Fascismo e resistenza della critica letteraria

  • Fascism and Resistance in Literary Criticism
  • Fascisme et résistance de la critique littéraire

Il presente articolo propone un quadro generale della situazione della critica letteraria nell'Italia fascista, con i suoi protagonisti e le sue discussioni teoriche, ponendo principalmente il problema delle forme di resistenza che essa ha potuto talvolta rappresentare, anche – e forse soprattutto – nelle sue espressioni più estetiche, erudite ed apparentemente estranee alla questione politica. Viene descritto il modo in cui il dibattito ideologico sull'adesione o meno al fascismo e al suo progetto totalitario si sovrappone al dibattito puramente estetico, al punto di falsare talvolta il significato delle singole voci.

Cet article brosse un tableau de l'état de la critique littéraire dans l'Italie fasciste et montre de quelle manière le débat idéologique départageant les intellectuels sur la question de l'adhésion au régime se superpose au débat strictement esthétique, faussant parfois considérablement les prises de parti des uns et des autres. Il tend aussi à démontrer que ce qui a longtemps été considéré comme un « exil intérieur » de la part de certains hommes hostiles au fascisme, qui produisirent d'excellents ouvrages de critique littéraire pendant le Ventennio mais ne s'opposèrent pas ouvertement au régime, peut être considéré comme une forme de résistance. Il s'agissait, en effet, de résister à la tentative de lecture totalitaire de la littérature mise en œuvre par le régime, en pratiquant l'exercice de la liberté dans une analyse des textes littéraires sérieuse, précise et à contre-courant des idées dominantes.

This article is about literary criticism as a possible form of resistance to Fascism in Italy, even when – or, maybe, especially when – it doesn't deal with Politics at all. It describes the theoretical debate that often hid an ideological controversy between critics who shared the fascists' interpretation of literature, and those who, on the contrary, wanted to avoid any totalitarian reading and use of their beloved literary texts.

Text

Parlare di resistenza della critica letteraria durante il fascismo potrà sembrare poco opportuno o perlomeno sorprendente a molti lettori, abituati da decenni a sentire un discorso ben diverso in proposito. Di resistenza degli intellettuali non parlano gli studi storici più recenti che tendono a mostrare quanto fosse, invece, vario e vasto il loro consenso al regime1. E, prima di loro, non ne parlavano – o ne parlavano solo come una resistenza in fieri, ancora allo stato di potenza – neanche coloro che, dopo la guerra, preferirono sminuire l’importanza di tale consenso sviluppando la tesi del “nicodemismo”2. Nicodemici erano stati, per Bobbio ad esempio, gli intellettuali del Ventennio che dietro ad un’apparente adesione, dissimulavano una segreta avversione al fascismo ed aspettavano solo tempi opportuni per esprimerla (Bobbio, 1973 : 221 ; Dogliani 1999 : 354). Se vi è stato quindi, su questo punto, un vero e proprio cambiamento di rotta storiografica dal dopoguerra ad oggi, questo non è accaduto invece per quanto riguarda gli intellettuali che non diedero nemmeno l’apparenza di un consenso al regime. Neanche a costoro viene propriamente riconosciuto il merito di una resistenza, poiché vengono tacciati di inazione per aver scelto la via dell'esilio interno. Potremmo citare – come caso di scuola che, benché poco noto, ci interessa in quanto verte sul caso specifico della critica letteraria – il giudizio molto severo che venti anni fa, nel 1990, lo studioso di letteratura italiana Corrado Pestelli formulò sui critici nel Ventennio fascista. Pestelli li accusa di aver continuato a lavorare esattamente come prima e come sempre, ignorando o fingendo di ignorare la gravità della situazione nazionale :

In tale volger di situazioni, l'italianistica, sul piano tecnico, lavorò bene. E questo è male. In una storia tipicamente italiana, nella domanda e nell'offerta di consenso, nella dirigenza e nella subalternità, nell'egemonia e nella sudditanza, in un regime così oppressivo, sotto la falsificazione della verità, in conspectu dictatoris, è grave che gli universitari possano lavorare così bene. (Pestelli 1990 : 245)

Le parole di Corrado Pestelli suonano indignate e lo sdegno è duplice: nei confronti degli studiosi a cui rimprovera il rifugio nella letteratura e nell’esegesi erudita, il non aver preso posizione nella vita e in politica; ma anche nei confronti del regime, che non ha considerato lo studio della letteratura come una posta in gioco tale da meritare una forma attenta di controllo e di censura.

