La viticoltura nell’Oltrepò pavese: capitale territoriale, innovazione, sviluppo locale

Traduction(s) :
La viticulture dans l’Oltrepò pavese : capital territorial, innovation et développement local

Résumé

L’Oltrepò pavese è uno dei territori italiani che ha maggiormente associato la propria identità al settore vitivinicolo. Il settore non solo traina da decenni l’economia dell’area, ma ha sedimentato un patrimonio di risorse materiali e immateriali locali che possono oggi essere messe a valore per la costruzione del territorio contemporaneo.
L’articolo vuole seguire l’evoluzione di questo rapporto tra vino e territorio dalla fine dell’Ottocento fino ad oggi, evidenziandone i punti di forza e di debolezza, anche in prospettiva futura.
L’Inchiesta agraria di fine Ottocento documenta la situazione della viticoltura nella zona dopo la crisi della fillossera e la nascita di una specifica area di produzione. Attraverso le indagini monografiche dedicate al settore è poi possibile leggere l’affermazione e il consolidamento del settore nel corso del Novecento, con una progressiva specializzazione e la creazione dell’area a “Denominazione di Origine Controllata” nel 1970. La situazione contemporanea appare caratterizzata dal tentativo di rispondere a un’accresciuta competizione internazionale attraverso due diverse strategie, anche potenzialmente complementari: da una parte la ricerca di un mercato estero, dall’altra la valorizzazione della qualità e della specificità locale.
La valorizzazione della specificità locale sarà oggetto di un’attenzione particolare al fine di comprendere il ruolo svolto dal territorio nel rilancio del settore: in anni recenti si è assistito nell’area a interessanti dinamiche di valorizzazione del capitale territoriale locale, attraverso la reintroduzione di vitigni storici e la promozione di una viticoltura di qualità, multifunzionale, spesso connessa con l’economia e la società locale.
I dati degli ultimi censimenti generali dell’agricoltura (2000, 2010) raccontano infatti di uno sviluppo significativo delle forme di agricoltura innovativa nell’area che rappresentano non solo un’interessante prospettiva per il settore, ma possono essere esempi di un nuovo rapporto, maggiormente integrato, tra centri urbani e aree rurali alla scala provinciale e regionale. Una particolare attenzione meritano in questo senso le reti sociali ed economiche locali che si stanno sviluppando nell’area intorno al settore vitivinicolo: negli ultimi anni, ad esempio, è stato istituito uno specifico distretto denominato “Distretto del vino dell'Oltrepò pavese - Bonarda e Pinot nero” volto proprio a valorizzare la viticoltura di qualità.
L’analisi delle imprese innovative e delle reti avviate per favorire questo sviluppo locale permetterà di valutare la portata di questa innovazione e le potenzialità per il futuro.

Plan

Texte

Introduzione

L’Oltrepò pavese, quella parte della Provincia di Pavia che si trova a Sud del fiume Po, è una delle principali aree vitate italiane: il settore vitivinicolo non solo traina da decenni l’economia dell’area, ma ha sedimentato un patrimonio di risorse materiali e immateriali locali che possono oggi essere messe a valore per la costruzione del territorio contemporaneo. Questo articolo segue l’evoluzione del rapporto tra vino e territorio nell’Oltrepò pavese dalla fine dell’Ottocento fino ad oggi, con l’obiettivo di interpretare le attuali strategie di sviluppo del settore vitivinicolo in relazione al territorio nel suo complesso.

Prima di entrare nel merito degli argomenti trattati, tuttavia, occorre definire con maggiore precisione i limiti spaziali e temporali di questa ricerca.

Dal punto di vista spaziale questa ricerca si concentra su quella che è oggi l’area di produzione dei vini DOC, che comprende 42 comuni. Quest’area non copre integralmente il cosiddetto Oltrepò pavese, perché esclude la zona pianeggiante a Nord e la montagna a Sud. Tale scelta si giustifica in primo luogo per coerenza rispetto alla tematica specifica trattata in questo articolo. D’altra parte, l’area in oggetto presenta caratteristiche storico-territoriali specifiche che la distinguono dalle altre subregioni dell’Oltrepò pavese (Massi, 1967).

Temporalmente la ricerca ha come punto di partenza la fine del XIX secolo perché in questo periodo prende il via una serie di trasformazioni molto significative nelle modalità di produzione del vino e nell’organizzazione socio-territoriale complessiva, che determina un chiaro momento di discontinuità rispetto al passato.

Il vino nell’Oltrepò pavese alla fine dell’Ottocento.

