoprì un ruolo chiave per la costituzione della Cantina Sociale. In ogni caso, la sua più grande eredità consiste nella pratica della ricolmatura; Tancredi si accorse infatti che le vecchie Riserve stavano calando di livello a causa di una perdita di aderenza del tappo in sughero, che si decompone naturalmente dopo diversi anni. Così, egli stappò le bottiglie, controllò che il vino fosse ancora perfetto, le ricolmò con vino della stessa annata e le richiuse con tappi nuovi9.

Queste esperienze rappresentano un’eccezione in un contesto ancora piuttosto arretrato; negli anni Cinquanta e Sessanta, le condizioni economiche di Montalcino erano ancora stagnanti. Il fronte, durante la Seconda Guerra Mondiale, aveva fatto terra bruciata e in questi anni, oltre a non mettere viti a dimora e quindi non incrementando la produzione, non si investiva neanche negli altri settori agricoli. I mezzadri, che rappresentavano la maggioranza dei residenti del comune, secondo il censimento del 1951 quando la popolazione contava 10.203 individui, non sopportavano più le durissime condizioni di vita cui erano sottoposti. Vent’anni dopo si registrava un calo dell’38,2% in meno di residenti rispetto al censimento del 1951, un vero crollo demografico che andava allargandosi a tutti i ceti sociali10.

Doc e Docg

In soccorso dei Montalcinesi venne la legge quadro sulla tutela della Denominazione di Origine Controllata dei vini11, con la quale il Brunello acquisiva a tutti gli effetti le prerogative per essere riconosciuto come un grande vino. La DOC fu attribuita al Brunello di Montalcino il 28 marzo 1966; tra tutti i grandi vini italiani a ricevere la Denominazione di Origine Controllata, il Brunello di Montalcino fu il settimo in ordine di tempo e con un disciplinare molto severo, tale da scoraggiare una partecipazione di massa alla sua produzione. Gli organi competenti del Ministero dell’Agricoltura accolsero in blocco la bozza presentata dai produttori e orientata sullo standard di produzione del Brunello di Tancredi Biondi Santi, i cui sistemi di coltura del vitigno Sangiovese e di vinificazione avevano sempre fatto testo in materia.

Il Disciplinare stabiliva che il Brunello doveva essere ottenuto dalla vinificazione delle sole ed esclusive uve del vitigno omonimo, il Sangiovese grosso, prodotte nel territorio del Comune di Montalcino, in particolare su terreni di natura eocenica, non superiori ai 600 metri di altitudine, con una resa massima di uva per ettaro non superiore ai 100 quintali in coltura specializzata e ai 25 quintali in quella promiscua. Uno degli aspetti più importanti era costituito dal lungo invecchiamento in botte prima di passare in bottiglia: quattro anni. Commercializzandolo prima, i produttori non avrebbero potuto chiamarlo Brunello, ed infatti una grossa parte della produzione veniva etichettata come Vino Rosso dai Vigneti di Brunello, anticamera del futuro Rosso di Montalcino.

Un anno dopo l’attribuzione della DOC nacque il Consorzio del Brunello, al quale Tancredi Biondi Santi non aderì perché, malgrado fosse stato chiamato a presiedere la costituente del Consorzio stesso, disapprovava l’utilizzo in etichetta del nome Brunello anche per i vini più giovani di quatto anni; secondo Tancredi, quei vini speculavano sul loro “fratello maggiore”, il Brunello, per il fatto di utilizzare la stessa dizione. Tancredi Biondi Santi propose allora, ma invano, la dizione di Vino di Montalcino; solo nel 1984, dopo diciotto anni, quelle stesse etichette furono cambiate per legge in “Rosso di Montalcino”.

Con la Denominazione di Origine Controllata arrivarono quasi di pari passo anche i contributi per la rinascita dell’agricoltura italiana. Il Feoga12 cominciò a finanziare con le casse della Comunità Europea numerosi progetti per l’impianto di nuovi vigneti; grazie quindi a questi contributi, oltre a quelli dei Piani verde 1 e 213, e ai grossi sacrifici personali dei produttori, si poté procedere alla radicale trasformazione dei vigneti, soprattutto eliminando quelli a coltura promiscua, che lasciarono definitivamente il posto a quelli specializzati.

