* Nonostante l’articolo sia frutto di riflessioni comuni, i paragrafi 2, 2.2, 2.3, 3, 4 e 4.1 sono da attribuirsi a Filippo Randelli; i paragrafi 2.1 e 2.4 a Francesco Felici, mentre i paragrafi 1 e 5 ad entrambi.
Introduzione
La globalizzazione del gusto e l’internazionalizzazione dei mercati hanno ampliato le relazioni commerciali tra i paesi anche in materia di prodotti vitivinicoli. Il vino è diventato sempre di più un prodotto globale, di gran moda nei paesi sviluppati. A partire dagli anni ’80 il settore ha garantito sempre più interessanti opportunità di successo per le aziende. Tuttavia, dopo il “boom” del periodo 1997-2001, accompagnato da una forte crescita dei prezzi dei vini europei, sui mercati internazionali hanno cominciato a confluire i prodotti vitivinicoli del “Nuovo Mondo” (per esempio Australia, Sudafrica, Stati Uniti, Argentina, Cile), di buona qualità e a prezzi competitivi. La concorrenza si è inasprita e gli imprenditori europei sono chiamati oggi a fronteggiarla con strategie efficaci, volte a rafforzare la qualità e l’immagine dei propri prodotti, risultando molto difficile e forse sbagliato tentare di competere sui prezzi.
In questo quadro di mercato dal futuro incerto e sempre più competitivo, il valore aggiunto delle denominazioni di origine (DO) (in francese appellations d’origine contrôlées o AOC) rappresenta un vantaggio competitivo che non può essere depauperato.
Il sistema DO nasce dalla necessità di distinguere un prodotto per la sua origine territoriale in modo da esaltarne le sue caratteristiche specifiche e di tipicità. Si tratta quindi di un processo di differenziazione legato a diversi parametri il cui filo conduttore principale è il territorio.
Il sistema dei vini DO è attualmente interessato da due fondamentali problemi di gestione:
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la necessità di definire una adeguata politica di prodotto che permetta di offrire al consumatore finale una reale garanzia di qualità e al produttore un adeguato livello di competitività;
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la necessità di definire una adeguata politica di prodotto che permetta di offrire al consumatore finale una reale garanzia di qualità e al produttore un adeguato livello di competitività;
La risoluzione del secondo problema è di fatto funzionale al primo perché solo la stabilizzazione dell’offerta rispetto alla domanda può garantire la giusta remunerazione dell’impegno qualitativo dei produttori aderenti alla DO. Infatti, la forte variabilità del rapporto domanda-offerta implica il rischio di un mancato riconoscimento dell’impegno qualitativo del produttore, e quindi il rischio di indebolimento della reputazione collettiva della DO nel lungo periodo (Malorgio et Al., 2006).
In sintesi, se da un lato a livello mondiale un vino DO fino ad oggi è stato associato (almeno da parte dei consumatori europei) ad un sistema di qualità, per il futuro ciò deve essere garantito migliorando le modalità di segnalazione della qualità al consumatore. La necessità di incrementare l’efficacia del segnale di qualità deriva, soprattutto, dall’evoluzione del comportamento di consumo che si sta spostando verso un consumo occasionale, più di qualità che di quantità. Come avviene in Francia1 e in Spagna2, anche in Italia dal 1980 al 2005, il consumo pro-capite di vino in Italia si è ridotto del 54%, tuttavia, mentre il consumo di vini da tavola si è ridotto nello stesso periodo del 56%, il consumo di vini di qualità è aumentato dell’80% ed oggi costituiscono il 30% della produzione totale.
La principale funzione del sistema dei vini a DO “consiste nell’organizzare lo spazio delle caratteristiche che determinano le preferenze del consumatore, in termini di differenziazione orizzontale” (Malorgio et Al., 2006, p. 65), nel senso che si agisce sullo spazio delle caratteristiche del vino (olfattive, visive, aromatiche, ecc.) al fine di aumentarne la differenziazione rispetto agli altri vini e allo stesso tempo ridurre la differenziazione all’interno della stessa DO.
L’incertezza qualitativa e quantitativa dell’offerta di vino DO, insieme ai fenomeni diffusi di free riding, minacciano l’efficacia del sistema di segnalazione della qualità e giustificano gli interventi regolativi da parte dei soggetti della filiera.
In questo articolo si prendono in considerazione gli attori della filiera DO in Italia, al fine di coglierne i ruoli, il “peso” e le evoluzioni in atto.
I soggetti della filiera vitivinicola in Italia
L’assetto istituzionale del settore vitivinicolo in Italia presenta alcune differenze rispetto agli altri paesi europei ed in particolare nei confronti della Francia, principale paese europeo per la produzione di vini DO.
La Francia, come noto, vanta una tradizione nella produzione vitivinicola DO che ha pochi eguali in Europa. In Francia, infatti, la disciplina nazionale delle denominazioni di origine dei vini è di molti decenni antecedente l’emanazione dei regolamenti comunitari relativi all’organizzazione del mercato vitivinicolo. Già nei primi anni del secolo scorso i produttori vitivinicoli di alcune regioni francesi avevano rivendicato il diritto all’utilizzo esclusivo delle denominazione dei loro prodotti per tutelarsi dalle frodi.
Le procedure per l’attribuzione delle denominazioni e la conseguente attività di controllo (ispezioni, prelievi, controllo documentale) fanno capo rispettivamente a due istituzioni pubbliche centralizzate, che rappresentano gli interlocutori di riferimento dei consorzi di produttori: VINIFLHOR3 (Office National Interprofessionel des Fruits, des Legumes, des Vins et de l’Horticulture) e l’INAO4 (Institut National de l’Origin et de la Qualité).