La coltivazione della vite nell’area risale almeno all’epoca etrusca e può essere seguita nella sua evoluzione dall’antichità al medioevo e lungo tutta l’età moderna (Maffi, 2010). Tuttavia è solo negli ultimi secoli che tale attività ha acquisito una presenza tale da caratterizzare in modo specifico la zona. Nella relazione dell’Inchiesta agraria di fine Ottocento, l’Oltrepò pavese è già riconosciuto per la sua attività vitivinicola, estesa su circa 15000 ettari, con una produzione di 570.000 quintali di uva:

“i circondari di Pavia e Lomellina a sinistra del Po con coltivazione irrigua, e quindi allevamento di molto bestiame, produzione di burro e formaggio, ed i circondari di Voghera e Bobbio a destra con coltivazione di asciutto, scarso bestiame e produzione di uva e vini” (Giunta per la Inchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola, 1883, p. 42)

La descrizione contenuta nel rapporto per l’Inchiesta agraria, tuttavia, si colloca in un contesto temporale molto particolare perché caratterizzato da un’incipiente crisi, originata da fattori di natura ambientale ed economica, che tuttavia raggiungerà il suo culmine venti anni più tardi, all’inizio del Novecento.

Un primo momento di difficoltà venne registrato dopo la metà del XIX secolo con la diffusione dell’oidio e della peronospora che colpirono a più riprese1 le viti dell’area fino agli anni Novanta.

Tuttavia, l’elemento di discontinuità nell’organizzazione territoriale complessiva è determinato dall’azione della fillossera che apparve nell’area alla fine degli anni Novanta, più tardi dunque che in altre zone della penisola, e in pochi anni distrusse la produzione viticola dell’Oltrepò. Se infatti nel 1900 la produzione di vino della zona era pari a 600.000 ettolitri, frutto di una coltivazione estesa su circa 20.000 ettari di terreno, solo cinque anni dopo, a parità di superficie, la produzione si era ridotta di oltre il 30%, mettendo in ginocchio l’intero settore (Maffi, 2010).

La ripresa della produzione viti-vinicola dopo la crisi della fillossera

La fillossera non fu l’unica responsabile della crisi di inizio Novecento: la produzione di vino dell’Oltrepò era messa in difficoltà anche dalle trasformazioni economiche e sociali italiane che esponevano la regione a una concorrenza più ampia e dunque a dinamiche dei prezzi inedite per un sistema produttivo fortemente radicato nella dimensione locale. Nei primi decenni del Novecento il prezzo dell’uva subì un calo molto significativo nell’area che raggiunse il culmine nel biennio 1907-08 (Maffi, 2010).

Il nuovo contesto economico richiedeva una differente organizzazione produttiva che permettesse di tutelare i piccoli produttori della zona. È in questo contesto che nascono le Cantine sociali che diventeranno per molti decenni uno dei motori del settore viti-vinicolo dell’Oltrepò. La prima cantina sociale venne avviata nel 1902 a Montù Beccaria e negli anni successivi l’iniziativa venne replicata negli altri comuni della zona, tanto che nel 1910 le cantine di questo tipo erano già una decina. Il caso più interessante è probabilmente quello della cantina sociale “La Versa”, nell’omonima valle. La cantina nacque nel 1905 con 22 soci e nel 1915 contava già 100 aderenti, concentrati nella produzione di uve Pinot Nero destinate alla produzione di vino spumante, attività che rimane ancora oggi tipica di questa cantina.

Le cantine sociali rappresentano un elemento fondamentale per lo sviluppo della viticoltura in Oltrepò nel quale è possibile osservare l’interazione positiva tra elementi di natura economica, sociale e culturale. In questo senso è significativo notare che la rete sociale ed economica che ha permesso lo sviluppo di questa forma di cooperazione è stata costituita non solo dai produttori, ma anche dal sistema creditizio e dall’imprenditoria locali (Zanardi, 1958, p. 203).

Tale dinamica mette in luce una doppia tendenza che caratterizzerà l’area anche nei decenni successivi: da una parte il consolidamento di una rete di piccoli produttori fortemente radicati nel territorio, dall’altra un processo di progressiva specializzazione volto a impostare un approccio industriale alla viticoltura. Il successo della viticoltura nell’Oltrepò pavese nel corso del Novecento è dovuto anche all’equilibrio che la società locale ha saputo costruire tra queste due tendenze non sempre facilmente compatibili.

Il sistema di piccoli e piccolissimi proprietari (spesso meno di 1 ha di superficie) si radicava nell’organizzazione territoriale preunitaria, fondata sull’agricoltura famigliare promiscua. Il frazionamento della proprietà, già marcato all’inizio del secolo (48.000 proprietari nell’Oltrepò pavese nel 1914), proseguì negli anni successivi (55.000 proprietari nel 1928, 62.000 nel 1949). Il periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale fu in questo senso particolarmente significativo, con la vendita di alcune importanti proprietà nella bassa collina orientale (Cigognola, Broni, Santa Giuletta). La specializzazione è invece un processo relativamente più recente, che tuttavia trova le sue premesse già prima del primo conflitto mondiale, quando la coltivazione della vite si era già imposta come dominante, emarginando altre produzioni come la frutticoltura e la gelsi-bachicoltura (Brianta, 1986).