I nuovi produttori, figli della rinascita agricola montalcinese, intrapresero questo percorso consapevoli delle notevoli difficoltà cui sarebbero andati incontro; per chi doveva piantare ex novo si trattava di attendere ben sette anni prima di poter immettere sul mercato una bottiglia di Brunello: tre per avere la produzione dell’uva atta ad essere vinificata e quattro per l’invecchiamento imposto dal Disciplinare. Si possono facilmente comprendere i grossi sforzi finanziari compiuti da grandi e piccoli produttori e anche i motivi per cui si incoraggiò l’immissione sul mercato di un vino, il “Rosso di Montalcino”, che, pur provenendo dalle stesse uve del Brunello, non ne aveva tutte le caratteristiche perché invecchiato in botte per solo un anno.

Dopo qualche anno, i produttori di Montalcino realizzarono che la DOC non sarebbe bastata a tutelare la qualità del vino, anche perché nel frattempo erano sorte nuove aziende agricole e perché la stessa legge 930 prevedeva, come certificazione più prestigiosa per un vino, la Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG). Questo riconoscimento, contraddistinto dalla fascetta di Stato, viene concesso solo per quei vini che hanno indiscutibili caratteristiche qualitative e raggiunta una certa notorietà sui mercati internazionali; naturalmente devono essere sottoposti a specifici controlli, il più importante dei quali consiste, oltre che nelle analisi chimico-fisiche, in una prova di degustazione effettuata da un’apposita commissione di esperti.

Il decreto venne firmato il 1 luglio 1980 e il Brunello di Montalcino fu così il primo vino italiano ad ottenere la DOCG, superando di poco anche il Barolo e il Barbaresco, le cui pratiche erano state presentate precedentemente.

Rispetto al Disciplinare DOC, quello DOCG presentava alcune differenze sostanziali, tra cui la diminuzione della resa di uva per ettaro. Il periodo d’invecchiamento restava fermo a quattro anni, di cui tre e mezzo in botti di rovere o di castagno; infine era proibita la correzione con altri vini o mosti, ad accezione di vino atto a diventare Brunello di Montalcino, di annata precedente e nella misura massima del 15%. Si trattava di ulteriori limitazioni a quelle già presenti nel Disciplinare DOC, ma soprattutto un’ulteriore prova di serietà e volontà da parte dei produttori montalcinesi, ben consapevoli del fatto che solo mantenendo alta la qualità del loro vino avrebbero potuto evitare quell’appiattimento di valori che si era riscontrato in altri vini italiani, e ispirando di conseguenza la massima fiducia nel consumatore, disposto ad avvicinarsi al Brunello e a spendere una cifra almeno doppia rispetto alla media dei vini italiani.

“Gli Americani”

Gli anni Settanta e Ottanta furono di grande impulso per l’attività viticola montalcinese. La DOC e la DOCG avevano garantito un riconoscimento legislativo ad una produzione di qualità; i Biondi Santi rappresentavano la storia di un vino che, benché di nicchia, stava conquistando il mercato estero; i vecchi mezzadri riuscivano ad acquistare, anche se con sforzi enormi, i poderi nei quali avevano sempre lavorato; mancava solamente la forza trainante della commercializzazione, che non tardò ad arrivare e che trasformò per sempre la piccola realtà rurale di Montalcino: Villa Banfi.

La società americana, di proprietà della famiglia italo-americana Mariani, operò a Montalcino grazie al consulente enologo di cui si serviva per l’importazione del Lambrusco negli Stati Uniti, Ezio Rivella. La “campagna acquisti” iniziò nel maggio 1977 e, già nel 1983 la nascente azienda aveva raggiunto una superficie di 2830 ettari, terreni tutti contigui, con al centro della proprietà il meraviglioso castello di Poggio alle Mura. Quest’operazione non poté lasciare indifferente la popolazione locale: il progetto risultava colossale, così come l’investimento finanziario e Montalcino si divise, tra chi sosteneva il colosso americano e chi invece lo criticava aspramente.