Ai Consorzi di tutela è lasciata solo l’iniziativa di proporre i disciplinari di produzione o di richiederne la loro modifica. Essi inoltre stabiliscono quali sono i requisiti minimi affinché le aziende possano poter accedere alla filiera tutelata, oltre che le condizioni per mantenere la certificazione e il diritto all’utilizzo della denominazione. In altri termini propongono un piano di controllo e di accesso alla denominazione. Tutti i consorzi di produttori di vini DO sono inoltre associati in un organismo nazionale confederato denominato “Confederation Francais des Vins de Pays” che svolge funzione di rappresentanza nei confronti delle altre organizzazioni professionali agricole e delle istituzioni pubbliche.
In Italia il riconoscimento di una DO5 di una produzione vitivinicola avviene da parte del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali (MiPAF), previa parere favorevole del Comitato nazionale per la tutela e la valorizzazione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche tipiche dei vini. Il Comitato è organo del MiPAF ed ha competenza consultiva, propositiva ed esecutiva su tutti i vini designati con nome geografico. E’ composto da una sezione interprofessionale, costituita dal Presidente, nominato con decreto del MiPAF, e da 36 componenti nominati secondo una ripartizione stabilita.
Una volta ottenuto il riconoscimento della DO, la fasi salienti in cui intervengono soggetti pubblici o privati esterni all’azienda agricola, sono essenzialmente quattro:
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la tenuta degli albi e degli elenchi dei produttori di vino DO;
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le analisi chimico-fisiche ed organolettica;
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le attività di controllo su tutte le fasi di produzione;
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la promozione commerciale e le funzioni di R&S.
Nel seguito di questo articolo si analizzano le varie fasi e i soggetti che vi prendono parte al fine di far emergere i caratteri salienti del settore in Italia. Nei casi in cui la normativa nazionale demanda alle regioni le funzioni prese in esame, si analizzerà il caso della Regione Toscana, in cui si trova la DO Chianti Classico.
La tenuta degli albi e degli elenchi dei produttori di vino DO
Posto il vincolo generale della presentazione della dichiarazione di superficie vitata, i conduttori di vigneti che vogliono produrre vini DO devono iscrivere le superfici in questione ai corrispondenti albi dei vigneti. La tenuta degli albi in Italia è a carico delle Regioni.
Nel caso della Regione Toscana, la tenuta degli albi e degli elenchi dei produttori di vino (articolo 16 del regolamento (CE) n. 1493/99) è demandata dalla legge regionale 21/2002 (in materia di “Disciplina per la gestione ed il controllo del potenziale vinicolo”) alle Province. In seguito a questa legge si è avuto quindi un trasferimento di competenze dalle Camere di Commercio, che prima della legge gestivano la tenuta degli albi vigneti alle Province.
Alcuni analisti (Natali, 2006) evidenziano come questo passaggio abbia di fatto introdotto un elemento di frattura nel processo di controllo di filiera, sottraendo alle Camere di Commercio la gestione diretta delle informazioni catastali contenute negli Albi ed Elenchi. Il supporto tecnico informatico fornito da ARTEA (Agenzia Regionale Toscana per le Erogazioni in Agricoltura) ha comunque di fatto semplificato e migliorato il sistema offrendo un ruolo di servizio di fondamentale importanza per le Province che, oltre alla tenuta degli albi, devono svolgere le funzioni di vigilanza, controllo e l’applicazione delle sanzioni.
L'iscrizione della superficie vitata allo schedario viticolo costituisce presupposto inderogabile per procedere ad interventi sul potenziale produttivo viticolo ed accedere alle misure strutturali e di mercato ai sensi della normativa comunitaria, nazionale e regionale. Infatti, la realizzazione di vigneti abusivi (non denunciati e quindi non iscritti negli albi provinciali) oltre a non dare diritto a premi ed incentivi costituisce di fatto un illecito amministrativo che determina una sanzione pecuniaria e l’estirpazione dell’impianto.
L’ampliamento del potenziale produttivo di ogni DO, non risulta mai dalla libera scelta del singolo imprenditore, ma deve essere definito sulla base di atti di pianificazione adottati dalle province, sentite le comunità montane nel cui territorio ricade la denominazione.
Le analisi chimico-fisiche ed organolettica
I vini prodotti nel rispetto delle norme previste per le DO, nella fase di produzione, devono essere sottoposti a una preliminare analisi chimico fisica e ad un esame organolettico. Per i vini D.O.C.G., inoltre, l’esame organolettico deve essere ripetuto, partita dopo partita, nella fase dell’imbottigliamento. La certificazione positiva dell’analisi e dell’esame è condizione necessaria all’utilizzazione della DO ed è finalizzata ad accertare anche la rispondenza ai requisiti previsti dai disciplinari di produzione.
L’esame organolettico è effettuato da commissioni di degustazione operanti presso le Camere di Commercio6, le quali rilasciano la relativa certificazione da apporre sui contenitori del vino. Per ciascuna DO il MiPAF, sentite le Camere di Commercio competenti per il territorio, stabilisce il numero delle commissioni di degustazione e per ognuna di esse nomina con proprio decreto, per un periodo massimo di tre anni, un presidente e un vicepresidente, scelti tra tecnici degustatori iscritti agli elenchi provinciali.
L’attività di controllo su tutte le fasi di produzione
L’attività di controllo su tutte le fasi di produzione dell'uva e della sua trasformazione in vino fino alla presentazione al consumo dei vini DO, dal 2001 (Decreto Ministeriale 29 maggio 2001) e' effettuata dai consorzi di tutela riconosciuti dal MiPAF che siano rappresentativi di almeno il 66% della produzione. In seguito, dal 2006 il MiPAF ha affidato all’Ispettorato Centrale Repressione Frodi7 la funzione di vigilanza sull’attività di controllo dei Consorzi di tutela autorizzati, al fine di garantire che gli stessi effettuino la loro attività nel rispetto dei piani di controllo autorizzati e senza discriminazione tra i vari soggetti della filiera.