Questo processo di specializzazione è stato accompagnato da una riduzione del numero dei vitigni a favore di poche qualità che garantivano una produzione maggiore o più continua. È in questa fase che inizia il calo di alcune varietà che tipiche della zona a favore dei quattro vitigni che ancora oggi coprono la quasi totalità della produzione della zona: Croatina, Barbera, Pinot, Riesling. Il caso più evidente è forse quello della Moradella, una varietà che fino alla fine dell’Ottocento era il simbolo della viticoltura dell’Oltrepò pavese e che dopo le crisi di fine Ottocento scomparve a favore del più resistente Barbera di origine piemontese2.

La prima guerra mondiale evidenzia un processo particolarmente interessante: in pianura padana il periodo fu caratterizzato da difficoltà economiche che sfociarono nei noti conflitti sociali postbellici; in collina invece, complice l’aumento dei prezzi del vino e una struttura fondiaria caratterizzata dalla piccola proprietà, la produzione subì meno gli effetti del conflitto preparandosi allo sviluppo del periodo successivo.

Gli anni Venti sono infatti un decennio di grande sviluppo per la viticoltura dell’Oltrepò, trainata da una dinamica dei prezzi rimasta positiva fino al 1929, quando la crisi colpì pesantemente anche questo settore. Anche le politiche agricole dirette alla promozione del grano ebbero un impatto limitato in collina, dove le superfici destinate a questo cereale aumentarono fino alla fine degli anni Venti, per poi stabilizzarsi (Brianta, 1986).

La viticoltura dopo il secondo conflitto mondiale

Se la prima metà del Novecento ha rappresentato per la viticoltura dell’Oltrepò l’avvio di un processo di specializzazione e industrializzazione della produzione, tale processo trova però il suo compimento solo a partire dagli anni Cinquanta, quando la meccanizzazione dell’agricoltura, già presente da tempo nella pianura irrigua, si afferma decisamente anche nelle zone collinari.

Nella sua “Monografia vitivinicola dell’Oltrepò pavese”, nel 1958, Davide Zanardi descrive la meccanizzazione come un processo già pienamente in atto:

“Il faticoso lavoro a mano nelle nostre colline ha ceduto ormai al dominio della macchina: i costi minori, la regolarità del trattamento, il minor tempo da impiegare, la ridotta fatica vedono nei filari i piccoli trattori con aratri e fresatrici, i verricelli azionanti aratrini, i motoaratori, le erpicatrici, i rotovators per le opere varie al terreno, ed altri apparecchi meccanici semoventi per la polverizzazione e l’irrorazione delle viti” (Zanardi, 1958, p. 172).

La meccanizzazione ha significato in molti casi anche una trasformazione radicale nelle tecniche di coltivazione e, di conseguenza, nel paesaggio agrario complessivo. La scelta di piantare le viti lungo la massima pendenza, “a ritocchino”, anziché seguendo le curve di livello (“Girapoggio”) è stata perlopiù dovuta alle esigenze dei macchinari. Questa trasformazione ha poi comportato ulteriori conseguenze territoriali, esponendo i terreni a una maggiore erosione e di conseguenza incrementando il rischio di dissesto idrogeologico (Maffi, 2010).

La meccanizzazione, in Oltrepò come altrove, ha evidentemente favorito le grandi proprietà, contribuendo a una progressiva inversione di tendenza rispetto al frazionamento della proprietà che si era osservato nei primi decenni del secolo. Nel 1970 le aziende vitivinicole presenti sul territorio dell’area DOC erano ancora 10.000, ma nei decenni successivi sono calate a un ritmo costante di 2000 unità ogni decennio fino a ridursi a 2327 secondo l’ultimo censimento del 2010. Se si considera che la superficie vitata è rimasta sostanzialmente stabile, intorno ai 13.000 ha, si può notare che la superficie media è aumentata in modo molto evidente, da poco più di 1 ha negli anni Settanta a oltre 5,5 secondo l’ultimo censimento.

La concentrazione fondiaria e il parallelo declino della piccola proprietà contadina va di pari passo con le dinamiche demografiche che, nella seconda metà del Novecento vedono un progressivo svuotamento delle aree montane e collinari a favore della pianura. Sono i decenni dell’industrializzazione in cui l’agricoltura diventa per alcuni un’attività secondaria e complementare al lavoro in fabbrica e per altri una pratica da abbandonare. La popolazione della collina, infatti, in crescita fino agli anni Venti, si stabilizza intorno alle 75000 unità nei due decenni successivi per poi iniziare un rapido declino (Massi, 1967).

Il fenomeno è ancora più evidente nelle aree montane dove il declino demografico è accompagnato da una crisi delle strutture economiche e sociali. In collina, viceversa, il calo della popolazione è accompagnato da una crescita della produzione: se infatti a metà degli anni Trenta nelle colline dell’Oltrepò si contava una produzione d’uva di circa 100.000 tonnellate, nei primi anni Cinquanta la produzione in quest’area superava già le 130.000 tonnellate (Zanardi, 1958, pp. 61-62).

In questa fase si pone dunque il problema di qualificare la produzione di fronte a un mercato progressivamente più competitivo. Nel 1961 nasce così il “Consorzio di tutela dei vini tipici e pregiati dell’Oltrepò pavese”, soggetto chiave per il successivo ottenimento della Denominazione di Origine Controllata per i vini della zona.