Ed è stato, s'intende, altrettanto grave che la cultura universitaria non abbia, in definitiva (occorre pur dirlo con chiarezza, e in modo perentorio), mai infastidito il fascismo, non abbia mai costituito un pericolo per la dittatura, che certo non a caso l'ha rimeritata con quella latitanza omissiva d'attenzione che ha permesso agli studiosi di applicare in tranquillità le proprie competenze di laurea (…) Così essendo avvenute le cose, gli universitari (come quasi tutto il popolo italiano - “Qui non si fa politica, qui silavora”-) hanno lavorato nella propria professione, hanno mantenuto le proprie posizioni; ma hanno lasciato ai negri, ai coloured people della Virginia e del Maryland il compito di liberare l'Italia. (Pestelli 1990 : 245)

Pestelli muove una polemica di natura politica nonché morale contro la presunta codardia dei critici letterari, che biasima non solo come uomini, ma anche come rappresentanti di un mestiere e di un'arte. Li ritiene, infatti, responsabili di una decadenza della letteratura, che in questo modo è venuta meno ad una sua essenziale missione: destare, nelle coscienze, un pensiero libero e critico. L’intento di quest’articolo sarà proprio di dimostrare quanto sia contestabile ed ingiusta un’accusa di questo tipo: se si considera con precisione l'insieme della produzione degli anni Venti e Trenta, risulta anzi chiaro che molti di questi critici esercitarono una forma di resistenza al discorso totalitario proprio attraverso l’accurata esegesi dei testi letterari.

Il saggio di Pestelli esprime a posteriori un giudizio morale che sembra non solo contestabile, ma anche storicamente problematico. A chi studia il dibattito culturale del Ventennio, esso non può, infatti, non ricordare la condanna di inazione che rivolgeva contro quegli stessi uomini, in termini simili ma con premesse affatto diverse, la propaganda antintellettualistica del regime fascista. Non può non ricordare, per esempio, il tono duro usato da Giovanni Gentile, in occasione del Congresso degli intellettuali fascisti del marzo 1925, nei confronti di quei letterati pusillanimi che osservano il mondo “dalla finestra”, senza impegnarsi direttamente, senza “prendere sul serio” né la vita, né la patria, ma solo le loro Accademie e i loro studi (Gentile, 1925 : 93)3. Inoltre, un tale giudizio non rende minimamente conto né del dibattito, né delle dinamiche, né dei giochi di forza propri dell’ambiente culturale in epoca fascista. Contribuisce invece a quel fenomeno di oscurantismo già presente in gran parte della storiografia letteraria che, nel dopoguerra, ha studiato la produzione critica del Ventennio. Seppur con intenti molto diversi, quasi tutte le antologie e storie della critica letteraria pubblicate dopo il 1945 hanno, di fatto, totalmente ignorato la produzione di stampo dichiaratamente fascista, benché fosse abbondantissima e benché fosse imposta, segnatamente in ambito ufficiale e scolastico, come discorso dominante sulla letteratura. Dopo la guerra, coloro che si sono interessati alla critica del Ventennio hanno preso in considerazione – come Pestelli che nel suo saggio studia il caso specifico di “tre italianisti di chiarissima fama”: Attilio Momigliano, Luigi Russo e Natalino Sapegno (Pestelli 1990: 183) – solo i critici, perlopiù distanti e talvolta addirittura dichiaratamente ostili al fascismo, che continuarono a scrivere, ad esser letti e noti anche dopo la caduta del regime. Durante il Ventennio alcuni di questi critici frequentarono gli ambienti culturali antifascisti, soprattutto a Napoli intorno a Benedetto Croce (come Attilio Momigliano e, da più lontano, Luigi Russo), a Torino intorno a Pietro Gobetti (come Natalino Sapegno e Mario Fubini); altri diventarono partigiani negli anni Quaranta (come Giacomo Debenedetti, Raffaello Ramat o Achille Pellizzari), ma i più si accontentarono di fare il proprio lavoro e di farlo bene.

Certo, non tutti avevano la stoffa dell’eroe, ma avevano invece la drittura morale di chi ama la letteratura e vuole difenderla dai tentativi di strumentalizzazione ideologica di un regime totalitario. Fare una critica seria, difficile, tecnica per dimostrare in modo rigoroso che non è legittimo presentare Dante, Machiavelli e Leopardi come autori pre-fascisti – come tentavano invece di presentarli molti saggi critici e manuali scolastici pubblicati in quegli anni – era forse un gesto molto più politico di quanto non pensi chi, in fin dei conti, taccia questi critici di una forma di vigliaccheria. Vorremmo perciò dimostrare in queste pagine che non fu certo – come asserisce Pestelli nel primo passo citato – un “male” che essi lavorassero bene, ma anzi una condizione assolutamente necessaria per resistere e per salvare la letteratura italiana da un discorso unico e tendenzioso, veicolato dalla propaganda fascista.

