Introduzione
L’Italia, insieme alla Francia, è tradizionalmente il Paese del vino e si alterna con essa per il riconoscimento annuale di primo produttore mondiale, nel 2013 assegnato all’Italia con 45 milioni di ettolitri.
I vigneti coprono gran parte della sua superficie, trovando condizioni favorevoli dal punto di vista altimetrico – metà del territorio è collinare – pedologico (data l’ampia varietà dei terreni, in prevalenza di origine sedimentaria) e climatico, grazie alla mitezza mediterranea. Piemonte, Veneto e Toscana detengono le denominazioni più prestigiose.
Storicamente, il consistente popolamento delle aree collinari ha contribuito allo sviluppo delle tecniche viticole che, se prettamente legate ad un’economia di tipo familiare fino alla metà del secolo scorso, iniziano poi a diversificarsi e a potenziare il rendimento per una produzione vinicola di sempre maggiore importanza commerciale.
La produzione di uva da tavola si concentra per la quasi totalità nell’Italia meridionale e in due sole regioni, Puglia e Sicilia (con la prima che copre addirittura il 75% del totale); di conseguenza, è comprensibile vi sia stata raggiunta una forte omologazione clonale. La viticoltura da vino si estende invece praticamente in tutte le regioni, dando così la possibilità di un’estrema differenziazione delle cultivar e dei metodi di produzione impiegati, date le diversità riscontrate in quanto a latitudine e condizioni morfo-climatiche.
Ciò era valido per l’antichità, quando le varietà identificate come locali rispondevano al meglio ai condizionamenti naturali (ed erano quindi resistenti al freddo nelle aree più rilevate, a tarda maturazione nelle zone poco assolate…) soddisfacendo soprattutto collocazioni finali del prodotto di limitata distanza (dal consumo domestico a quello padronale, fino all’indirizzo religioso).
La crescente specializzazione produttiva che caratterizza, quale conseguenza dell’industrializzazione, soprattutto gli ultimi sessant’anni, porta inizialmente ad una standardizzazione di un’offerta considerata dalla Comunità Europea, già negli anni ’70, superiore alla richiesta. Il paesaggio viticolo, quale tratto culturale identificativo delle nostre colline, prova però fatica a ridursi tentando quindi, nuovamente, la via della diversificazione.
Seguire con esattezza il passaggio dalla coltura promiscua a quella specializzata non è facile. Nei Catasti agrari dei primi decenni del ‘900 – ma anche nei più antichi Statuti comunali – vengono utilizzate espressioni dal significato non univoco (vigna, vite arbustiva…) per indicare se la vite è coltura prevalente con riferimento al numero di piante, al loro valore economico, alla superficie interessata.
Il criterio più accettabile diviene, a metà dello stesso secolo XX, quello della densità colturale e tale rimane fino a tempi recenti, quando viene deciso di non rilevare più l’entità (ormai trascurabile) della coltura promiscua; l’introduzione dello schedario viticolo comunitario rende poi definitivamente non censibile tale residuale presenza.
In Italia la superficie vitivinicola mostra una crescente estensione – come è evince dalla fig. 1 – fino al 1976, quando la Comunità Europea inizia a porre un esplicito freno a tale diffusione. Si arriva dunque alla situazione attuale: l’estensione occupata dai vigneti è inferiore addirittura a quella dei primi decenni del ‘900, quando il prevalere della coltura promiscua esprimeva una diffusa attività di tipo familiare.
Il picco riferibile agli anni ‘70 si spiega con l’avvento della meccanizzazione, fattore che moltiplica i rendimenti aziendali. In Umbria tale sviluppo avviene in ritardo, rendendosi manifesta nel decennio successivo.
L’Umbria
La viticoltura umbra, intesa quasi esclusivamente come produttrice di uva da vino, ha una lunga tradizione, legata strettamente all’economia e alla cultura locali. La collina, abitata fin dall’antichità, occupa il 70,7% del territorio regionale; ciò ha reso possibile la diffusione di assetti produttivi policolturali venuti meno anche con l’abolizione dell’istituto mezzadrile.
Se l’Umbria offre paesaggi viticoli diversi, lo si deve alla varietà morfologica di questa regione, modellata dalla tettonica e dal succedersi di coperture scaturite dalla sollecitazione dei movimenti stessi.
Vini differenti sono prodotti quasi ovunque, tradizionalmente anche in montagna (fig. 4). Il passato prevalere della policoltura di sussistenza in ambito collinare spiega la tradizionale scelta di una coltura promiscua, nonché la riduzione di essa contestualmente agli inurbamenti degli ultimi cinquant’anni. Il vigneto specializzato ha nell’Italia meridionale una tradizione di più lunga data.