La legislazione nazionale relativa alla Denominazione di Origine Controllata viene emanata nel 1963, ma bisogna attendere il 1970 perché venga ufficializzato il marchio DOC “Oltrepò pavese” che ha qualificato tutti i vini a denominazione controllata della zona fino al 2010, quando la denominazione è stata riorganizzata (v. infra). Da questo momento in avanti la produzione di vino si stabilizzerà dal punto di vista quantitativo al fine di favorire lo sviluppo qualitativo del prodotto3.

Con l’approvazione della denominazione DOC e le successive modificazioni si apre dunque una fase nuova per la viticoltura dell’Oltrepò, anche perché stava progressivamente mutando il profilo del consumo di vino in Italia.

Criticità attuali e risposte

Il settore vitivinicolo in Italia è esposto a una crescente pressione, esito di un insieme di processi tra cui emergono due fattori di particolare rilevanza.

Il primo elemento di criticità è dato dal consistente calo nel consumo di vino a livello nazionale che si è ridotto del 60% nell’arco di quarant’anni: se ancora negli anni Settanta il consumo pro-capite era di circa 120 litri annui, oggi è inferiore ai 40 litri. D’altra parte risulta in aumento il consumo in diversi paesi come gli Stati Uniti, oggi secondo consumatore mondiale dopo la Francia, la Germania, che potrebbe a breve superare l’Italia come terzo consumatore mondiale, e la Cina (OIV, 2013).

Il secondo elemento concerne l’accresciuta concorrenza internazionale. Fino a pochi anni fa la produzione era concentrata in pochi paesi, mentre oggi sono sempre più presenti sul mercato vini provenienti dall’America del Nord e del Sud, dal Sudafrica e dall’Australia.

La risposta nelle zone “storiche” di produzione è stata perlopiù indirizzata a migliorare la qualità e a valorizzare il radicamento territoriale, cercando al tempo stesso di aumentare il valore delle esportazioni verso i mercati emergenti. Se si osservano i dati delle esportazioni di vino italiano degli ultimi 5 anni, infatti, si nota che a fronte di un valore quantitativo sostanzialmente stabile, di poco superiore ai 14 milioni di ettolitri, il valore delle esportazioni è cresciuto di quasi il 35%, da 2,7 a 3,6 miliardi di euro (Assoenologi, 2013).

Nel caso dell’Oltrepò tale strategia è però complicata da alcuni fattori: da una parte infatti, mentre l’area è riconosciuta come una zona storica di produzione, non è chiaramente associata a un vino se non parzialmente e in tempi più recenti con il Bonarda; dall’altra si registra una certa difficoltà da parte dei produttori dell’Oltrepò a posizionarsi sul mercato internazionale in ragione delle limitate dimensioni delle aziende e delle reti commerciali di riferimento.

Le stesse cantine sociali che hanno rappresentato l’asse portante dello sviluppo della viticoltura nell’Oltrepò pavese presentano elementi di debolezza in questo senso: nella relazione per l’accreditamento del “Distretto agroalimentare di qualità del vino dell’Oltrepò pavese”, su cui si tornerà più avanti, tra i fattori di debolezza del sistema produttivo si cita infatti la “presenza di Cooperative non di rado caratterizzate da modesto orientamento manageriale in relazione alla differenziazione di prodotto e alla commercializzazione dei vini” (DAVOP, 2011, p. 38-39).

Di fronte a questo scenario difficile, le risposte dei viticoltori sono state varie e possono essere lette secondo tre indirizzi: la promozione di una produzione sempre più specializzata, la messa in campo di forme innovative di agricoltura e la costituzione del distretto agricolo di qualità.

Specializzazione e concentrazione

Un primo ambito di trasformazioni concerne la progressiva specializzazione della produzione. Sì è già accennato in precedenza a un processo di lungo periodo che vede una consistente riduzione del numero delle aziende e un parallelo incremento della superficie media delle imprese vitivinicole. La dimensione media delle aziende è ancora abbastanza limitata se paragonata ad altre zone della penisola, tuttavia il processo in atto è piuttosto evidente e presenta alcuni casi particolarmente significativi.

Il primo è la penetrazione nell’area di grandi aziende con base esterna. L’esempio più importante in questo senso è l’acquisto da parte del gruppo Zonin della tenuta “Il Bosco” a Zenevdredo nella zona orientale dell’Oltrepò pavese. La tenuta, di 30 ettari al momento dell’acquisto nel 1987, conta oggi più di 150 ettari di superficie destinati alla produzione di Pinot nero, Bonarda e Barbera (800.000 bottiglie).