Un'accusa come quella formulata da Pestelli deriva probabilmente dall'assenza di contestualizzazione, giacché non vi è stato, in Italia, uno studio complessivo sullo stato della critica letteraria durante il fascismo, sulle diverse scuole critiche ed estetiche vigenti, sui poli d'influenza più importanti e sulle figure di primo ma anche di secondo piano nel dibattito letterario di quegli anni4. Gli studi monografici sulla scuola crociana e sui suoi maggiori esponenti certo non sono mancati5, ma non è stata resa l'idea d'insieme del clima letterario nel quale essi lavoravano. Questa lacuna fa sì che non si sia più saputo cogliere in modo esatto, a posteriori, una dimensione essenziale degli studi di Croce e di molti suoi discepoli pubblicati negli anni Venti e Trenta: la loro attualità. Che con quei saggi, essi scrivessero anche – e forse soprattutto – testi di resistenza, lo si è dimenticato. Rispondevano di fatto, in modo polemico e militante, ad altri studi di quel periodo che non li soddisfacevano affatto, sia dal punto di vista metodologico che contenutistico, e che pure costituivano la stragrande maggioranza delle pubblicazioni, nonché la chiara espressione delle direttive ideologiche del regime in questo campo.

Quando la storia della critica analizza questi testi omettendo di considerare la situazione particolare in cui furono redatti e soprattutto la controversia in cui si inserivano, essa, di fatto, si priva di una delle due voci del dibattito. Nelle sue riflessioni sul campo letterario, Pierre Bourdieu (Bourdieu 1998 : 122) ammoniva che non si coglie l'essenza di ciò che rende importante e singolare l'opera dei grandi, di coloro che vengono poi letti e ricordati, se si ignora l'universo dei coevi coi quali e contro i quali essi hanno scritto. Chi del passato conosce solo gli autori che la storia letteraria considera degni di esser conservati si condanna ad uno studio parziale e strutturalmente falsato della letteratura: registra gli effetti che autori da lui ignorati hanno esercitato sui testi – foss'anche per reazione e per opposizione – senza esserne affatto consapevole. Quest’asserzione, vorremmo poterla estendere dall’ambito della storia letteraria a quello della storia della critica letteraria.

Cosa dicono invece le numerosissime antologie e storie della critica letteraria pubblicate nel dopoguerra su quell'abbondante produzione critica contro la quale scrivevano Croce, Fubini e Sapegno? Poco o nulla sulla produzione critica d'ispirazione non crociana, poco o nulla sul dibattito tra la scuola crociana e le altre… Eppure tale dibattito dovrebbe essere una chiave di lettura essenziale per comprendere l'evoluzione degli studi letterari in Italia, tanto più che si trattava di un dibattito appassionato, quasi accanito. A rileggere oggi i testi di quegli anni, sorprende il tono veemente delle dichiarazioni fatte dagli esponenti delle varie scuole quando intervengono direttamente. Tanta è la violenza del confronto che induce a definirlo come una vera e propria “guerra dei critici”. Ben lungi dalla discussione pacata e urbana tra eruditi che discutono di questioni metodologiche astruse, ci troviamo di fronte ad uomini arrabbiati che lanciano accuse, vituperi ed ingiurie contro gli “avversari”, con argomenti che da letterari diventano morali e infine politici. Quando, per esempio, il direttore della prestigiosa rivista Il Giornale storico della letteratura italiana, Vittorio Cian si rivolge a Croce e ai critici più giovani che ne seguono l'estetica, lo fa con termini quasi minacciosi:

Questi cerebrali, più o meno giovini, chierici sterili e sterilizzatori, officianti nella Cappella all’insegna dello Spegnitoio, dovrebbero ormai decidersi. O smetterla, rassegnandosi a tacere e a sparire dalla scena letteraria – e sarebbe tanto di guadagnato – oppure mettersi al passo coi tempi nuovi (Cian 1933 :120)