La Banfì si era inserita in un contesto ancora molto ingenuo, ma sicuramente ebbe un ruolo chiave nel processo di comunicazione e advertising, di cui Montalcino in quegli anni aveva bisogno. Si aprirono realmente le porte del mercato americano e non c’era altra azienda, se non un’azienda americana, che in quel momento potesse farlo meglio14. Il piano aziendale era studiato nei minimi dettagli e di fronte ad un investimento di tali dimensioni non c’erano molti margini di errore; la proprietà doveva essere contigua, perché il lavoro nei campi doveva essere il più razionale possibile; vasta, perché vasti dovevano essere i numeri di produzione; scenica, perché non si potevano deludere gli occhi degli americani che sarebbero venuti a visitare il loro gioiello nel cuore della Toscana. Quanto alla tipologia di vino da produrre, non potendo puntare sulla tradizione e sulla storia, come invece avevano fatto i Biondi Santi, la Banfi si propose di produrre un Brunello qualitativamente gradevole ma piuttosto facile al gusto, adatto a quei palati poco inclini alle asperità tipiche del Sangiovese, e, infine, con un prezzo che andasse a ricoprire una fascia di mercato leggermente più bassa rispetto alle etichette in commercio in quel momento.

Villa Banfi resta tutt’ora l’azienda più grande a Montalcino con un fatturato annuo di 64 milioni di euro e 10,5 milioni di bottiglie prodotte, di cui il 60% vendute all’estero. A partire dai primi anni Duemila ha avuto inizio una generale ristrutturazione aziendale e oggi anche il debito, dovuto ai forti investimenti sostenuti, si è significativamente ridotto. Se si considera che nel 1978 l’azienda non aveva ancora un fatturato, non si può che restare impressionati dalle capacità manageriali della proprietà.

Villa Banfi è stata la prima società straniera a investire capitali importanti a Montalcino ma nel corso dei decenni sono accorsi svizzeri, tedeschi, inglesi e recentemente argentini, panamensi e brasiliani. Questi ultimi hanno acquistato nei primi mesi del 2013 una delle più antiche tenute di Montalcino, Argiano, con oltre 100 ettari di terreno e una splendida villa rinascimentale per circa 50 milioni di euro. La proprietà apparteneva alla contessa Noemi Marone Cinzano, la cui famiglia l’aveva rilevata dai Gaetani Lovatelli d’Aragona nel corso degli anni Ottanta. Non si comprendono pienamente le ragioni della vendita, infatti l’azienda era economicamente solida, con un marchio affermato, di dimensioni ideali e dal fascino esclusivo; ma sicuramente l’offerta dei compratori ha avuto un ruolo decisivo per la cessione e Montalcino ancora una volta si è dimostrata capace di attrarre importanti flussi finanziari provenienti da nuovi investitori.

Brunello, bene rifugio

In connessione con le dinamiche sopra descritte, dagli anni Settanta a oggi il panorama socio-economico montalcinese è mutato radicalmente. Montalcino è diventato un paese ricchissimo, il più ricco della Provincia di Siena, e le sue terre grondano benessere, oltre che storia15. Gli investimenti fatti sui terreni e le cantine di Montalcino sono pari a circa 1,2-1,4 miliardi di euro e la sola Banfi ha investito globalmente circa 200 milioni16. Si tratta di cifre eccezionali, uniche nel suo genere per quanto riguarda il settore vinicolo in Italia, in cui lo stesso prodotto simbolo, il Brunello, è stato valutato come bene rifugio, paragonato ad azioni dal rendimento sicuro, sia per le vecchie Riserve della Tenuta Greppo Biondi Santi sia per la vendita en primeur,17 e a quelle dei warrant18, legate ai prestiti obbligazionari. Se solo si considerano i valori fondiari è possibile comprendere quanto Montalcino sia cresciuta in poco più di quarant’anni. Nel 1967 un ettaro vitato aveva un costo di 1,8 milioni di Lire, pari a 16.315 euro attuali (cifra ottenuta con il calcolo dei coefficienti Istat); oggi il prezzo medio di un ettaro si aggira intorno ai 400 mila euro, con punte che posso raggiungere i 600 mila. Se si stima una media di 500 mila euro, l’incremento si attesta dunque sul 3000%, cifra che almeno in Italia non ha eguali di alcun tipo.