Un secondo esempio di concentrazione produttiva è dato dall’evoluzione delle cantine sociali dell’Oltrepò. Come detto, queste strutture si sono sviluppate a partire dall’inizio del Novecento e hanno rappresentato uno dei motori più importanti della produzione viti-vinicola della zona. Il numero delle cantine sociali che aveva superato la decina nella prima parte del secolo si è progressivamente ridotto e oggi si contano solo 4 organizzazioni di questo tipo: Torrevilla (nata nel 1970 dalla fusione delle cantine di Torrazza Coste e Codevilla), Terre di Oltrepò (nata nel 2008 dalla fusione tra le cantine sociali di Broni e Casteggio), Canneto (fondata nel 1906) e la citata cantina “La Versa”. La più rilevante tra queste è la cantina Terre di Oltrepò che oggi ha 900 soci e raccoglie ogni anno oltre 500.000 quintali d’uva, quasi il 40% del totale della zona.

Le cantine sociali sono certamente parte di un patrimonio di relazioni sociali ed economiche sedimentatosi nel tempo che costituisce la base dello sviluppo del settore in quest’area. La riduzione del numero delle cantine da una parte permette a quelle rimaste di acquisire una dimensione sufficiente a posizionarsi su un mercato più ampio, dall’altra è un segnale di una potenziale crisi di un sistema economico e territoriale che perde diversità, diventando così progressivamente più fragile.

La specializzazione si riflette anche nelle tipologia d’uva coltivata. Negli ultimi decenni nell’Oltrepò pavese si è assistito ad una progressiva concentrazione intorno a pochi vitigni: Croatina, Barbera, Pinot Nero e Riesling coprono infatti più dell’80% della produzione. L’elemento di maggiore interesse in questa direzione e la crescita delle percentuali destinate alla Croatina e al Pinot Nero, che coprivano il 44% della produzione nel 1990 ed ora si avvicinano al 60% (Maffi, 2010).

È interessante anche il fatto che nel 2010 5 tipologie di vino siano uscite dalla denominazione DOC “Oltrepò pavese” per ottenere una denominazione specifica: Bonarda, Buttafuoco, Pinot Grigio, Pinot Nero vinificato in rosso, Sangue di Giuda. A queste si è poi aggiunta la nuova denominazione “Casteggio”, creata sempre nel 2010.

Innovazione

Un secondo gruppo di risposte alla crisi del settore investe la sfera dell’agricoltura che potremmo definire “innovativa”: produzioni biologiche, reti locali, multifunzionalità. In questo settore la situazione della viticoltura nell’Oltrepò pavese è piuttosto diversificata e può essere utile osservare la distribuzione di questo tipo di attività alla scala provinciale per cogliere alcune caratteristiche specifiche.

Se osserviamo i dati relativi all’agricoltura biologica nel suo complesso, si può notare una tendenza particolare: da una parte si riscontra una certa corrispondenza tra la diffusione di questo fenomeno e l’area DOC, dall’altra, la zona di maggiore diffusione del biologico è piuttosto quella della pianura occidentale, dove prevale la coltivazione del riso, prodotto che sembra beneficiare maggiormente del valore aggiunto dato dall’utilizzazione di metodi di coltivazione biologica.

Fig. 1 – Diffusione delle aziende biologiche nella Provincia di Pavia (dati: ISTAT)

Fig. 1 – Diffusione delle aziende biologiche nella Provincia di Pavia (dati: ISTAT)

Osservando più nel dettaglio i dati relativi alla produzione biologica in ambito viticolo si possono fare altre osservazioni. In primo luogo occorre osservare che il numero complessivo delle imprese biologiche è ancora piuttosto basso. Se si escludono i casi di Borgo Priolo (14 aziende biologiche nel settore), Montalto Pavese (6) e Santa Giuletta (8), negli altri comuni il numero delle aziende biologiche è inferiore alle 5 unità, con un dato medio di 2,4 aziende per comune (ISTAT, 2010). In termini di superfici, l’area destinata alla viticoltura biologica in Oltrepò è pari a 534 ha, il 4,1% della superficie vitata. Si tratta di un dato inferiore alla percentuale italiana nazionale (7,3%) e a quella dell’UE (6,6%) (IFOAM, 2013).

La produzione biologica è dunque avviata anche nell’Oltrepò pavese, ma sembra in ritardo rispetto ad altre aree della penisola, segno probabilmente di una maggiore resistenza della viticoltura tradizionale.

Un secondo ambito di trasformazioni che stanno interessando l’agricoltura italiana si riferiscono allo sviluppo di nuove relazioni tra produttori e mercati locali. Negli ultimi dieci anni questo ambito ha visto un notevole sviluppo, con declinazioni diverse, ma tese complessivamente a riavvicinare consumatore e produttore: vendita diretta in azienda, gruppi collettivi di acquisto, mercati contadini sono tutti esempi di strategie che ripropongono il valore delle reti economiche locali.

Se osserviamo i dati relativi alle aziende agricole che praticano la vendita diretta relativi alla provincia di Pavia, si può notare come ci sia una corrispondenza molto forte tra questo tipo di pratica e l’area DOC “Oltrepò pavese”. L’agricoltura cerealicola di pianura è infatti certamente più orientata alle reti commerciali lunghe, anche quando, come nel caso della pianura occidentale, produce prodotti biologici.