Al fine di garantire la qualità e tutelare il consumatore, ed anche soddisfare le indicazioni proveniente da Bruxelles in merito all’obbligo dell’imbottigliamento in zona8, il MiPAF ha ritenuto necessario rafforzare il sistema di controllo e di tracciabilità in tutte le fasi del processo produttivo, stabilendo una linea di confine tra controllo e vigilanza.
Infatti, con il primo si intende quell’insieme di attività, esercitate prevalentemente presso i produttori, mirate ad assicurare che essi producano e commercializzino prodotti ottenuti nel rispetto dei disciplinari di produzione. Con il termine vigilanza, invece ci si riferisce a quelle attività, svolte prevalentemente presso il mercato da organi pubblici, mirate alla repressione delle frodi in commercio. Pertanto l’attività di controllo svolta dai consorzi si sviluppa nelle fasi di produzione, vinificazione e imbottigliamento, sia a livello documentale sia a livello ispettivo in azienda.
Nel dettaglio, il Consorzio controlla nella fase di produzione delle uve:
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a livello documentale sul 100% dei produttori, l’iscrizione all’Albo dei Vigneti e la dichiarazione di produzione dell’uva (resa massima uva/ha);
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a livello ispettivo – su un campione di aziende variabile dal 15 al 25%, che rappresenti almeno il 20% della produzione complessiva rivendicata all’anno precedente - la superficie iscritta, il rispetto delle condizioni agronomiche e del rendimento massimo autorizzato.
Al termine della fase di controllo sulla produzione il Consorzio consegna alla Camera di Commercio – che procederà a svolgere gli esami chimici ed organolettici - la ricevuta della Dichiarazione di raccolta (presentata dai produttori al Consorzio) e rilascia il parere di conformità per la certificazione dell’uva.
In fase di vinificazione, il Consorzio controlla:
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a livello documentale su tutti i produttori le quantità vinificate, le quantità acquisite/vendute e la quantità in giacenza, disponendo così di un’informazione completa riguardo alle movimentazioni di prodotto di ogni singolo produttore (tracciabilità);
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a livello ispettivo, dispone prelievi di campioni. In questa fase, i singoli produttori presentano domanda di prelievo dei campioni per l’analisi chimica e organolettica svolta come in precedenza dalla Camera di Commercio, cui il Consorzio rilascia parere di conformità per la DO.
Nella fase di imbottigliamento il Consorzio controlla, a livello documentale, le quantità di prodotto da imbottigliare e, a livello ispettivo, dispone il prelievo di campioni per verificare la coerenza tra il vino da imbottigliare e la certificazione ottenuta in precedenza dalla Camera di Commercio in seguito agli esami chimici ed organolettici, infine distribuisce le fascette da apporre sui contenitori.
La promozione commerciale.
Le attività promozionali del settore vitivinicolo vengono svolte da una moltitudine di soggetti di natura pubblica/privata, che solo recentemente hanno intrapreso un percorso legislativo tendente ad un maggiore coordinamento e razionalizzazione delle attività ai livelli regionali in special modo sugli interventi promozionali rivolti all’estero.
Le riforme in corso mirano a ottimizzare le risorse pubbliche e a presentare le varie regioni vitivinicole sui mercati internazionali in maniera organica e coerente, cercando di creare un maggiore integrazione in tutte le fasi che definiscono l’attività promozionale.
Nel caso della Toscana, attraverso il principio di integrazione le risorse stanziate da una moltitudine di Enti tra cui: Regione Toscana, Unioncamere Toscana, Istituto Commercio Estero (ICE), Ministero per il commercio internazionale, Ente Nazionale Italiano per il Turismo (ENIT), vanno ad integrarsi, con le risorse di altri soggetti pubblici, dislocati a livello subregionale (Province, Agenzie per il turismo, etc.) o con soggetti privati (sistema delle istituzioni bancarie e delle imprese).
Pur di fronte ad una progressiva razionalizzazione degli interventi, la molteplicità dei promotori del settore vitivinicolo e la vasta diffusione delle aziende sul territorio, portano a favorire, all’interno dei singoli programmi promozionali, delle iniziative autonome. In alcune realtà territoriali la promozione verso l’estero è affidata ad aziende speciali delle Camere di Commercio9, è il caso di Promofirenze e Promosiena, in altri casi a consorzi di imprese senza scopo di lucro (Grosseto Export, etc.) in altri ancora l’attività è portata avanti direttamente da uffici provinciali, che hanno maturato al loro interno le competenze necessarie a svolgere tali attività (Provincia di Arezzo, etc.). Non mancano poi le attività promozionali condotte direttamente sul territorio, spesso organizzate dai Consorzi di tutela insieme alle realtà municipali dove la viticoltura assume una considerevole rilevanza.
Tra i vari Enti operanti nella promozione, un ruolo molto importante10 è affidato a Toscana Promozione, soggetto pubblico nato nel 2001 con un accordo tra Regione Toscana, e alcuni dei soggetti già citati. In particolare a Toscana Promozione spetta il coordinamento, attraverso comuni protocolli di intesa e/o di convenzioni, delle modalità che disciplinino gli scambi di informazioni in merito alle varie iniziative promozionali.
Le attività svolte in ambito promozionale dai vari soggetti sono molteplici e si indirizzano sui principali mercati strategici all’evoluzione del commercio estero dei prodotti toscani. Il settore alimentare e il vino risultano uno dei settori di fondamentale importanza per la Toscana insieme alle altre componenti del Made in Italy: Abbigliamento-moda, Arredo-Casa, Automazione-Meccanica (Regione Toscana, 2008).