Dagli anni Settanta, il Brunello ha creato un’immagine di sé sicuramente esclusiva, diventando oggetto di status, accessibile a pochi, e mantenendo le asperità tipiche del Sangiovese, che poco si adatta a quei palati che prediligono morbidezze e rotondità. Così, negli anni Novanta, il mercato, preferendo prodotti più vellutati, colorati e concentrati, ha iniziato a scontrarsi con quelle che sono le caratteristiche tipiche del Brunello di Montalcino; per questo, a più riprese, soprattutto per assecondare le logiche sottese a una vendita più immediata, il Disciplinare è stato definitivamente modificato. Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del 10 giugno 1998, sono entrate in vigore le nuove regole di produzione del Brunello di Montalcino: innanzitutto il periodo di affinamento in legno si è ridotto da trentasei a ventiquattro mesi ed è stato poi sostituito il termine invecchiamento con affinamento, poiché ciò esprimerebbe in modo più appropriato il processo di perfezionamento cui il Brunello va incontro durante la sua sosta in botte. Con queste correzioni si è così conclusa la fase di aggiornamento del Disciplinare; già con il Decreto Ministeriale del 24 giugno 1996 si erano avute importanti modifiche. In primo luogo la regolamentazione del termine vigna, cosicché si potesse iscrivere all’albo dei vigneti una vigna con un proprio nome, a condizione che le uve ed i vini derivati rispettassero delle norme più restrittive rispetto alle tipologie senza tale indicazione; in secondo luogo la possibilità di fare la scelta vendemmiale, ovvero distinguere il Brunello dal Rosso di Montalcino fin dal momento del raccolto; l’obbligo di effettuare un periodo di affinamento in bottiglia di quattro mesi per il tipo annata e di sei mesi per la Riserva; infine l’obbligo di imbottigliamento nella zona di produzione, a dimostrazione dell’intrinseco legame tra vino e territorio. Al di là di alcune legittime correzioni, sembrava comunque che il nuovo Disciplinare volesse spingere il Brunello verso una nuova tipicità, che inevitabilmente si sarebbe scontrata con la tradizione e con quello che il Brunello aveva rappresentato fino a quel momento. Ciò che preoccupava maggiormente era la diminuzione dei mesi di affinamento in botte e di fronte a questa situazione allarmante, Franco Biondi Santi, figlio di Tancredi Biondi Santi, decise che era giunto il momento per entrare nel Consorzio19. Come socio avrebbe fatto parte dell’assemblea e avrebbe affermato con forza che l’immagine del Brunello era seriamente a rischio. Una decisione difficile e coraggiosa; si deve infatti ricordare che quando nacque il Consorzio, suo padre decise di non aderirvi a causa della speculazione e dello sfruttamento del nome Brunello, scelta che Franco rispettò per tutta la sua vita20. Poi il decreto Erga Omnes21 autorizzò ad applicare il Piano di Controlli previsto dal decreto del 29 maggio 2001, con il quale il Ministero delle Politiche Agricole ha dato in carico ai consorzi di tutela il totale controllo e la vigilanza della produzione vitivinicola. Per avere questo potere, i consorzi, secondo quanto previsto dal decreto, dovevano dimostrare di associare almeno il 66% della produzione, e quelli che rispondevano a questo requisito, come quello del Brunello di Montalcino, potevano inoltre far pagare tutti gli utilizzatori della denominazione, senza distinzione fra consorziati e non, in misura proporzionale ai quantitativi controllati22.