Fig. 2 – Diffusione di aziende con vendita diretta nella Provincia di Pavia (dati: ISTAT)

Fig. 2 – Diffusione di aziende con vendita diretta nella Provincia di Pavia (dati: ISTAT)

La commercializzazione del vino in Oltrepò ha una struttura bipartita. Se infatti osserviamo i canali di commercializzazione, si può notare che la maggior parte del vino (74%) è commercializzato da grandi strutture private o cooperative che si rivolgono quasi integralmente al mercato estero o a quello della grande distribuzione. Accanto a questo settore di grande dimensione, tuttavia, esiste un sistema di cantine private che controlla un quarto delle vendite destinandolo prevalentemente al settore alberghiero e della ristorazione (60%) e al consumatore finale (20%) (DAVOP, 2011).

Questa forma di commercializzazione diretta sembra essere di tipo convenzionale, legata cioè alla pratica delle cantine di vendere il vino in loco. Non risultano infatti ancora molto sviluppate delle vere e proprie reti commerciali radicate nella società locale che si pongano esplicitamente l’obiettivo di strutturare un mercato locale: nell’area DOC “Oltrepò”, ad esempio, risulta attivo un solo Gruppo di Acquisto Solidale, in località Montù Beccaria.

La recente scelta di realizzare a Broni un’Enoteca regionale, poi trasformata in Enoteca dell’Oltrepò, segue la medesima logica di creare dei punti di visibilità, delle “vetrine”4 verso l’esterno, per la produzione enologica dell’Oltrepò, inserendosi così in una strategia di marketing più che di promozione di mercati locali.

Il caso dell’Enoteca di Broni apre a un ulteriore ambito di rilancio della viti-vinicoltura: il legame con il turismo. L’orientamento al turismo può infatti costituire un altro indicatore utile per identificare la diffusione di strategie innovative in agricoltura indirizzate verso la multifunzionalità.

Il nesso tra turismo, viticoltura e marketing territoriale è sottolineato anche nella relazione di accompagnamento alla domanda di accreditamento del “Distretto agroalimentare di qualità del vino dell’Oltrepò pavese”:

“A livello locale, la priorità principale riguarda il rafforzamento della filiera prodotti-turismo, in modo da sostenere, all’interno del territorio pavese, la domanda di vino, sia da parte del turista sia dei locali operatori Ho.Re.Ca, da ottenere operando lungo la direttrice della predisposizione di progetti di marketing territoriale relativi ai prodotti agroalimentari e all’enogastronomia, entro cui vengono a collocarsi, quali elementi di contesto, per molti aspetti decisivi, l’Enoteca Regionale (nella sua valenza provinciale) e la formazione di operatori aziendali e professionali” (DAVOP, 2011, p. 44).

I dati dell’ultimo censimento dell’agricoltura permettono di osservare alla scala provinciale la diffusione delle aziende agrituristiche: tali attività trovano un discreto sviluppo in Oltrepò pavese, anche se la zona di maggiore rilevanza sembra essere leggermente più a monte rispetto a quella di produzione del vino, nella fascia dove la componente naturalistica è più evidente5.

In linea generale, le pratiche di agricoltura innovativa trovano dunque un certo sviluppo nell’area DOC, ma senza emergere come una vera e propria alternativa alla viticoltura tradizionale. Si collocano piuttosto come strategie complementari per rafforzare le pratiche convenzionali di produzione e commercializzazione del prodotto.

Fig. 3 – Diffusione delle aziende agrituristiche all’interno della Provincia di Pavia

Fig. 3 – Diffusione delle aziende agrituristiche all’interno della Provincia di Pavia

Il “distretto agroalimentare di qualità”

Un terzo ambito di risposta alle difficoltà del settore concerne il tentativo da parte di alcuni viticoltori di associarsi in un “Distretto agroalimentare di qualità del vino dell’Oltrepò pavese – Bonarda e Pinot dell’Oltrepò” riconosciuto dalla Regione Lombardia.

I distretti produttivi in Lombardia nascono con la legge regionale 1 del 2007, intitolata “Strumenti di competitività per le imprese e per il territorio della Lombardia” e vengono poi normati con delibere successive6. Nell’impostazione data dalla Regione si tratta di associazioni di imprese su basi tematiche al fine di realizzare economie di scala o organizzative7. I distretti agricoli nascono quindi in primo luogo come strumenti per la competitività in un quadro più ampio che vede nella rete locale un elemento di forza per rilanciare la produzione sul territorio lombardo.

L’approccio economico-funzionalista della Regione Lombardia rispetto a questo strumento fa sì che oggi i distretti agricoli lombardi siano molto diversificati e vedano presenze molto differenti in termini di strategie produttive8. Complessivamente però emerge un’impostazione fortemente centrata sugli aspetti economici, mentre altre tematiche che pure sarebbero parte integrante di una logica di sviluppo locale (ambientali, territoriali, sociali, culturali) sono lasciate ad altre forme di pianificazione.