Per Croce, invece, quel vecchio modo di far critica che professori conservatori come Cian continuano a praticare e a difendere, è ormai obsoleto poiché non poggia su nessuna concezione dell'arte, su nessuna filosofia estetica che gli dia un fondamento solido. Risponde perciò in modo ironico e sprezzante alle minacce di Cian, ribadendo la necessità, per un critico, di rifarsi, nella pratica della sua attività, ad una teoria di riferimento e a:

(…) concetti direttivi che ogni critico di poesia, anzi ogni uomo che giudica e nel giudicare porta scrupolo di verità, ha il dovere di procacciarsi, sia imparandoli dai suoi predecessori, sia formandoseli da sé quando non li trova, sia rettificandoli e migliorandoli, quando li trova ma insoddisfacenti. Il Cian e l’altro professore6 sono liberissimi di stimare erronei i concetti adottati dal Citanna7; ma in questo caso debbono criticarli, confutarli e sostituirli con altri migliori. Il che si guardano dal fare, e invece sfogano alquanto trivialmente la loro stizza contro le “prevenzioni critiche” e le “catene estetiche”, e le “teorie estetiche”, e la “poesia pura”. Forse essi sospirano i tempi lontani in cui gli studiosi di storia della letteratura si rendevano padroni della “bibliografia dell’argomento”, frugavano carte non stampate, raccattavano aneddoti, ricercavano fonti, ma su quel che fosse la poesia, e in genere la vita e l’anima umana, si stavano contenti alle idee che si trovavano ad aver comuni coi loro portinai e con le loro serve. Ahimè! Quei tempi sono passati e non torneranno.(Croce, 1923 : 106-107)

Da queste citazioni risaltano non solo le differenze d'impostazione teorica e pratica, ma anche il disprezzo reciproco che oppone i due campi. Quali sono dunque i due fronti di questa guerra dei critici – di cui Cian e Croce sono, per così dire, i capifila – e come si possono caratterizzare? Per tutta la durata del Ventennio la critica letteraria prosegue per due vie che diventano sempre più parallele, nel senso in cui sempre più difficilmente sembrano potersi incrociare: da una parte, vi è la via tradizionale propugnata da Cian che continua a cercare nell'opera dei classici un messaggio innanzitutto politico e ideologico, al quale viene dato però un significato nuovo e più attuale, ovvero fascista; dall'altra la via crociana, che ricerca una poesia scevra di elementi estranei alla letteratura, rivendicando un principio di autonomia dell’arte.

Per definire queste due vie divergenti possiamo riferirci ad un termine che viene coniato da Croce e intorno al quale il dibattito tende, durante il Ventennio, a cristallizzarsi, facendo passare in secondo piano le pur importanti sfumature che distinguono i critici di uno stesso “fronte” tra di loro. Croce definisce allotrio l'elemento estraneo alla letteratura che viene introdotto nell'opera d'arte quando l'autore intende inserire un messaggio, politico o morale che sia, che non nasce dalla sua prima intuizione e ispirazione estetica8. Siccome non esiste un attributo generale per definire la critica non crociana, varia e molteplice nelle sue forme, ma che ha in comune di prediligere elementi extra-letterari (invece di dirigere la propria attenzione, come Croce invita appunto a fare, esclusivamente sulla poesia del testo), proponiamo di estendere il senso del termine crociano e di chiamare allotria tale critica. Ma questa parola che sembra quasi ingiuriosa, o perlomeno peggiorativa sotto la penna di Croce è invece rivendicata da alcuni critici allotri, come Vittorio Cian. La “guerra dei critici” è quindi in gran parte guerra tra chi difende e chi condanna l'allotrismo, ed è solo la seconda guerra mondiale che sancisce, provvisoriamente, la vittoria dei secondi sui primi. La guerra contro l'allotrismo in critica è stata lanciata da Croce poco prima del Ventennio ed è durata per tutto il tempo dell'Italia fascista. La sua fu una conquista lenta e difficile, poiché gli antichi “bastioni” della critica allotria resistevano. Resistevano poggiando su metodologie e strumenti senz'altro vecchi, ma solidi. Resistevano anche perché il messaggio politico era presentato in modo da dare ancora una grande attualità ai testi studiati.