Nelle diverse epoche la vite ha conosciuto alternativamente momenti di espansione e arretramento, adattandosi al variare delle condizioni socio-economiche. In età romana ha un forte avanzamento, mostrandosi con una notevole varietà di sistemi di coltivazione; durante il Medio Evo, invece, essa regredisce ovunque mantenendosi soprattutto in ambito urbano e periurbano. Si riduce allora fortemente la coltura promiscua a favore di quella specializzata, separata dalle altre coltivazioni, mentre con il riprendere del dinamismo colonizzatore, nell’età comunale essa rifiorisce.
Negli Statuti comunali compare una strenua difesa della vite, attuata combattendo i furti e incoraggiando con detassazioni la messa a coltura, in alcuni casi resa obbligatoria. Nel ‘500 la policoltura avanza in Umbria nelle aree più pianeggianti, in conseguenza anche alla sistemazione idraulica dei fondovalle; qui l’albero ha avuto in più la funzione di elevare la vite dall’umidità del terreno (Desplanques, 2006, tr. it., p. 691). L’utilizzo di alberi, considerato come un eccellente investimento, si diffonde progressivamente durante la seconda metà di tale secolo.
La coltura promiscua nel XVII e nei due secoli successivi ha la sua massima espansione fino a comportare un carico arboreo di densità eccessiva, controproducente sia per la quantità di ombra arrecata sia per la ridotta estensione lasciata alle altre colture.
Il vigneto specializzato prende dunque forma negli anni ’60, anche grazie a finanziamenti pubblici rivolti alle grandi aziende; la L. 2/6/1961 «Piano quinquennale per lo sviluppo dell’agricoltura» incita alla specializzazione, invertendo l‘indirizzo conferito un secolo prima dallo Stato Pontificio. Dove è stato possibile intervenire con capitali consistenti in aggiunta al sostegno pubblico, è il caso delle grandi aziende, la trasformazione è avvenuta più rapidamente.
Riguardo l’area che qui si va a trattare, la sporadicità di notizie affioranti per i secoli della modernità basta per ricordare l’estremo grado di specializzazione che l’Orvietano ha conseguito già nei tempi passati.
Indirettamente si acquisisce il dato nel riferimento alla presenza di pali di sostegno, propri, a differenza dell’albero, ad una coltura commerciale. Ciò era indicato già nello Statuto comunale del 1581: «Nulli liceat auferre palos neque uites, nec accipere de aliqua vinea nisi esset Dominus uel laborator, uel cum licentia Domini uel laboratoris sub pæna quinque librarum: & si quis non habes uineam propriam uel coductam, & fuerit repertus deferre palos aut vites possit puniri eadem pœna ac si fuisset repertus illos uel illas accipere de aliena vinea, nisi aliter probabitur» (Statutorum Civitatis Urbis Veteris volumen, 1983, rist. anast, p. 238).
La presenza del vigneto specializzato è inequivocabilmente registrata nel primo Censimento nazionale dell’agricoltura nel 1961; qui il dato appare distinto da quello relativo alla coltura promiscua.
Si evidenziano per tale data valori molto più elevati nella provincia di Perugia, la cui estensione è 2/3 del territorio regionale. La fig. 2 mostra la distribuzione della superficie specializzata al 1961 per classi d’ampiezza aziendale.
Si osserva per Perugia una presenza molto maggiore nella fascia intermedia, compresa da 5 a 20 ha di estensione, dove si concentra più della metà, il 58,4% della superficie complessiva. Nella provincia di Terni, a fronte di valori comprensibilmente inferiori, la distribuzione è più omogenea: più regolare è l’andamento del dato tra 2 e 50 ha di estensione, in cui si distribuisce il 76,1% della viticoltura specializzata.
Nelle classi estreme (0-2 e >50 ha) la presenza è percentualmente più alta nella provincia di Terni che in quella di Perugia: 16,1% nella prima contro 8,4 nella seconda nelle aziende di modeste dimensioni e 7,6 contro 4,5 in quelle più grandi.
Come si evince dalla fig. 3, l’andamento della superficie aziendale media per classe d’ampiezza ha un comportamento estremamente simile – sia pure più regolare per Terni - fino alla classe 20-50 ha. Da quella successiva si ha una flessione per Perugia e, al contrario, un picco esponenziale per Terni evidente nelle due più grandi classi, l’ultima in particolare. In questa, la superficie aziendale media a vigneto specializzato è infatti addirittura pari a 3,4 ha.
Si tratta effettivamente di poche aziende: hanno ampiezza superiore a 100 ha solo 7 aziende in cui si concentrano 23,8 ha di vigneto specializzato. Nella provincia di Perugia, nelle 29 aziende superiori a 100 ha di estensione, il vigneto presenta invece una dimensione media minore, pari a 1,5 ha.