La Regione distingue tre diversi modelli di distretti agricoli: quello rurale, quello di filiera e quello dell’agricoltura di qualità. Quest’ultima è la tipologia scelta dai viticoltori dell’Oltrepò, ed è così definita nei documenti regionali:

“Si definiscono distretti agroalimentari di qualità i sistemi produttivi locali, anche a carattere interregionale, caratterizzati da significativa presenza economica e da interrelazione e interdipendenza produttiva delle imprese agricole e agroalimentari, nonché da una o più produzioni certificate e tutelate ai sensi della vigente normativa comunitaria o nazionale, oppure da produzioni tradizionali o tipiche.”

Nella citata relazione per l’accreditamento si ribadisce a più riprese la necessità di collegare la dimensione economica e quella territoriale, ma anche in questo documento l’impostazione prevalente appare quella orientata al miglioramento della competitività, come quando, illustrando i risultati attesi si ribadisce “l’impellente necessità di espandere i mercati di riferimento dei vini D.O.C. pavesi (quelli identificativi del Distretto, ma a seguire anche tutti gli altri) per aumentare conseguentemente la domanda su nuovi mercati anche esteri” (DAVOP, 2011, p. 7).

La stessa scelta di focalizzare l’obiettivo del distretto su due soli prodotti (Bonarda e Pinot Nero) rimanda a questa strategia di specializzazione che sembra trovare le sue ragioni più in una “tattica” per “rilanciare, nel comparto vinicolo, il marchio Oltrepò” che in una “strategia” più complessiva di sviluppo del sistema locale (DAVOP, 2011, p. 6).

Conclusioni

La storia della viticoltura dell’Oltrepò pavese costituisce un esempio di sviluppo radicato in un contesto locale nel quale è possibile osservare le sinergie realizzatesi tra ambiente naturale, organizzazione sociale, patrimonio culturale e attività economiche. Lo sviluppo delle cantine sociali è forse l’elemento che meglio identifica questa capacità di costruire reti locali che partendo dalla viticoltura sono state in grado di essere promotori di uno sviluppo più complessivo.

L’evoluzione degli ultimi decenni ha posto l’accento sulla specializzazione e la concentrazione della produzione, spostando progressivamente la strategia dalla dimensione orizzontale della rete locale a quella più verticale dell’integrazione in un mercato sovralocale.

Questa sorta di tensione tra la dimensione locale e quella sovralocale, tra cooperazione e competizione rappresenta una potenziale chiave di lettura teorica delle dinamiche territoriali associate alla viticoltura nella zona.

In conclusione si vuole quindi provare a interpretare il caso di studio alla luce della letteratura relativa alle reti locali in ambito agro-alimentare. Negli ultimi decenni l’analisi delle reti agro-alimentari locali nelle scienze sociali ha avuto diverse linee di sviluppo. Due in particolare ci sembrano di particolare rilievo per interpretare il caso in oggetto: gli studi sui cosiddetti “Alternative Food Networks” e quelli sui sistemi produttivi locali, nelle diverse varianti dei “Systèmes Agroalimentaires Localisés” (SYAL) e dei Sistemi Locali Territoriali (SLoT).

La riflessione sulle reti alternative del cibo (AFNs) nasce in tempi relativamente recenti per interpretare le nuove dinamiche di radicamento locale e valorizzazione qualitativa che parte del settore agro-alimentare sta vivendo negli ultimi decenni (Goodman, 2003). Attraverso questa espressione sintetica sono state riunite diverse pratiche che si pongono in alternativa al sistema produttivo dominante: le produzioni biologiche, la valorizzazione dei prodotti di qualità o legati a specifici luoghi, le reti commerciali radicate nel locale (gruppi di acquisto solidale e farmers’ market), il commercio equo e solidale9.

Nel caso in oggetto è possibile osservare una certa diffusione di pratiche innovative o radicate localmente. Queste pratiche, tuttavia, non sembrano tanto volersi porre in alternativa rispetto al modello di produzione dominante, quanto, al contrario, voler creare le condizioni per potersi inserire in modo competitivo all’intero di quello stesso contesto.

Il secondo ambito di riferimento teorico è rappresentato dalla letteratura relativa ai sistemi produttivi locali (Courlet, 2001) e in particolare ai Sistemi Agro-alimentari Localizzati (SYAL, nell’acronimo francese), definiti come:

“organizzazioni di produzione e di servizio (unità di produzione agricola, imprese agroalimentari, commerciali, di servizio, ristorazione) associate a un territorio specifico attraverso le loro caratteristiche e il loro funzionamento. Il contesto, i prodotti, gli uomini, le loro istituzioni, il loro savoir-faire, i loro comportamenti alimentari, le loro reti di relazione, si combinano in un territorio per produrre una forma di organizzazione agroalimentare a una scala spaziale data” (Cirad-SaR, 1996).

Come si può notare in questo caso l’elemento di “alternatività” rispetto al modello dominante è lasciato in secondo piano, mentre è sottolineato con maggior forza il legame con il territorio locale.

Qui i contatti con il caso di studio sembrano essere maggiori, anche se l’orientamento locale della produzione, che pure ha costituito uno dei punti di forza di questo sistema produttivo, sembra progressivamente venir meno e l’orizzonte locale delle reti commerciali sembra oggi essere considerato più un punto di debolezza che di forza all’interno delle strategie di sviluppo (DAVOP, 2011).