Per l’agroalimentare la strategia è articolata sulla creazione di contatti con operatori di catene specializzate o con buyer per canali HORECA (Hotel/Restaurant/Cafè) e Grande Distribuzione Organizzata e sull’attività volta ad attrarre nuovi consumatori, mediante la promozione del brand Toscana (ma anche entità subregionali come Siena, Maremma, Chianti etc.) su media specializzati e durante i principali eventi fieristici.
Un soggetto emergente: i consorzi di tutela
Dall’analisi delle quattro fasi salienti nella vita di un vino DO a cui partecipano soggetti diversi dall’azienda agricola, emerge con chiarezza il ruolo di primo piano che assumono e/o vanno assumendo in Italia gli enti pubblici locali (Regione, Provincia e Camere di Commercio), a cui il governo centrale italiano ha demandato molte funzioni di primaria importanza. Ma ciò che distingue in maniera marcata il sistema italiano da quello francese è il ruolo che hanno assunto nel corso del tempo i consorzi di tutela.
Con la decisione di assegnare il controllo ai consorzi il MiPAF ha riconosciuto l’inadeguatezza della struttura centrale di controllo vigente prima del 2001, incapace di operare un’attività capillare e continuativa che andasse oltre la semplice verifica dei documenti. Con questo atto il MiPAF ha altresì riconosciuto il ruolo preminente dei consorzi che già oggi affiancano le aziende nell’attività di marketing, di ricerca e in tutte le attività necessarie allo sviluppo della qualità di prodotto e di processo.
I consorzi volontari di tutela possono essere costituiti per ciascuna denominazione di origine o indicazione geografica tipica al fine di tutelare, valorizzare e curare gli interessi generali relativi alle D.O.C.G., D.O.C. e I.G.T. Essi sono composti volontariamente dalle aziende vitivinicole del territorio di produzione ed hanno inoltre compiti di proposta per la disciplina regolamentare delle rispettive DOCG, DOC e IGT nonché compiti consultivi nei riguardi della regione e della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, in materia di gestione degli albi dei vigneti e degli elenchi delle vigne, di denunce di produzione delle uve e dei vini, di distribuzione dei contrassegni e di quant'altro di competenza delle regioni e dei predetti enti camerali, in materia di vini a denominazione d'origine e ad indicazione geografica tipica. Fino al 2001, se erano indicativi di almeno il 40% dei produttori e della superficie iscritta all’albo, poteva essere affidato loro anche l'incarico di collaborare alla vigilanza sull'applicazione della legge. Se in un’area D.O.C.G., D.O.C. o I.G.T. non si costituisce un consorzio volontario di imprese, allora la legge italiana prevede che si costituiscano dei consigli interprofessionali.
I consorzi hanno il compito di organizzare e coordinare le attività delle categorie interessate alla produzione ed alla commercializzazione di ciascuna denominazione di origine o indicazione geografica tipica, nell'ambito delle proprie specifiche competenze, ai fini della tutela e della valorizzazione delle denominazioni o indicazioni stesse.
Nel 2007 i Consorzi di tutela autorizzati dal Ministero delle Politiche Agricole erano 102; tra questi quelli autorizzati a svolgere attività di vigilanza erano invece 52, di cui 28 avevano ottenuto anche di svolgere l’attività di controllo. Il maggior numero dei Consorzi è presente in Veneto, seguito dalla Toscana (Tab. 1).
Dal 2001, i consorzi di tutela già muniti dell'incarico di vigilanza, al fine di ottenere l'incarico anche per l'attività di controllo nei confronti di tutti i partecipanti alla filiera produttiva, devono presentare istanza al Ministero delle politiche agricole e forestali, dimostrando di possedere una rappresentatività della produzione di competenza dei vigneti della zona delimitata, rivendicata a D.O.C. o a D.O.C.G., pari almeno al 66%, riferita all'anno precedente la presentazione della istanza medesima. L’incarico viene conferito dopo la verifica del piano di controlli e ricevuto il parere della regione interessata. Ogni tre anni il Ministero verifica la sussistenza del requisito di rappresentatività.
L’attività di controllo è esercitata in stretta collaborazione con l’Ispettorato Repressione Frodi, che invece rimane l’unico controllore nei territori i cui consorzio non hanno ottenuto oppure non hanno richiesto di svolgere anche la funzione di controllo. Il consorzio quindi potrà esercitare la sua attività di controllo su tutte le aziende presenti sul territorio (erga omnes), siano esse associate o no. I controlli riguarderanno tutta la filiera produttiva, dalla vigna alla fase dell’imbottigliamento; si dovrà verificare la conformità dei vigneti all’albo, il rispetto della normativa del settore, la conformità dei contenitori e l’etichettatura; il consorzio dovrà inoltre autorizzare l’imbottigliamento per garantire la totale tracciabilità del prodotto.
Rispetto alla Francia in cui vige un sistema di vigilanza e controllo sull’attività dei produttori vitivinicoli che potremmo definire ipercentralizzato, in Italia, il MiPAF ha deciso di decentralizzare l’attività di controllo affidandola direttamente ai soggetti collettivi più importanti nella filiera vitivinicola italiana: i consorzi di tutela.