Interessante anche quanto evidenziato a fig. 4, dove emerge una presenza della viticoltura specializzata che è, al 1961, quasi uguale nella distribuzione altimetrica in provincia di Perugia, dove anzi in montagna si raggiungono valori di superficie specializzata più alti. Nella provincia di Terni la produzione si concentra invece in collina.
Nel Censimento seguente (1970) l’ISTAT modifica il criterio di misurazione per la viticoltura specializzata, rendendo difficile la comparazione dei dati con quelli registrati nel decennio precedente (Melelli et Perari, 1973).
Si seguono comunque i dati efficacemente elaborati dalla Camera di Commercio di Terni, che nel 1975 tenta un inquadramento dei dati censuari a livello comprensoriale, evidenziando ancora per la vite l’entità delle colture principale e secondaria (fig. 5).
Il risultato è interessante: nel comprensorio Orvietano l’estensione della coltura definita come principale (pura e prevalente) risulta superiore a quella secondaria, valutata pari a 6.171,42 ha contro 3.501,67; a livello provinciale i valori di coltura principale e secondaria si equiparano, a differenza di quanto avviene nella provincia di Perugia.
Nel 1970 Orvieto e i comuni che fungono da corona produttiva mostrano quindi un grado di specializzazione non presente altrove nella regione; unico aspetto dolente è la vetustà degli impianti. Nonostante sia evidenziato un elevato grado di specializzazione, ben il 50,8% delle viti ha un’età superiore a trent’anni (nella coltura secondaria tale rapporto raggiunge tuttavia addirittura l’82,4%).
Si sottolinea inoltre l’estensione viticola dell’Orvietano rispetto a quella dell’intera provincia. Di fatto, il solo comune di Orvieto con 2.836,32 ha nel 1970, detiene la più ampia superficie a vite rispetto agli altri comuni dell’’Umbria.
La superficie in coltura principale presenta, come si vede ancora nella stessa figura, valori assoluti quasi uguali nelle due province, che hanno però, lo si ricorda, estensione territoriale ben diversa. Per i tempi successivi non è più possibile scorporare la coltura non specializzata, comunque soggetta ad una rapida regressione.
Ancora nel 1986, un’elaborazione della CCIAA di Terni riporta una distribuzione areale distinta tra specializzata e promiscua, che conferma la supremazia del comune principale per l’Orvieto classico, e la distribuzione più uniforme tra i comuni del comprensorio a denominazione Orvieto. Nell’Orvieto classico la coltura risulta essere quasi interamente specializzata. Lo stesso studio riporta inoltre i dati della produzione vinicola, che risulta essere pari a 85.392 hl per l’Orvieto classico e di 25.141 hl per l’Orvieto1.
Il primo valore si deve in primo luogo al comune principale (58.848 hl, il 68,9% del totale); nell’Orvieto la distribuzione produttiva è più uniforme e si ha anzi una maggiore concentrazione nel comune di Ficulle che non in quello di Orvieto.
Arrivando dunque all’attualità, al Censimento 2010 la superficie media aziendale è pari, a livello nazionale, a 1,6 ha, con un valore più che raddoppiato se si confronta con quello del 1982 (quando era 0,7) e del 2000, quando ancora era 0,9.
Se questo processo rivela una contrazione nel numero delle aziende meno competitive, pur tuttavia nasconde il persistere di ampie differenze a livello regionale2. Se nel 1982 le più ampie dimensioni medie si collocavano nell’Italia meridionale (la Puglia con 1,2 e la Sicilia con 1,1), le stesse regioni mostrano oggi un incremento più debole.
L’Umbria, che deteneva nel 1982 un valore di ampiezza modesto (0,5 ha) mostra da un punto di vista evolutivo un comportamento del tutto simile a quello delle altre regioni dell’Italia centrale. La dimensione media è oggi pari a 1,1 ha, di poco inferiore a quella nazionale. Tra le due province si riscontra una differenza: Perugia presenta 1,07 ha di superficie aziendale media e Terni 1,20.
In fig. 6 si presenta un grafico relativo al numero delle aziende viticole e alla relativa superficie, a livello comunale. E’ di immediato risalto l’estensione rilevata nel comune di Orvieto, nettamente superiore a qualunque altra.
Può dunque essere opportuno inoltrarci più direttamente nell’esemplificazione dell’area orvietana, cui si deve a tutt’oggi la maggiore concentrazione regionale di vigneti in coltura specializzata.