Il tema della connessione tra reti locali e reti sovralocali è sottolineato a più riprese nella letteratura relativa ai Sistemi Locali Territoriali (Dematteis, Governa, 2005). Ciò che però sembra mancare in questo caso di studio rispetto al modello SLoT è un progetto complessivo di territorio che sappia integrare lo sviluppo del settore vitivinicolo in un sistema più complessivo di relazioni sociali ed economiche, capace di produrre “valore aggiunto territoriale” (Dematteis, 2001).

L’orizzonte appare più “tattico”, orientato alla promozione del comparto viti-vinicolo a breve termine attraverso la promozione del “marchio Oltrepò”. Il territorio locale è in questo contesto più lo strumento della promozione della viticoltura sul mercato internazionale che non, viceversa, il fine di una strategia più complessiva di sviluppo. Questo modello di sviluppo sembra, in sintesi, cercare di valorizzare sul mercato il capitale territoriale sedimentatosi in loco, senza tuttavia porsi l’obiettivo di creare le condizioni perché questo capitale possa continuare a riprodursi.

Un’eventuale corsa verso una competizione sempre più specializzata e sempre più spinta sul mercato internazionale avrebbe probabilmente come conseguenza quella di compromettere le basi locali che hanno fondato questo sviluppo, rendendo il modello poco sostenibile nel medio e lungo periodo. Al contrario, uno sviluppo territoriale che ponesse l’accento sulla diversità e sulla multifunzionalità più che sulla specializzazione, sulla diffusione più che sulla concentrazione, sull’integrazione locale più che sul mercato internazionale avrebbe forse maggiori possibilità di produrre innovazione territoriale, costruendo le basi per una reale sostenibilità ambientale, sociale, economica e culturale.

Bibliographie

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ZANARDI Davide, Monografia vitivinicola dell’Oltrepo pavese, Milano, Arti Grafiche Setti e Figlio, 1958.

Notes

1 Tale crisi fu una delle cause della diffusione della Croatina, vitigno meno vulnerabile e divenuto progressivamente simbolo dell’Oltrepò pavese. Retour au texte

2 Lo stesso destino seguono anche altri vitigni autoctoni, come l’Ughetta, il Moretto o il Vermiglio. Retour au texte

3 Lo stesso disciplinare DOC fissa dei limiti nelle rese massime della viticoltura comprese tra 10 e 12,5 t/ha. Retour au texte

4 Il progetto, finanziato dalla Regione Lombardia, ha previsto la ristrutturazione del complesso “Cascina Cassino Po”, nel Comune di Broni al fine di inserirlo in una rete di enoteche regionali. Ultimati i lavori il progetto è stato indirizzato verso la promozione della produzione enologica dell’Oltrepò: “Il Distretto – ha dichiarato il presidente Fabiano Giorgi – (…) così potrà avere anche una vetrina” (La Provincia pavese, 7/11/2013). Retour au texte

5 Un altro dato degno di nota è la forte concentrazione di aziende innovative nel comune di Borgo Priolo. Qui trovano sede 14 aziende biologiche (superiore al 10% del totale) e 11 agrituristiche, segno probabilmente di un effetto agglomerativo che potrebbe manifestarsi progressivamente anche in altre aree dell’Oltrepò. Retour au texte

6 In particolare la DGR 10085 del 2009 che definisce i criteri per l’accreditamento dei distretti agricoli. Retour au texte

7 Secondo la definizione della Regione Lombardia si intendono come distretti “le aggregazioni di imprese secondo legami di affinità che possono avere carattere tematico-settoriale, territoriale o congiunto, ovvero altro specifico legame di correlazione. Ai distretti possono aderire liberamente le imprese industriali, artigianali, cooperative, della distribuzione, dei servizi, edili, turistiche, agricole e agroalimentari”. Retour au texte

8 Dei 19 distretti agricoli lombardi, 8 sono di filiera, 8 rurali e 3 di agricoltura di qualità. Tra i diversi distretti si trovano realtà che promuovono specifiche qualità o eccellenze, altri che sostengono modelli agricoli più tradizionali e persino un distretto agroenergetico promosso dal Consorzio italiano biogas nel quale la produzione agricola non è associata al consumo alimentare né direttamente, né indirettamente. Retour au texte

9 Si tratta dunque di pratiche anche diverse tra loro, che spesso, non sempre, trovano forme di collaborazione. Retour au texte

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Référence électronique

Valerio Bini, « La viticoltura nell’Oltrepò pavese: capitale territoriale, innovazione, sviluppo locale », Territoires du vin [En ligne], 6 | 2014, publié le 01 mars 2014 et consulté le 22 novembre 2024. Droits d'auteur : Licence CC BY 4.0. URL : http://preo.u-bourgogne.fr/territoiresduvin/index.php?id=823

Auteur

Valerio Bini

Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali, Universita degli Studi di Milano

valerio.bini@unimi.it

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