Nel sistema vitivinicolo italiano, che potremmo definire ipocentralizzato o se si preferisce iperdecentralizzato, si è andato affermando il ruolo “pubblico” di soggetti associativi privati (consorzi e cooperative) con un forte radicamento sul territorio, già capaci di aggregare, coordinare, vigilare, tutelare, valorizzare e promuovere ed oggi incaricati di controllare tutta la fase produttiva. Questo processo di decentralizzazione delle competenze, che interessa anche altri settori della politica italiana, se da un lato ha il pregio di riconoscere e dare voce ed autonomia ai soggetti che storicamente operano sul territorio, può comportare dei rischi derivanti dalla frammentazione dei soggetti operanti e quindi delle decisioni. Nel caso dei controlli, questi possono differire tra le varie DO mettendo a rischio l’obiettivo primario di migliorare la segnalazione di qualità al consumatore. E’ anche vero però che fino ad oggi sono pochi i consorzi a cui è stato affidata la funzione di controllo e ciò è avvenuto solo in alcune delle aree produttive di alta qualità dove i consorzi svolgevano già un ruolo di primo piano nella governance. Per esempio, i primi consorzi autorizzati nell’ottobre 2003 sono stati i consorzi dei vini Chianti Classico, Brunello di Montalcino e Nobile di Montepulciano, l’eccellenza della produzione della Toscana e quindi dell’Italia.
La domanda a cui si dovrebbe rispondere è: quale è la governance più appropriata per far funzionare al meglio il sistema dei controlli di qualità dei vini DO? Un sistema ipercentralizzato come quello francese oppure uno iperdecentralizzato come quello italiano? Naturalmente è difficile rispondere e probabilmente una risposta non c’è, perché ogni sistema di controllo deve tenere conto delle condizioni del territorio su cui deve operare e dei mezzi a disposizione. Un sistema centralizzato presuppone una forte legittimazione dell’organo di controllo ma soprattutto, se si vuole realmente operare ogni anno controlli ispettivi su un campione che rappresenti almeno il 20% della produzione complessiva (come avviene oggi in Italia con i consorzi), sono necessari mezzi e risorse importanti.
La decisione del MiPAF di decentralizzare a favore dei consorzi la funzione di controllo deriva probabilmente da due considerazioni: la prima deriva dal forte radicamento della produzione vitivinicola italiana e dal ruolo che essi svolgono da tempo nei principali territori di produzione di qualità; secondo, una motivazione più materiale, che deriva dalla mancanza di una forte struttura centrale di controllo già radicata sul territorio. In altre parole la scelta di decentralizzare può essere interpretata come un segno della debolezza (anche in termini di risorse) delle istituzioni centrali oppure viceversa come un segno della forza degli attori locali.
L’intento del legislatore è quello di garantire la qualità e la sicurezza dei vini; ciò che lascia dubbiosi è l’aver conferito ai produttori la funzione di controllare se stessi. In realtà i produttori di vini di qualità hanno tutti gli interessi a garantire, anche attraverso controlli rigorosi, la sicurezza del proprio prodotto e quindi si può pensare che l’attività di controllo dei consorzi sarà rigorosa ed imparziale. Senza dubbio però l’attività di controllo di un organo superpartes, composto da esperti del settore esterni al territorio ed alle aziende produttrici sulla carta dovrebbe garantire una maggiore sicurezza.
Da un indagine svolta da ISMEA con interviste ai principali operatori del settore sono emerse su alcuni aspetti posizioni comuni mentre su altri divergenze evidenti (ISMEA, 2005, pp. 46-50).
Le posizioni comuni si riferiscono alla necessità di rafforzare il sistema di controllo e di rintracciabilità fino ad allora esistente e all’esigenza di semplificare le operazioni fino a quel momento eseguite da diversi soggetti che a vario titolo avevano il diritto di intervenire in azienda per esercitare attività di controllo.
Le posizioni divergenti hanno riguardato la terzeità dei soggetti controllori: alcuni operatori hanno contestato la dipendenza finanziaria dei controllori (consorzi) dai controllati mentre altri si sono espressi a favore dei consorzi perché di fatto praticavano già in precedenza l’attività di controllo, anche se solo verso i propri consorziati, maturando un’esperienza che invece non sarebbe stato possibile reperire sul “mercato” non esistendo Organismi di controllo privati dotati di personale con la medesima esperienza maturata dai consorzi.
In definitiva, la scelta del legislatore di assegnare la funzione di controllo ai consorzi lascia intuire la presa di coscienza da parte degli organi centrali, nonostante un controllo da parte dell’Ispettorato Repressione Frodi fosse più auspicabile, sull’impossibilità a garantire indagini ispettive su tutto il territorio vinicolo. Il decentramento dell’attività di controllo può quindi migliorare le verifiche che altrimenti non sarebbero garantite. Per fare un esempio, il Consorzio Vino Chianti Classico, incaricato nel 2003 a svolgere tutta l'attività di controllo sulla produzione e l'imbottigliamento dell'omonima D.O.C.G., in soli tre anni (i controlli sono iniziati nel 2005) ha effettuato sopralluoghi e controlli in oltre il 50% dei produttori, verificando lo stato delle vigne e, quindi le reali potenzialità produttive delle aziende titolari di certificazioni DO, al fine di evitare che le dichiarazioni di raccolta uve non fossero veritiere11. Nei dieci anni precedenti i controlli dell’Ispettorato Repressione Frodi erano stati quasi assenti.
Allo stesso tempo la decisione di responsabilizzare i soggetti locali nella governance dei vini di qualità è una conseguenza della struttura politica italiana, che da alcuni anni ha avviato un processo di decentralizzazione di molte funzioni pubbliche a favore delle regioni. Con il federalismo fiscale, attualmente in fase di discussione, il processo di rafforzamento della governance politica locale dovrebbe giungere a compimento. E’ in questo quadro politico, tipicamente italiano, che si deve considerare la decisione del MiPAF di decentrare le funzioni di governo e controllo delle produzioni DO, in parte agli enti pubblici locali ma prevalentemente ai consorzi di tutela.