Il Brunello alla prova della globalizzazione del gusto

Anche a Montalcino la battaglia del gusto ha dunque giocato una partita aspra e violenta, le fazioni in campo non erano mai state così lontane e il vortice della globalizzazione del gusto, facendosi strada prepotentemente, ha causato uno degli scandali più inauditi nel panorama enoico degli ultimi anni. Il Brunello di Montalcino, che secondo le regole del Disciplinare può essere vinificato esclusivamente con il Sangiovese, era diventato un supertuscan, quindi tagliato con vitigni internazionali.

I primi articoli usciti sull’argomento risalivano a poco prima del Vinitaly 2008, la più grande e rinomata fiera di riferimento del settore vinicolo italiano. Il Corriere Fiorentino, edizione regionale del più celebre quotidiano italiano, denunciò una frode a carico dell’azienda Frescobaldi; ma fu con il settimanale Espresso del 3 aprile 200823, primo giorno della manifestazione veronese dedicata ai vini, che scoppiò lo scandalo. Gli investigatori stavano scovando una frode in commercio senza precedenti, per cui il 30-40% del Brunello prodotto nel 2003 rischiava di non ottenere la DOCG, e la stessa denominazione di Brunello. L’accusa era quella di aver tagliato il Sangiovese con altri vitigni di origine francese, dal Merlot al Cabernet, dal Petit Verdot al Syrah, in percentuali comprese tra il 10% e il 20%. I motivi della sofisticazione risiederebbero innanzitutto nella scarsa quantità di Sangiovese disponibile, insufficiente a ricoprire una domanda sempre crescente di mercato e, non a caso, in una questione di gusto24. Le aziende coinvolte nella vicenda, considerando il totale dei produttori Montalcinesi, non furono molte, ma ciò che contava furono i numeri di produzione e in questo caso si trattava di milioni e milioni di bottiglie. Antinori, Frescobaldi, Banfi, Argiano, Casanova dei Neri, Cinelli Colombini. Aziende lodate da una certa critica del settore, quella critica che spesso ha messo in moto l’economia mondiale vinicola. L’articolo dell’Espresso era affiancato da un’altra inchiesta, decisamente più pericolosa, che diede il titolo al settimanale, Velenitaly25, in cui si trattava di sofisticazioni pericolose per la salute umana. Il fatto di aver posto le due indagini, in realtà tra loro lontanissime, l’una accanto all’altra, suscitò le ire di tutti i produttori montalcinesi, delle istituzioni rappresentative e dell’intero comparto vitivinicolo italiano26. Il pericolo cui si andava incontro, e che in effetti non tardò a proclamarsi, consisteva nella possibilità di confondere l’opinione pubblica sulla contraffazione commerciale con ciò che riguardava invece altre aziende, soprattutto venete, nei cui vini erano state trovate tracce di agenti dannosi. Come inevitabile, le due inchieste, agli occhi dei meno esperti, finirono per sovrapporsi; il danno per Montalcino, soprattutto durante i primi mesi, fu enorme: le vendite calarono bruscamente e la fiducia per quel vino, che tanto aveva affascinato l’Italia e il mondo intero, si affievolì sensibilmente. Si mise in moto una nuova campagna di legittimazione e la stessa stampa, forse resasi conto del danno causato, fu meno invadente sull’argomento. Nel frattempo le inchieste continuavano e le voci di una modifica del Disciplinare si andavano facendo sempre più insistenti.

Le indagini durarono circa un anno e mezzo e si conclusero nell’estate del 200927. Le accuse furono di frode in commercio e falso ideologico; tra i diciassette denunciati, otto chiesero il patteggiamento, mentre nove ricevettero l’avviso di conclusione indagini. Preferirono patteggiare Banfi, Casanova dei Neri, Antinori e Cinelli Colombini mentre Argiano e Frescobaldi decisero di andare incontro ad un eventuale processo. In totale, furono declassati a IGT Rosso Toscana quasi 1,3 milioni di litri di Brunello; cifre enormi considerando le aziende imputate e considerando che si trattava di Brunelli tra i più conosciuti ed esportati nel mondo; quelle stesse bottiglie avrebbero dovuto esprimere il made in Italy più autentico, in cui non si certificava solo il luogo di produzione, ma si rettificava anche la lealtà e l’onorabilità del produttore, in cui il consumatore riponeva la sua fiducia e per la quale era disposto a pagare cifre importanti.