L’area vitivinicola orvietana
L’agronomo Giorgio Garavini, ispettore del Ministero dell’Agricoltura incaricato nel 1931 di delimitare l’area di produzione del «vino tipico» così si esprimeva in una sua relazione: «il vino d’Orvieto è celebre per aver allietato fino da antichissimo tempo mense illustri di Papi, Principi e Porporati. Per essere stata la Città di Orvieto residenza Papale, derivarono frequenti relazioni con Roma, per modo che verso questa Città partivano spesso i barili del celebre vino destinati a uomini eminenti» (Garavini, 1933, p. 227).
La notorietà dell’Orvieto probabilmente non necessita di sottolineature. Si desidera solo ricordare la continuità temporale di una produzione che, trovando favorevoli condizioni in quanto a esposizione, natura e assetto dei terreni, nonché posizione rispetto alle maggiori rotte commerciali, prosegue senza interruzioni dall’età etrusca fino ad oggi.
Testimonianze materiali ne sono i resti del porto romano di Palianum e le anfore vinarie rinvenute alla confluenza del F. Paglia nel Tevere presso Baschi, durante scavi effettuati negli anni 1889-90 presso la Tenuta di Corbara.
Informazioni sull’estensione territoriale della coltura sono già desumibili dal Catasto del 1292, che rileva nell’Orvietano la diffusa presenza della vite, per tale data non pensabile altrove in Umbria.
Si può dunque riflettere sul grado di specializzazione assunto dalla coltura, confermato dalla constatazione relativa ad una ridotta varietà clonale, che per altre parti della regione troviamo molto più sfaccettata, anche nella più recente attualità (Giacchè, 2009).
Il prevalente uso di pali al posto del sostegno vivo, cui si è già accennato, è un altro motivo di riflessione sulla natura commerciale della vitivinicoltura orvietana, già evidente nel XVI secolo.
E’ soprattutto nella prima metà del ‘300, a seguito di un forte incremento della domanda, che si assiste all’avanzare della superficie vitata e ad una crescente diffusione di vini pregiati.
Da rimarcare è l’introduzione di vitigni non autoctoni come il trebbiano che, citato in un contratto d’affitto già nel 1282, era già arrivato, nel 1334, ad occupare buona parte dello spazio circostante la città (Riccetti, 2008, p. 151).
L’autorità comunale si adoperò, come è documentato fin dal XIV secolo, in una politica di tutela dell’attività vinicola: facilitazioni fiscali erano state messe in atto – se ne ha notizia dagli statuti e dai registri della Colletta di Orvieto – nei confronti del vino introdotto in città (Vaquero, 2012, p. 45).
Anche il potenziamento della domanda veniva incoraggiato; si riporta per il secolo XV il noto esempio del cantiere per la fabbrica del Duomo, quando la retribuzione ad artisti e manovali era stata pattuita non solo in forma pecuniaria ma esplicitamente comprensiva di una fornitura in vino orvietano (Melelli e Moretti, 2004; Vaquero, 2012, p. 66).
E’ interessante, oltre che ricordare la comparsa nel tempo di testimonianze materiali, sottolineare i richiami alla specializzazione colturale che è possibile evincere dalle fonti catastali.
Dopo alterne fortune, nel XIX secolo l’Orvieto gode ormai di una notorietà internazionale, sottolineata anche nella letteratura; si rimanda per questo ad esempio ai Sonetti del Belli, dove compare più volte il riferimento ad esso come vino di festa (Melelli e Moretti, 2004, pp. 20-21). Il Catasto Gregoriano rileva distintamente nello stesso secolo la presenza di vigneti specializzati, diffusa soprattutto a nord della città (Sugano, Canale).
Nel secolo precedente era stata effettuata una valutazione dei terreni vitati orvietani, valutando come migliori quelli ubicati nel centro cittadino (Vaquero, 2012, p. 69). Ugualmente di ottima qualità erano stati reputati di elevato valore catastale i terreni di Capretta, del Castello della Sala e di Monterubiaglio.
Il volume di produzione, valutato con il metro attuale, diventa tuttavia significativo solo alle soglie del ‘900. La cantina Bigi è ricordata fin dal 1880 per gli sforzi compiuti nella modernizzazione dell’apparato produttivo e distributivo, nonché per i riconoscimenti qualitativi ottenuti. E’ allora che si pongono le basi per l’industrializzazione del comparto, dopo al periodo di crisi evidenziata da un forte avanzamento della coltura promiscua rispetto a quella specializzata (Vaquero, 2012).