I critici allotri rivendicano una filiazione diretta col metodo storico già imperante sin dalla fine dell’Ottocento nella generazione precedente di studiosi di letteratura. La vocazione al contempo positivistica e patriottica di questa tradizione critica, basata sullo studio erudito delle varianti, sulla ricerca di testi inediti, di documenti filologici ma anche biografici, costituisce ancora la norma letteraria degli anni del Ventennio. La si riscontra nelle riviste più prestigiose, come il Giornale storico della letteratura italiana e Nuova Antologia9. Viene insegnata e proposta a modello nelle più importanti facoltà di lettere italiane, nelle università di Torino, Milano, Firenze e Roma. Ma è presente anche nelle accademie (l'Accademia della Crusca, l'Accademia dei Lincei e la nuova Accademia d'Italia)10 e in altre istituzioni letterarie importanti ed ufficiali come i Centri Nazionali, creati nella seconda metà degli anni 1930 per raccogliere e fomentare la produzione critica sui maggiori autori della letteratura italiana11. Si può misurare la prevalenza del metodo storico nel modello di studi letterari del Ventennio, quando si considera che a rappresentare la sezione delle lettere o addirittura a capo delle Accademie vi erano perlopiù esponenti del metodo storico (come Guido Mazzoni all'Accademia della Crusca, o ancora Vittorio Rossi e Manfredi Porena all'Accademia dei Lincei e all'Accademia d'Italia). Anche i presidenti dei Centri nazionali, designati direttamente dal ministro dell'Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, appartenevano a questa tradizione critica: Carlo Calcaterra e Manfredi Porena, due illustri rappresentanti del metodo storico, presiedevano rispettivamente ad Asti il Centro nazionale di studi alfieriani, e il Centro nazionale di studi leopardiani a Recanati. Anche nel mondo dell'editoria, le opere sovvenzionate o parzialmente controllate dallo Stato – si pensi, ad esempio, alle Edizioni nazionali delle opere di Foscolo, pubblicate negli anni 1930 – erano, in una stragrande maggioranza dei casi, dirette anch’esse dai fautori del metodo storico, conformemente al suo spirito12.

Questi dati inducono a rivalutare l'idea diffusa secondo la quale l'idealismo crociano avrebbe dominato totalmente gli studi umanistici e letterari del Ventennio13. Si constata invece, in tutte le cattedre e le cariche che avevano un'importanza e un'influenza strategiche nel mondo universitario e accademico, il prevalere del metodo storico. Questa permanenza era anche, ovviamente, una forma di conservatorismo, di inerzia metodologica e, da questo punto di vista, non aveva niente di insolito in quell'ambiente. Chi applicava il metodo storico era facilmente indotto a ritenere poco rigoroso e poco scientifico l'approccio crociano con le sue categorie estetiche, la sua definizione problematica dell’intuizione e l’ancor più problematica distinzione tra poesia e non poesia: era quindi senz’altro normale che una tale rivoluzione metodologica richiedesse un cambio generazionale. La posta in gioco, tuttavia, non era solo metodologica, poiché la tradizione del metodo storico comportava anche una dimensione chiaramente patriottica, veicolata sin dal secondo Ottocento dalla critica risorgimentale e post-risorgimentale. Fu proprio il versante patriottico e politico della tradizione del metodo storico ad inasprire il confronto con la scuola crociana. Quest’ultima, infatti, faceva rientrare nella categoria dell'allotrismo tutte le espressioni patriottiche del testo letterario e in questo modo si opponeva chiaramente alla tradizione ottocentesca, invitando i critici a studiare la poesia, e non il messaggio politico e umano dell'autore. Sintomatico ed esplicito è, in questo senso, l’invito che Croce lancia nel 1917 nelle colonne de La Critica agli studiosi di Alfieri affinché cessino di studiare Alfieri come uomo e come padre spirituale del Risorgimento italiano, e si interessino esclusivamente all’ “Alfieri-poeta” (Croce, 1917, 3). Questa posizione scandalizza i rappresentanti del metodo storico, che considerano inscindibili la dimensione umana, politica e poetica del testo letterario. Ma l'incomprensione teorica e metodologica diventa più profonda e più radicale durante il Ventennio, quando acquisisce un valore più prettamente ideologico. In effetti, alcuni critici autorevoli e molto attivi nella politica culturale del regime fascista, come Vittorio Cian e Giovanni Gentile, insistono per presentare la loro produzione, dai risvolti politici immediati, come un proseguimento naturale, quasi un'eredità della tradizione critica precedente. Contribuiscono quindi a dare l’immagine di una critica non solo allotria ma dichiaratamente filofascista che si iscrive nella continuità del metodo storico (Vittorio Cian) e della lezione desanctisiana ottocentesca (Giovanni Gentile), rispetto alla quale, quindi, l’estetica crociana rappresenta una frattura totale. Il prestigio di questi studiosi è tale da legittimare, anzi da consacrare ufficialmente, sin dagli anni Venti, l'uso propagandistico della letteratura in chiave fascista che emerge e si sviluppa. Certo, non tutti i rappresentanti del metodo storico – e più generalmente della critica che abbiamo definito allotria – sono favorevoli alla lettura tendenziosa e strumentale dei classici della letteratura che viene proposta nei testi ufficiali e scolastici, ma quest'ultima si afferma progressivamente tanto da diventare la linea dominante, il discorso scontato che si sente nelle aule e nelle conferenze di tutta Italia. Dante, Petrarca, Machiavelli, Alfieri, Foscolo e Leopardi sono letti e presentati come autori che auspicano ed annunciano nelle loro opere i caratteri dell'Italia fascista. Nelle loro profezie poetiche dell’Italia futura, vengono individuati e studiati i caratteri precisi di una profezia storica che annuncia l’Italia fascista del duce14. Viene esaltata la loro profonda “italianità”, la valenza altamente educativa del loro esempio sia letterario che umano e le affinità presunte tra i loro valori spirituali, civili e morali e quelli del fascismo. Sono quindi designati come precursori del fascismo, non solo da imbrattacarte di poco conto, ma anche, appunto, dalle personalità letterarie ed accademiche più autorevoli di quegli anni e dalle istituzioni ufficiali e scolastiche.