Un caso di studio: il Chianti Classico
La regione denominata “Chianti Classico” è situata nel cuore della Toscana e si sviluppa in lunghezza per oltre 50 chilometri e in larghezza da 20 a 30 chilometri. Dal punto di vista geografico-fisico il Chianti si presenta come un complesso collinare e montano caratterizzato da una buona uniformità morfologica e climatica, tale da poter parlare di una unità paesistica, di un caratteristico paesaggio geografico chiantigiano, tanto amato dai turisti di tutto il mondo. In realtà l’assetto geomorfologico è piuttosto rude ed aspro, con valli anguste racchiuse tra ripidi declivi, addolciti dall’armoniosa fusione con l’organizzazione umana del territorio che è riuscita a superare, nel corso del tempo, le notevoli difficoltà di un ambiente potenzialmente non molto favorevole all’agricoltura, grazie alle sistemazioni collinari, quali terrazzamenti e ciglioni, costruiti e mantenuti sapientemente dai contadini nelle pendici più scoscese.
Caratterizzato da una vocazione rurale già nel Medioevo e nel periodo rinascimentale, è nel 1700 che il territorio del Chianti acquisisce una precisa identità legata inequivocabilmente alla più importante e prestigiosa produzione locale: il vino. Nel 1716 Cosimo III, Granduca di Toscana, emana un editto che riconosce ufficialmente i confini del Chianti. Il documento rappresenta il primo documento legale della storia in cui si riconoscono i limiti di una area di produzione vitivinicola.
Tra fasi alterne di popolarità e crisi è dopo la I Guerra Mondiale che il vino Chianti consolida la sua immagine di vino di qualità grazie anche ai miglioramenti nei sistemi di coltivazione e di produzione perpetuati dai produttori locali. Nel 1924 nasce il Consorzio per la difesa del vino tipico del Chianti e della sua marca di origine con l’obiettivo di difendere la produzione locale dalle numerose imitazioni e promuovere il brand territoriale.
Nel 1932 sono stabiliti con decreto ministeriale i confini del Chianti Classico, l’area storica di produzione, che si differenzia così ufficialmente dalle altre zone di produzione del Chianti in Toscana. Con questo documento si stabilisce la supremazia del Chianti Classico, che grazie alla sua qualità superiore si differenzia dalle altre aree toscane di produzione del Chianti.
Nel 1967 il MiPAF ha riconosciuto la DO del Chianti, stabilendo delle regole più restrittive per la produzione Chianti Classico. Oggi la DO Chianti include sei differenti aree di produzione definite sotto-denominazioni: Rufina, Colli Senesi, Colli Fiorentini, Montalbano, Colli Aretini e Colline Pisane. Il Chianti Classico rimane però l’indiscusso dominatore in termini di prestigio e qualità della produzione.
Dal punto di vista amministrativo l’area del Chianti Classico è composta da quattro comuni della Provincia di Siena (Castellina in Chianti, Castelnuovo Berardenga, Gaiole in Chianti e Radda in Chianti) e da quattro comuni della Provincia di Firenze (Barberino Val d'Elsa, Greve in Chianti, San Casciano Val di Pesa e Tavarnelle Val di Pesa). I comuni il cui territorio è interamente compreso nell’area di produzione del vino Chianti Classico sono facilmente riconoscibili perché hanno aggiunto al loro nome il termine “in Chianti” e quindi sono Castellina, Gaiole e Radda nella Provincia di Siena e Greve nella Provincia di Firenze. L’area del Chianti Classico si estende per circa 70.000 ha, di cui 7.136 composti da terreni agricoli di produzione di vino DO. La DO Chianti Classico rappresenta il 17% della produzione di vino di qualità della Regione Toscana e il 2,85% di quella nazionale. La produzione oscilla tra i 250.000 hl e i 300.000 hl. La struttura produttiva è caratterizzata da imprese mediamente di piccole dimensioni (il 27% delle aziende ha una superficie inferiore ad un ettaro, che incide per il 2% sulla produzione totale di uva, e il 4% del vino è vinificato dal 40% delle aziende), ma anche di poche imprese di grandi dimensioni che rappresentano in termini produttivi circa il 25% della produzione.
Il dominio della coltura della vite nell’agricoltura del Chianti Classico emerge chiaramente anche dall'analisi dei dati statistici relativi all’ultimo Censimento dell’Agricoltura (2000).
Il Consorzio Chianti Classic
Fondato nel 1924 dall’iniziativa di 33 produttori, il Consorzio Chianti Classico oggi rappresenta circa il 90% delle imprese produttrici di vino DO. Dotato da sempre di un proprio laboratorio analisi, dal 2003 il consorzio può realizzare controlli in tutte le aziende del Chianti Classico. Ciò significa che il consorzio decide quali bottiglie possono essere marcate come Chianti Classico, indipendentemente dall’appartenenza al consorzio stesso.