Inoltre, sul finire dell’ ‘800, iniziano a susseguirsi esposizioni miranti a far conoscere i vini umbri al di fuori del contesto locale. Le ditte orvietane Simoncini e Petrangeli Urbani e C. vennero insignite di prestigiosi riconoscimenti, acquistando il posizionamento internazionale dei propri vini: “Le pubblicità raccontano, ad esempio, che la ditta Petrangeli Urbani e C. possedeva uno stabilimento enologico attrezzato con i più moderni macchinari destinati alla produzione di vini fini di lusso bianchi, prodotti con le migliori uve locali, vino in bottiglia, secco speciale “da pesce”, vino in fiaschi e vini spumanti specialità Orvieto champagne … Nella mostra di Roma del 1895 ritroviamo la ditta “Petrangeli Urbani e C.” di Orvieto con un “bianco secco pesce” che nulla aveva da invidiare ai vini francesi o renani di gusto fine e delicato” (Vaquero, 2012, p. 150-151).
Si ricorda ancora l’esposizione di Parigi del 1900, in cui l’Orvieto emerse come unico rappresentante regionale, ancora con la Petrangeli Urbani e C., sia con la qualità “superiore” che con l’”amabile”.
I numerosi premi sono espressione di una qualità raggiunta anche attraverso importanti opere di modernizzazione degli stabilimenti produttivi. Fattore di modernizzazione è poi la costituzione delle cantine sociali; nei primi anni ’30 del ‘900 veniva realizzato l’enopolio di Allerona, sorto per permettere l’ammasso di uve da parte di piccoli e medi viticoltori. Ma è soprattutto nel secondo dopoguerra che prende forza l’idea di potenziare la forma consociata: “Nel 1969, in occasione della settima mostra dei vini dell’Italia centrale, che si svolse a Orvieto, nello stand allestito dalla Cooperativa vinicola Colli orvietani si poteva leggere, scritto a caratteri cubitali: “Una moderna organizzazione di produttori al servizio della qualità”- Il futuro sembrava affidato alla cooperazione” (Vaquero, op, cit., p. 216).
Dalla già citata relazione del Garavini emergono riflessioni sulla produzione di inizio secolo, che constava, secondo il Catasto agrario del 1910, di 60.009 q di uva prodotti nella “zona collinare di Orvieto”. Di questi, appena il 5,9% sarebbe derivato da coltura specializzata; con riferimento al solo comune principale, egli dichiarava quindi una produzione vinicola pari a 115.000 hl (di cui il 65,2% soggetto a esportazione). Riguardo al “vino tipico” le esportazioni, dirette principalmente verso i Paesi dell’Europa occidentale, costituivano il 14,3% dell’intera produzione, che lo stesso agronomoi valutava intorno ai 28.000 q. A fronte di un consumo locale pari ad un altro 17,9%, la commercializzazione di qualità risultava allora essere diretta per il 67,8% verso il resto dell’Italia.
Garavini sottolinea inoltre l’importanza della nascita di un Consorzio per tutelare i produttori - non più di tanto coinvolti nel processo di trasformazione - e realizzare un interfaccia tra essi e il consumatore finale.
Lo stesso studioso propone poi una delimitazione dell’area di produzione del “vino tipico”; gli stessi comuni interessati saranno pertanto inclusi al momento di attribuzione della DOC3. Tra la fine degli anni ’60 e quella del decennio successivo in Umbria si definisce il quadro delle produzioni certificate, in linea con quanto richiesto dalla Comunità Europea in termini di riduzione delle superfici e miglioramento qualitativo (regolamenti 33/79 e 817/70). La tradizione viticola umbra si rivelava così pronta in tale epoca a cogliere la sfida qualitativa comunitaria4.
La diversificazione colturale riscontrata nella regione, cui si è accennato, giustifica la molteplicità di riconoscimenti, riferibili ad areali diversi per pedologia e clivometria. I volumi della produzione certificata mostrano comunque fin dall’inizio il maggio peso commerciale dell’Orvieto rispetto alle altre DOC
La situazione attuale presenta un’ampia diversificazione produttiva, che insegue dunque un mercato sfaccettato e sparso in tutto il mondo. Si riflette ancora sulla maggiore fama dell’Orvieto al di fuori dell’Italia: in realtà le vendite si distribuiscono oggi per metà sul mercato italiano e per l’altra metà verso un’ampia fascia di Paesi esteri, comprendenti USA, Canada, Giappone, Germania e Regno Unito.
Per una disamina degli ultimi decenni si è detto in altra occasione (Castagnoli, 2013), dove si trovano espresse brevemente – oltre ad una descrizione dei tratti caratterizzanti dell’area vitivinicola - riflessioni basate sulle ultime rilevazioni statistiche effettuate da Unioncamere. Per l’attualità si fa invece riferimento a quanto fornito da Valoritalia, l’organismo istituzionale sorto nel 2009 per far rispettare le normative comunitarie in materia di certificazioni, che esigono che i dovuti controlli vengano effettuati da soggetti terzi5.