È, questa, una delle manifestazioni di quello che potremmo chiamare il più vasto fenomeno del “precursorismo”. Il precursorismo corrisponde ad una vera e propria strategia del fascismo, quando, a partire dalla seconda metà degli anni Venti, l’intento che dichiarano i più illustri rappresentanti della sua politica culturale e della sua ideologia – in primis et ante omnia Giovanni Gentile – è di presentarlo non più come un movimento rivoluzionario, in rottura con la tradizione, ma anzi come un regime saldo e legittimato dalla storia, capace di ancorarsi ad un passato nazionale secolare e di proiettarsi quindi in un “durare” dell’italianità. Il precursorismo è senz’altro uno dei fenomeni più eclatanti di strumentalizzazione della letteratura da parte della critica fascista che, in quest'operazione, fa sue sia l’impostazione metodologica ottocentesca che la sua predilezione per una lettura patriottica dei testi. In questo modo finisce coll’usare la letteratura, il riferimento ai classici dei secoli passati, come strumento di legittimazione storica e culturale del fascismo.

Di fronte a questa deriva del metodo storico e della critica allotria – deriva parziale perché non tutti i suoi rappresentanti vi aderirono, ma deriva totalitaria perché rientrava in un vasto progetto di riscrittura del patrimonio culturale italiano e di controllo della produzione critica in senso lato – si comprende dunque meglio quale fosse il significato del rifiuto dell'allotrismo da parte della critica crociana. Nel particolare contesto ideologico e culturale di quegli anni, il rifiuto teorico della dimensione politica del testo studiato diventa un modo di contestare a priori l'uso politico e propagandistico che ne viene fatto. In effetti, anche per i critici che erano del tutto contrari all'interpretazione fascista della letteratura, non era agevole contestarla apertamente a questo livello, opponendole, ad esempio, un'interpretazione liberale o democratica15. Avevano invece la possibilità di contestare non a valle ma a monte, per così dire, il fondamento teorico e critico di una lettura politica dell'opera letteraria, e certo non vi rinunciarono. Non potevano, in altre parole, dire liberamente che la lettura in chiave fascista di un autore era, secondo loro, sbagliata. Ma potevano dire che era illegittima. Da questo punto di vista è particolarmente significativa l'osservazione che il giovane critico Mario Fubini formula nella sua monografia su Ugo Foscolo pubblicata nel 1928 a proposito dell’uso e abuso del “precursorismo” nella produzione critica di quegli anni. Il precursorismo, dice Fubini, condanna l’autore ad una condizione storicamente ibrida, poiché il poeta è “destinato come tutti i precursori a restare a mezza via, al di qua della Terra Promessa” (Fubini, 1928 : 8), né completamente nel passato, né completamente nel futuro. Egli invita perciò gli studiosi di letteratura ad evitare gli anacronismi, che falsano l’interpretazione del contesto storico e culturale in cui nasce il testo e, di conseguenza, ne snaturano il significato primo. In questo modo Fubini non contesta in sé la filiazione – che doveva senz'altro parergli profondamente falsa – tra un autore come Foscolo e il fascismo, ma contesta, a priori, il principio teorico e metodologico di una filiazione diretta.