Il 28 ottobre 2008, i produttori di Montalcino si riunirono nella sede del Consorzio per decretare le sorti del Brunello; si doveva decidere se modificare quella parte del Disciplinare in cui si stabiliva il Sangiovese come unico vitigno consentito per la vinificazione del Brunello, oppure lasciare la possibilità ai produttori di tagliarlo con ciò che meglio ritenevano. Dallo spoglio delle schede emerse una conferma dell’attuale Disciplinare, senza alcuna modifica riguardante vitigni e tecniche di produzione utilizzate. Ciò che risultò ambiguo dalla votazione fu che proprio le cantine che avevano causato lo scandalo non votarono compatte per la modifica; fu palese, invece, la quasi unanimità con cui i produttori Montalcinesi rifiutarono di trasformare il Brunello in un supertuscan.

Perché le microzone?

Alla luce della frode in commercio avvenuta a Montalcino, potrebbe risultare importante per il futuro del Brunello, ma anche per gli altri vini DOCG, la creazione legislativa di microzone, come del resto è avvenuto in tempi recenti per i cru di Barolo in Piemonte.

La situazione intorno a Montalcino è molto complessa: tanti ettari delle zone più calde, che non erano mai state considerate adatte alla coltivazione del Sangiovese grosso, sono stati iscritti alla produzione di Brunello. Il risultato è che, ora, ci sono diverse sottozone di produzione ognuna con una marcata differenza di clima, di temperatura, di ore di esposizione al sole, di terreno e con un avanzo altimetrico di 530 metri. Queste differenze producono diverse tipologie di Brunello: in linea di massima, i vini che provengono dai vigneti del versante Sud-Ovest sono molto più ricchi di alcool, colore, polifenoli ma bassi di acidità totale e alti di pH; vini di grande struttura e qualità, ma diversi da quelli che provengono da Nord-Est, dove c’è una sensibile escursione termica fra il giorno e la notte, e che risultano meno strutturati ma più eleganti, longevi e austeri. Lo stato fenologico delle viti risulta diverso a seconda delle aree prese in esame e di conseguenza anche la vendemmia non viene svolta negli stessi momenti, con uno scarto di tre settimane fra le varie zone, senza considerare le peculiarità pedoclimatiche e la selezione dei lieviti naturali, anch’essi molto diversi.

Da tutto ciò emergerebbe piuttosto chiaramente la necessità di una microzonazione. Tuttavia, le microzone restano, e non senza valide ragioni, un obiettivo difficilmente praticabile a Montalcino; non tanto perché i produttori non si rendano effettivamente conto del valore aggiunto che esse conferirebbero a tutto il territorio, quanto piuttosto perché le aziende agricole, come risultato di secoli di mezzadria, nascono e si sviluppano su appezzamenti tra loro anche piuttosto lontani. Tradizionalmente, il Brunello è sempre stato il prodotto dei “tanti” Sangiovese, che crescono nelle diverse aree del comune di Montalcino e che si arricchiscono, completandosi, in un’unica grande bottiglia.

Bibliography

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TESSADRI Paolo, “Benvenuti a Velenitaly”, Espresso, 3 aprile 2008.

Notes

1 Consorzio del vino Brunello di Montalcino. Return to text

2 Consorzio del Vino Brunello di Montalcino. Return to text

3 Consorzio del Vino Brunello di Montalcino. Return to text

4 Consorzio del Vino Brunello di Montalcino. Return to text

5 Rosa Gabriele, Siena. Città e campagna, Milano, 1873. Return to text

6 Carnasciali Maurizio, Le campagne senesi del primo Ottocento, Documenti preparatori del catasto generale della Toscana, Firenze, 1990. Return to text

7 Biondi Santi Franco, Il Brunello di Montalcino: il passato e il presente, Firenze, Atti dell’Accademia dei Georgofili, 2001. Return to text