La tab. 1 esprime dunque i quantitativi registrati nel 2012. Il precedente suaccennato rilevamento, non riportando i dati relativi all’imbottigliamento fuori zona, forniva un quadro in parte diverso. Ciò conferisce la possibilità di porre l’accento sul mancato compimento di una valorizzazione del prodotto industriale, che frequentemente si avvale di strutture più idonee ubicate fuori regione, nella vicina Toscana o comunque altrove in Umbria o anche nel Lazio (ciò non comporta evidentemente cambiamenti nella denominazione d’origine).
A tale proposito, un riconoscimento che incoraggi, valorizzandolo, l’imbottigliamento in zona è stato di recente proposto (pur se non ancora in veste definitiva) in sede consortile6.
Dando uno sguardo ai successivi disciplinari si può riflettere sui ravvicinati aggiornamenti normativi che hanno avuto luogo in tempi recenti, anzitutto per ampliare il novero delle denominazioni. Ci si riferisce all’istituzione, nel 1998, della DOC Lago di Corbara, mirante ad identificare un subterritorio di cui si vuole esaltare la peculiarità. La richiesta di denominazione scaturisce dalla volontà di aumentare le potenzialità di un prodotto già individuato dal 1987 come IGT; ciò ha comportato anzitutto una più rigida definizione della composizione ampelografica.
Del 1998 è anche l’attribuzione della DOC al Rosso Orvietano (o Orvietano Rosso) comprensivo di un’area che si va quasi a sovrapporre a quella dell’Orvieto – ne restano esclusi i comuni del Viterbese, mentre viene incluso S. Venanzo - onde valorizzare anche la produzione di vini rossi. Tale riconoscimento, pur se soggetto anch’esso ad un progressivo affinamento degli attributi normativi – l’ultimo provvedimento è del 2010 - non è assolutamente paragonabile, per volumi registrati, all’Orvieto classico, né all’Orvieto.
La prima importante modifica al disciplinare riguardante l’Orvieto si ha nel 1990: essa punta ad una migliore caratterizzazione del prodotto, riducendo la scelta delle varietà ammesse; ma è soprattutto dalla norma successiva che si individua propriamente la volontà di un innalzamento qualitativo del prodotto.
Con il nuovo disciplinare un “Orvieto superiore” può essere prodotto riducendo la resa ammessa a 8 t/ha; ciò è ottenuto tramite il posizionamento dei filari ad almeno 3.000 piante/ha7. Questo indirizzo viene proseguito in tempi recenti quando, nel 2003, è stato individuato il grechetto come varietà principale ammessa, che deve costituire almeno il 40% del prodotto (fino a un massimo 80%). Oltre a ciò, la modifica al disciplinare introduce una ulteriore riduzione della resa: all’Orvieto superiore si aggiunge dunque la vendemmia tardiva, con massima resa di 7 t/ha.
Ancora una modifica, forse la più interessante, si è registrata nel 2010 con l’introduzione nel disciplinare della muffa nobile, che può essere ottenuta solo da una resa viticola non superiore a 5 t/ha.
La muffa nobile
La muffa nobile è probabilmente – nonostante i bassi quantitativi al momento registrati – uno dei fiori al’occhiello della produzione orvietana, con un mercato suscettibile di avanzamenti.
Le immagini sopra riportate esprimono tutto il fascino di una coltivazione decisamente peculiare, necessitaria di adeguate capacità colturali ed enologiche, possibilità di investimenti ma, evidentemente, anche predisposizione riguardo alle condizioni naturali.
L’umidità mattutina insieme al buon grado di ventilazione e di insolazione diurna, favorite dalla prevalente esposizione a sud-ovest, in massima parte su terreni collinari, sono fattori capaci di determinare condizioni favorevoli alla botritizzazione, altrimenti decisamente rara in Italia e non foriera al momento di paragonabili risultati e di quantità di valore commerciale.
Già il Garavini si soffermava sulla necessità di trattamenti da apportare per bloccare la fermentazione di vini dolci soggetti a lunghi trasporti, come si evince dalla descrizione presente nel Disciplinare dell’Orvieto: “Con riferimento all’introduzione del vino Orvieto» DOC nella tipologia “muffa nobile” si evidenzia che già nel 1933 il Prof. Garavini nella descrizione del vino d’Orvieto cosiddetto “abboccato” fa riferimento agli scrittori italiani di enologia e riporta che alcuni ritenevano più gustoso l’Orvieto dei Sauternes mancando in essi quel sapore di zolfo, che invece si riscontra quasi sempre in questi ultimi” (Vaquero, 2012, p. 363).