Si poté quindi assistere, nel corso degli anni Venti e soprattutto Trenta, ad un fenomeno di sovrapposizione del discorso estetico con quello politico. L'adesione all'estetica crociana acquisiva un significato squisitamente politico, in quanto diveniva l'unico modo valido di garantirsi, per il critico, una certa indipendenza nell'analisi dei testi. Fuori dall'estetica crociana, chi non voleva seguire il metodo storico e la propaganda fascista si trovava ormai in posizione di fragilità e di isolamento, senza il sostegno di una teoria e di una scuola a cui appigliarsi. Ne fece l'amara esperienza Giuseppe Antonio Borgese, che, rifiutando sia il modello di Croce che quello di Vittorio Cian, finì coll’esiliarsi negli Stati Uniti per poter liberamente esprimere la sua opinione16. Come Borgese, numerosi furono i critici profondamente insoddisfatti dalla situazione del dibattito letterario nell'Italia fascista, che si presentava quasi sotto le forme di un dilemma. La decisione di condannare o meno l'allotrismo in critica celava infatti, nella maggior parte dei casi e in modo appena velato, uno spartiacque ideologico tra fascismo e resistenza al discorso dominante e fascista sulla letteratura. La sovrapposizione tra questi due partiti non era tuttavia percepita come legittima dalla totalità dei giovani critici che furono confrontati a tale decisione. Alcuni di loro avrebbero senz'altro preferito fare una critica al contempo allotria e antifascista ma furono in qualche modo costretti a metter provvisoriamente da parte considerazioni ideologiche e politiche, per aderire in teoria al principio dell'autonomia dell'arte, e in pratica ad un'analisi estetica, tecnica e letterale del testo, che ne mettesse in rilievo la musicalità, la poeticità, l'ispirazione sentimentale ed artistica. Altri invece, che furono, al contrario, fautori entusiastici del regime come il giovane critico e scrittore Berto Ricci, avrebbero preferito abbandonare l'idea di “un'arte superpolitica che per troppo zelo sbaglia e usurpa funzione non sue” (Ricci, 1984 : 68)17. Fra questi giovani fascisti convinti, ve ne erano altri che protestavano contro il “precursorismo” che costituiva, come abbiamo detto, l’orientamento principale della produzione critica di stampo fascista. Troviamo tra questi Niccolò Giani, che fu fondatore della Scuola di Mistica Fascista e che dichiarò: “Noi non crediamo alla lunga serie di padri putativi, dei padri spirituali, dei filosofi, degli ispiratori del fascismo. No. Il fascismo per noi è Mussolini, soltanto, esclusivamente Mussolini” (Giani,1937 :. 56). Questi esempi mostrano che, da una parte come dall’altra, i due fronti non racchiudevano posizioni omogenee.

Questa sovrapposizione illegittima tra discorso estetico e discorso politico, e il dilemma che ne conseguiva, comportavano quindi, per alcuni critici, inevitabili distorsioni e dolorose rinunce. Significativo, in questo senso, è l'articolo che pubblica nel 1941 a proposito de Le Grazie di Ugo Foscolo, Luigi Russo, che apparteneva al gruppo dei crociani. Foscolo fu un autore molto amato dalla critica filofascista che, spesso avvalendosi in modo tendenzioso e selettivo di alcuni testi foscoliani nonché degli studi del metodo storico, ne fece un precursore dell’ideologia fascista18. Ma Le Grazie era un testo che, con la sua atmosfera preziosa e rarefatta e la sua scrittura frammentaria, male si addiceva ad una lettura politica. Era perciò divenuto, negli anni Trenta, il campo di predilezione della critica non allotria, tra cui la cosiddetta “critica pura”, dai risvolti ermetici di puro estetismo, di Giuseppe De Robertis19. Luigi Russo esprime nel suo articolo una forma di insofferenza nei confronti di questa produzione, che tuttavia – nonostante molte fossero le reticenze, le differenze, financo le antipatie tra un Russo e un De Robertis – apparteneva allo stesso suo campo. Russo l'accusa di voler ignorare e negare ai testi letterari la presenza di una dimensione umana ma anche politica, e scrive:

Le Grazie non sono dunque il carme di un esteta, ma di un paziente che aspira alla beatitudine, di un pellegrino che cerca pace al suo nativo delirar di battaglie. La grande poesia ha sempre una sua politicità nascosta, che non è quella dei ragionieri della politica; e politicità, in questo caso, vuol dire interezza di umanità ed è sinonimo di poesia. (Russo, 1941: 4)