In realtà il Consorzio ha sempre sottoposto i vini prodotti dai propri consorziati a controlli sensoriali e chimici, la novità sta nel potere erga omnes che il MiPAF gli ha conferito dal 2003. Delle commissioni ufficiali verificano la presenza dei livelli di determinati fattori nei campioni prelevati. I risultati ottenuti sono comparati con i valori qualitativi stabiliti per l’anno di riferimento e chi non rispetta gli standards non può marcare il proprio vino con la certificazione Chianti Classico. I risultati dell’attività di controllo, effettuata di concerto con la Camera di Commercio, sono mediamente positivi. Nel 2003 per quanto riguarda il controllo documentale relativamente alla denuncia uve, su un totale di 979 viticoltori utilizzatori della DO il 98,37% è risultato conforme. Per quanto riguarda il controllo ispettivo di persistenza delle condizioni per l’iscrizione all’Albo Vigneti e di rispetto della resa massima (75 quintali ad ettaro), su 62 viticoltori sottoposti a controllo (5,25% della produzione totale di uva), il 96,77% è risultato conforme. Ugualmente, la totalità delle richieste di prelievo dei campioni (1.128 richieste corrispondenti al 96,04% della produzione totale di vino che nel 2003 è stata di 241.619 hl) ha ricevuto il parere di conformità della Camera di Commercio. Per quanto riguarda il controllo ispettivo in cantina, su un totale di 704 vinificatori utilizzatori della DO, 107 sono stati sottoposti a controllo e la totalità è risultata conforme. Dal 2004 i controlli si sono intensificati e ad oggi, come già detto in precedenza, il Consorzio Chianti Classico ha effettuati sopralluoghi in azienda su oltre la metà dei viticoltori con lo scopo di controllare anche lo stato delle vigne e il rispetto dei disciplinari (80% di uva di tipo sangiovese).
Con un sistema computerizzato il Consorzio provvede a garantire la tracciabilità di ogni bottiglia dalla cantina alla vendita. Certificato UNI EN ISO 9002 nel 2000, il Consorzio Chianti Classico è stata la prima associazione italiana ad acquisire questa certificazione di qualità.
Come ogni altra merce il cui valore dipende principalmente dall’origine e natura delle materie prime utilizzate e dalle caratteristiche del processo produttivo, anche nel caso delle DO il Consorzio ha una duplice funzione: proteggere i vini certificati dalle imitazioni e aggiungere valore alle produzioni locali con la garanzia dei controlli effettuati. I problemi connessi con la concreta utilità delle DO nel Chianti Classico è riferita essenzialmente a due aspetti
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la reale capacità delle DO a garantire standard di qualità elevati dei vini certificati rispetto ai vini esclusi dalle DO;
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la reale capacità delle regolamentazioni DO ad agire come un brand collettivo, capace di dotare i produttori di uno strumento per differenziare i propri prodotti, di un valore aggiunto per le loro produzioni.
I due aspetti, intimamente legati, sono da tempo oggetto di dibattito tra i produttori del Chianti Classici che si interrogano sull’utilità delle DO, almeno per alcuni di loro. La DO Chianti Classico come tutte le produzioni certificate si basa su l’applicazione di rigidi disciplinari sul tipo di uva utilizzata e sui processi di vinificazione. L’elevata qualità dei prodotti si suppone garantita dalla certificazione di provenienza delle uve e dall’assicurazione di precise tecniche di coltivazione e trasformazione delle stesse. I problemi rilevati da alcuni produttori, in genere quelli che si posizionano su standard di qualità più elevati, sta nella rigidità delle prescrizioni e nella lentezza (dovuta principalmente dalle difficoltà burocratiche) di adattamento alle evoluzioni di mercato. Per contro i vini non certificati, anche di provenienza extra-europea, si adattano prontamente ai gusti dei consumatori con evidenti vantaggi competitivi nei confronti dei nostri vini DO. Questa problematica ha contribuito alla omogeneizzazione dei vini DO Chianti Classico e ha ostacolato la creatività dei produttori che, in molti casi, a partire dagli anni ’80, hanno preferito perseguire l’alta qualità con vini da tavola (comunemente conosciuti come supertuscanies), fuori dalla certificazione DO, continuando a produrre vini Chianti Classico più per prestigio che per rafforzare la propria competitività sui mercati internazionali. Il risultato è che i vini più famosi prodotti nell’area del Chianti Classico, frutto di investimenti costosi in nuovi impianti, materiali, enologi famosi e marketing, non sono certificati DO. Questi vini sono prodotti in molti casi con uve non tradizionali più apprezzate sui mercati (cabernet sauvignon, merlot, siraz, ecc…), in genere invecchiati in barriques di legno importate, quindi sono vini non soggetti alle rigide regole delle DO.
In relazione al secondo aspetto menzionato in precedenza (la difficoltà delle DO ad agire come effettivo brand collettivo), l’omogeneizzazione del vino Chianti Classico, unitamente alle disparità nel livello di qualità dei produttori, hanno causato alcuni problemi. Produttori con brand forti possono sentirsi a disagio ad utilizzare gli stessi segni distintivi, la stessa DO, che potrebbero deteriorare la propria immagine. A livello di marketing, una delle possibili scelte dei produttori più importanti può essere quella di stabilire una distanza con gli altri produttori, evitare promozioni o attività in comune. Essendo la promozione dei propri vini una delle attività principali del Consorzio Chianti Classico, come conseguenza alcuni dei produttori più famosi sui mercato internazionale, Montevertine, Castello di Ama, Antinori, Ruffino, solo per citarne alcuni non hanno considerato l’affiliazione strategica per i loro obiettivi di mercato (Zanni, 2004).
Le novità legislative e la rappresentatività erga omnes del Consorzio per le attività di controllo ha cambiato le condizioni precedenti. Il maggior potere del Consorzio ha comportato la revisione di alcune strategie aziendali. Alcuni grandi produttori come Ruffino e Castello di Ama hanno deciso di entrare nel Consorzio, mentre altri come Antinori hanno deciso di convertire alcuni vini DO Chianti Classico in normali vini da tavola. Sicuramente però per molti produttori minori la DO rimane un punto di riferimento importante ed un valido strumento per valorizzare la propria produzione. La situazione è ancora in fase di evoluzione e ci vorranno alcuni anni per valutare più attentamente gli effetti della nuova legislazione italiana sulla DO Chianti Classico e sulle altre DO italiane.
In definitiva, la decisione di demandare al Consorzio tutti i poteri per esercitare il controllo su tutta la filiera produttiva del Chianti Classico, può essere considerata positiva, in particolar modo alla luce della professionalità espressa fino ad oggi.