Nel 2013, anno a cui si riferiscono le immagini, la vendemmia della muffa nobile è stata precoce e abbondante, grazie alle prolungate precipitazioni nella tarda primavera e al persistere di valori termici elevati nel corso della stagione. Come si nota in particolare alla fig. 10, nell’ultimo mese le piante sono state in parte defoliate, per agevolare l’esposizione all’aria dei grappoli.
Data la notevole mole di lavoro collegata a questa produzione, che si svolge interamente in forma manuale - dal continuo controllo dell’avanzare della maturazione dei singoli grappoli alla raccolta e alla selezione finale - non si può pensare ad una sua evoluzione al di fuori delle poche grandi aziende caratterizzate da elevata specializzazione dei processi produttivi. I quantitativi commercializzati soddisfano per ora un mercato forzatamente di nicchia.
Le aziende e le cantine sociali
Una peculiarità del territorio orvietano è la persistente vocazione agricola, che dal secondo dopoguerra si è andata forzatamente dicotomizzando a favore della specializzazione vitivinicola e, d’altro canto, lasciando all’abbandono terreni già adibiti ad un ventaglio di colture ben più ampio.
Ciò spiega anche come il quadro aziendale si componga di poche, grandi imprese e da una miriade di piccole e medie proprietà che coprono però insieme ben il 70% della produzione totale e conferiscono le proprie uve alle due cantine sociali.
Grandi aziende sono quella del Castello della Sala, proprietà dal 1938 dei marchesi Antinori, che detiene nel territorio dell’Orvieto classico 140 ha a vigneto specializzato (più un piccolo oliveto per esigenze domestiche). Qui, a partire dal 1987 si produce anche il pregiato Muffato della Sala.
Importante è anche l’azienda Barberani, affacciata sul lago di Corbara (comune di Baschi), attiva dal 1961 con 100 ha investiti a vite di cui 55 in coltura specializzata. Parte della produzione è priva di solfiti, qualificandosi come vino naturale. “Calcaia”, muffa nobile prodotta in azienda fin dagli anni ’70, è stata insignita del titolo vino dolce dell’anno 2014 dalla Guida dei vini d’Italia del Gambero Rosso. L’umidità è favorita dalla presenza del lago artificiale, realizzato negli anni ’60.
Nella stessa zona è Il Castello di Corbara, azienda già citata in precedenza; essa si estende oggi su 100 ha di vigneto; gli attuali proprietari conducono l’azienda dal 1997.
L’azienda Argillae si trova nel comune di Allerona, ricadente nel territorio dell’Orvieto classico. Essa si estende su 70 ha a vigneto, dopo l’ampliamento del 1986 con il passaggio all’attuale proprietario, un imprenditore di Anagni (FR). Nel decennio precedente la proprietà era di minore estensione: è negli anni ’70, comunque, che l’azienda acquisisce capacità imprenditoriale, passando da 2 a 20 ha di superficie viticola e introducendo molte delle piante tuttora in produzione.
Il persistere dell’uso di pali di cemento – introdotti negli anni ’80 proprio con il passaggio alla meccanizzazione – in realtà è di ostacolo alla raccolta: i pali vengono sottoposti ad una eccessiva vibrazione, capace di portarli al cedimento. Si procede quindi ad una vendemmia manuale, che allunga però i tempi dell’intera operazione.
La vigna coltivata a trebbiano, presentata nella figura, è allevata in modo da assicurare la massima resa. Non è qui evidente infatti, più di tanto, una ricerca qualitativa – pur essendo nella zona dell’Orvieto classico – se si constata come la raccolta non preveda un vero e proprio controllo attento dei grappoli; parte dell’uva viene per di più ceduta come taglio per altre certificazioni.
Altre aziende da menzionare sono la Sassara, attiva dal 1979 con 55 ha distribuiti fra più corpi aziendali, progressivamente acquistati, ubicati nei comuni di Ficulle, Castiglione in Teverina e Orvieto.
La Fattoria di Titignano e Salviano, di proprietà dei principi Corsini, possiede 50 ha di vigneto; la Tenuta Poggio del Lupo totalizza 40 ha di vigneto specializzato. L’azienda Custodi ha 37 ha di vigneto mentre la Tordimaro, dal 1998 di proprietà di due famiglie svizzere, detiene 12 ha di vigneto specializzato e una cantina costruita con blocchi di tufo.
Quanto espresso mira in particolare ad evidenziare la presenza di alcune grandi imprese e di altre di dimensione media, diversificate per età, motivazioni e forma societaria.
Il grosso della produzione viticola viene conferito comunque, come si è già espresso, alle cantine sociali.
Di queste la Monrubio, presente sin dal 1957, è entrata in attività nel 1966. Comprende 300 soci ed effettua l’imbottigliamento dai primi anni ’90.