8 Da questo momento la storia del Brunello di Montalcino si lega intrisecamente con la storia della famiglia Biondi Santi, fino ad arrivare a Franco Biondi Santi, vero tutore della più autentica tradizione per quanto concerne la produzione di Brunello. La sua recente scomparsa, nell’aprile del 2013, pone l’esigenza di una riflessione su quella che sarà la filosofia che la nuova generazione, alla guida dell’omonima azienda, vorrà perseguire. Return to text

9 Biondi Santi Franco, Tipicità e longevità dei vini di grandi Riserve, Firenze, Atti dell’Accademia dei Georgofili, 2002. Return to text

10 Lucerini Valter, La Comune di Montalcino nel dipartimento dell’Ombrone, Università di Pisa, A/A 1974-1975. Return to text

11 DPR n. 930 del 12 luglio 1963. Return to text

12 Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia. Return to text

13 Politiche agro-ambientali e rurali, i cui scopi erano: promuovere livelli più alti di produttività; raggiungere il pieno impiego; incrementare i redditi agricoli e conseguentemente le capacità di consumo, risparmio e investimento degli agricoltori; migliorare le condizioni di vita nelle aree rurali; favorire la ristrutturazione e l’innovazione delle aziende agrarie come era stato fatto negli altri paesi europei e infine riorganizzare i mercati agricoli. Return to text

14 Pellucci Emanuele, Brunello di Montalcino. Un vino, una storia, Firenze, Stabilimento poligrafico fiorentino, 1986. Return to text

15 Raffaelli Ilio, Montalcino e il suo Brunello. Storia di un successo, Siena, Vanzi Editrice, 2008. Return to text

16 Rivella Ezio, Io e Brunello, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008. Return to text

17 La vendita di vini en primeur è la vendita di bottiglie alcuni anni prima che queste siano offerte sul mercato. È generalmente riservata ai vini di altissima qualità. Return to text

18 Strumento finanziario, quotato in borsa, consistente in un contratto a termine che conferisce la facoltà di sottoscrivere l'acquisto o la vendita di una certa attività finanziaria sottostante ad un prezzo e ad una scadenza stabilita. Return to text

19 Boldrini Maurizio, Bruchi Bruno, Cappelli Andrea, Questa è la mia terra. Franco Biondi Santi, Montalcino e il Brunello, Siena, Protagon Editori, 2009. Return to text

20 O’Keefe Kerin, Franco Biondi Santi. Il gentleman del Brunello, Bergamo, Veronelli Editore, 2004. Return to text

21 Pubblicazione in G.U. il 7 novembre 2003 Return to text

22 A questo punto risulta palese che Franco Biondi Santi sarebbe stato comunque sottoposto ai controlli del Consorzio e ai relativi obblighi, anche economici, di conseguenza non avrebbe avuto alcun vantaggio a rimanerne fuori. Return to text

23 Fittipaldi Emiliano, Nel Brunello c’è il tranello, Espresso, 3 aprile 2008. Return to text

24 Pitte Jean Robert, “La géographie du gout entre mondialisation et enracinement local”, Annales de Geographie, n.621, 2001. Return to text

25 Tessadri Paolo, “Benvenuti a Velenitaly”, Espresso, 3 aprile 2008. Return to text

26 Magrini Guelfo, Brunellopolis. Il lato oscuro del vino più famoso d’Italia raccontato dai media, Perugia, Alieno Editrice, 2009. Return to text

27 Innocenti Simone, Brunello: 1,3 milioni di litri cambiano nome e prezzo, Corriere Fiorentino, 18 luglio 2009. Return to text

Illustrations

References

Electronic reference

Giorgio Masellis, « Montalcino e il suo Brunello: evoluzione e affermazione. », Territoires du vin [Online], 6 | 2014, 01 March 2014 and connection on 08 October 2024. Copyright : Licence CC BY 4.0. URL : http://preo.u-bourgogne.fr/territoiresduvin/index.php?id=828

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Giorgio Masellis

Dottorato in Filosofia e Scienze dell’Uomo, Universita degli Studi di Milano

giorgio.masellis@unimi.it

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