L'attività di controllo12 si svolgerà in stretta collaborazione con Regione Toscana, Ispettorato Repressione Frodi, Province e Camere di Commercio di Firenze e di Siena e potrà garantire al consumatore la cosiddetta tracciabilità, che diventa così un valore aggiunto su ogni bottiglia di Chianti Classico.
Conclusioni
L’ascesa di nuovi paesi, di origine extra-europea, sempre più competitivi soprattutto grazie ai prezzi bassi e ai buoni standard di qualità dei loro prodotti, ha aumentato la concorrenza sui mercati internazionali. I produttori di vino europei devono controbattere la concorrenza capitalizzando l’immagine di qualità associata generalmente ai loro vini, non potendo competere sul lato dei prezzi.
In quest’ottica, le DO possono essere uno strumento per rafforzare l’efficacia del segnale di qualità ad essi associato, tanto più alla luce dell’evoluzione del comportamento di consumo verso un consumo “occasionale”, più di qualità che di quantità. L’organizzazione economica e i meccanismi di regolazione del sistema delle DO risulta alquanto complesso e da più parti si evidenzia la necessità di una verifica dell’efficacia della strategia dei vini a DO come strumento di segnalazione della qualità al consumatore (Malorgio et Al., 2006).
Del resto anche in Francia, malgrado lo sviluppo dei controlli (in particolare il controllo a valle della qualità realizzato dal circuito di distribuzione attraverso la raccolta di campioni da analizzare), la DO non è sempre una garanzia minimale di qualità (la certificazione è accordata a circa il 97% dei volumi, malgrado ci siano in genere problemi ravvisati dai professionnels sul 10-15% dei prodotti) (Tanguy et Al., 2006).
Per primo è necessario stabilizzare l’offerta rispetto alla domanda al fine di evitare le forti oscillazioni di prezzo che possono mettere a rischio l’impegno qualitativo dei produttori e di conseguenza, indebolire la reputazione collettiva della DO nel lungo periodo (Klein et Al., 1981; Shapiro, 1983).
Secondo, deve essere rafforzato il sistema di segnalazione della qualità garantendo al consumatore la tracciabilità dei prodotti dalla cantina alla vendita e un sistema di controlli severo e imparziale capace di scoraggiare i comportamenti da free riders di alcuni produttori. L’efficacia del sistema di segnalazione della qualità risente anche della proliferazione del numero di DO che in Italia sono molto numerose (331) e frammentate, infatti il 73% delle DO apporta il 10% della produzione totale.
In Italia, per rispondere a queste esigenze si è deciso di redistribuire in parte i poteri nel settore vitivinicolo, decentrando molte delle competenze a favore degli enti pubblici locali (regioni, province, Camere di Commercio) ma soprattutto riconoscendo il ruolo di primo piano nella valorizzazione e vigilanza delle DO svolto dai consorzi di tutela.
Dal 2001, l’attività di controllo su tutte le fasi di produzione dell'uva e della sua trasformazione in vino fino alla presentazione al consumo dei vini a DO, e' affidata dai consorzi di tutela riconosciuti dal MiPAF che siano rappresentativi di almeno il 66% della produzione. A differenza della Francia, in Italia si è deciso di responsabilizzare i soggetti locali che già da diverso tempo svolgevano un ruolo importante nella governance delle DO, decentrando i poteri di vigilanza e controllo.
In questo articolo si è mostrato come la genesi di tale decisione può avere molteplici spiegazioni e può spiegarsi in buona misura prendendo in considerazione il particolare rapporto tra organismi centrali e poteri locali che in Italia assume forme molto eterogenee. Nel caso del settore vitivinicolo, molte funzioni sono svolte dalle amministrazioni locali, prima fra tutte la regione, che con la loro attività affiancano e supportano l’azione delle singole aziende che, nel caso italiano spesso sono di dimensioni medio-piccole. Non solo l’attività documentale di tenuta degli albi, ma anche altre attività fondamentali come la promozione e la ricerca13 sono svolte da tempo dalle regioni e nel caso dei vini più pregiati, dai consorzi. I consorzi sono quindi il soggetto emergente nella realtà vitivinicola italiana e dalle loro azioni e strategie dipenderà in buona parte il futuro dei vini di qualità italiani.
La situazione è in evoluzione e le innovazioni normative ancora troppo recenti per poter definire una situazione definitiva, tanto che da più parti sono stati sollevati dei dubbi sull’adeguatezza dei consorzi a svolgere l’importante funzione di controllo. Diverso è invece il caso di consorzi fortemente consolidati sul territorio, come il consorzio Chianti Classico che, con una rappresentanza di oltre il 90% della produzione e l’elevata professionalità acquisita dai propri operatori nel corso degli anni, sembra adatto a svolgere tale ruolo.
La nuova normativa italiana ha destato l’interesse anche della Confédération des Producteurs de Vins, Eaux de Vie de Vin a Appellation d’Origin Controllées, che in una delle sessioni per la riforma dell’OCM, ha espresso il proprio compiacimento per il progetto sulla tracciabilità dei vini DO italiani ed ha auspicato che questo possa servire da modello anche per gli altri stati membri.
Rimane tuttavia da verificare se le DO siano sufficienti a garantire la qualità e fronteggiare la concorrenza dei vini extra-europei. La strategia portata avanti dai principali gruppi vitivinicoli lascia intendere che le DO non possano essere l’unica strategia aziendale per la qualità del prodotto. In questo senso forse è giunto il momento di interrogarsi sull’utilità delle DO e sulle possibili riforme per rafforzarne l’efficacia, anche e soprattutto sui mercati internazionali, in cui fino a oggi sono poco conosciute.