La Cardeto, già Cooperativa Vitivinicola per la zona di Orvieto (CO.VI.O.) - che inizia la sua attività nel 1949 con tredici produttori – ha assunto la sua forma attuale nel 1991; conta attualmente 350 soci. Già nel 1975 era stato condotto un primo ampliamento di questa cantina, successivamente all’ottenimento della DOC. Nel 1987 i vini prodotti in cantina ottenevano un proprio marchio, mentre solo dal 1994 è avviato l’imbottigliamento (con il nome attuale presente dal 2005). L’obiettivo da sempre perseguito è quello di ridurre la vendita di sfuso, che limita la valorizzazione del prodotto.
Cardeto e Monrubio sono dunque le due uniche cantine sociali oggi presenti, risultanti dalla fusione di preesistenti strutture: da sole esse raccolgono la maggior parte della produzione e svolgono il ruolo di sostegno e completamento del ciclo produttivo per l’insieme di tutte quelle aziende mancanti di una cantina propria.
I pochi grandi, storici produttori vinificano e si assumono quindi più direttamente la responsabilità della produzione. I soci delle summenzionate cantine di fatto si limitano a produrre uve non interessandosi più di tanto al prosieguo della lavorazione; sono pertanto interessati soprattutto al prezzo che le loro uve possono spuntare, ricavandone un guadagno proporzionale al solo peso.
Sarebbe opportuno che un’operazione di marketing fosse messa in atto dalle cantine sociali mentre il Consorzio, organo che ha visto recentemente sminuire il proprio storico ruolo, detiene comunque risorse insufficienti. Inoltre un maggiore controllo dovrebbe essere effettuato dalle stesse cantine sulle uve, considerando che molti viticoltori preferiscono rinunciare ad un marchio proprio, affidandosi semplicemente a quello della denominazione comune.
Conclusioni
Descrivere e catturare con immagini il territorio orvietano - dell’Orvieto classico in particolare - è un’operazione senz’altro suggestiva. L’area ha mantenuto una storica vocazionalità agricola, che in parte è stata causa di migrazioni, di inurbamenti e spostamenti lavorativi che hanno avuto il loro picco con l’abbandono dell’istituto mezzadrie, continuando poi a manifestarsi fino a tempi recenti. La parcellizzazione e la polverizzazione aziendali attestano il mancato avvento di un completo ammodernamento produttivo del comparto, nonostante la molteplice presenza di fattori predisponenti, naturalmente presenti sul territorio.
La viticoltura specializzata è particolarmente evidente nelle grandi aziende, ma anche in quelle dei piccoli produttori che sopravvivono grazie all’attività delle strutture consociate. Investimenti per il miglioramento qualitativo sono possibili, laddove si dimostrino disponibili capitali privati, magari anche provenienti da investimenti esterni, da altre aree o ulteriori attività.
Tutto ciò appare riflesso anche nel territorio, che alterna riquadri ad elevata intensità con altri caratterizzati da vegetazione spontanea. Estese aree rinaturalizzate si devono anche all’esodo rurale, presentandosi un tempo maggiormente varie e condotte con ordinamenti policolturali finalizzati al consumo familiare. Ciò è evidente soprattutto se si guarda al territorio dell’Alto Orvietano, dove la viticoltura è meno intensiva e insieme ad una bassa densità insediativa più facilmente sono presenti aree a forte contenuto di naturalità.
La varietà dei vitigni utilizzati è minore che nel resto dell’Umbria; in ciò si inserisce la recente richiesta di un recupero di cultivar tradizionalmente usate e abbandonate addirittura nel Medio Evo, a seguito della crescente specializzazione produttiva. Ciò può procedere, tra l’altro, attraverso lo studio degli areali minori di produzione come l’Alto Orvietano; qui è sempre prevalsa una coltura legata prettamente all’autoconsumo, fatta soprattutto di rossi ad elevate rese e di rari bianchi da destinare alle occasioni di festa.
ll paesaggio pare destinato a non subire grandi cambiamenti. In linea con le direttive comunitarie il miglioramento qualitativo, qui ulteriormente possibile, potrà produrre variazioni a livello di micropaesaggio ma senza variare più di tanto l’assetto attuale, ferma restando anche la qualità degli sforzi effettuali dalle cantine sociali.
L’equilibrio tra spazi destinati a colture specializzate e spazi incolti, così peculiare dell’area, dovrebbe quindi mantenersi invariato, a meno di un aggravarsi dei fenomeni di instabilità geomorfologica, altro elemento caratteristico dell’Orvietano, da spiegare con la diffusa presenza di terreni argillosi sempre più esposti ai mutamenti termici.