Rivendicando la politicità della letteratura, Russo agì da “uomo imprudente e appassionato” (Lanza, 1977 : 67), come scrisse Maria Teresa Lanza nel suo saggio sulla critica foscoliana, proprio perché fragilizzò il principio di autonomia dell'arte rivendicata da molti critici antifascisti o afascisti, come principio di libertà del proprio mestiere. Ma la reazione di Russo e l’accesa polemica che scatenò ci mostra quanto il partito preso contro l'allotrismo potesse essere artificioso, dettato da convinzioni politiche più che estetiche. Ci mostra anche l'insofferenza e la frustrazione che ne scaturiva talvolta.

Dentro un tale ambito di ricerca, il critico diventa dunque un “lettore” sempre più tecnicamente agguerrito, ma anche sempre più isolato dal proprio mondo storico. Questo mondo storico – il fascismo ormai imperante – può essere rifiutato in pectore, come accade ai frequentatori più assidui di Croce, o accettato di buon grado: le scorie del vissuto – o del pensato: di un impegno insomma non meramente formale –, come si rifiutano alla poesia, così si alienano dalla professione del critico. Da questa posizione, l’intellettuale borghese porta, consapevolmente o meno, al salvataggio quegli estremi valori della cultura liberale (autonomia dell’arte e della ricerca letteraria) gravemente compromessi dalla violenza del regime. Ma lo scotto è una depauperazione dello stesso discorso critico che si fa sempre più anemico – ed elitario – fino alla riduzione allusiva della critica ermetica. (Lanza, 1977: 66).

Maria Teresa Lanza parla qui di depauperazione del discorso critico, costretto entro i limiti di un'analisi puramente tecnica e formale. In realtà, considerando le condizioni del dibattito che abbiamo qui descritto e nel quale questa produzione critica si iscrive, anche questo giudizio – come precedentemente quello di Pestelli – può sembrare un poco affrettato. Gli studi letterari degli anni Venti e Trenta, proprio “depauperizzando” in parte i termini dell'esegesi, riuscirono a “salvare” col rigore di un’analisi letteraria e testuale, le opere dei maggiori scrittori italiani. “Salvare” nel senso che offrirono alla letteratura un riparo dalla propaganda totalitaria, garantendo uno dei suoi caratteri più peculiari, ovvero la pluralità di letture.

L’essenza della letteratura, in effetti, sembra incompatibile per definizione colla vocazione unificatrice di un regime politico totalitario. Eppure ci sono molti indizi, durante il Ventennio, di un disegno totalitario anche per la letteratura. Il regime fascista ideò vari progetti culturali – tra cui i già citati Centri nazionali di studi consacrati ad un autore – il cui intento non era solo di appoggiare la produzione critica, ma anche di controllarne i contenuti, di canalizzarla e di condurla verso un orientamento comune, intervenendo, ad esempio, a vari livelli per favorire un progetto editoriale o un progetto di studi. Anche la celebre Enciclopedia italiana Treccani, pubblicata dal 1929 sotto la direzione generale di Giovanni Gentile e, per la sezione delle lettere, di Vittorio Rossi, non fu esente da questo tentativo di omologazione (Turi 2002). Con una savia scelta dei collaboratori, sui quali esercitare un’indiretta pressione che li spingesse a praticare l’autocensura e ad accettare i suggerimenti della direzione, Rossi e Gentile riescono ad ottenere un insieme di collaborazioni abbastanza omogenee, in linea con la lettura patriottica dominante20.

Ma allo spirito e all’intento totalitario, che aspirano ad un’interpretazione unica ed univoca della realtà, si oppone l’essenza fondamentalmente plurale del testo letterario, con una sua inerzia naturale che dà, a chi la sa cogliere, la possibilità di proporre una lettura sempre diversa. Esso offriva quindi una forma di resistenza a chi non voleva cedere la letteratura alla propaganda. In questo senso, anche le analisi più tecniche e più formali, proprio perché resistevano all’interpretazione dominante e salvavano il testo dal processo di omologazione in atto, lungi dall'essere “anemiche” appaiono invece come una garanzia di libertà per la letteratura e per chi la studiava e la leggeva, a casa come a scuola. Grazie ad esse, fu anche possibile conservare, per tutta una generazione di lettori e di studiosi cresciuti e formatisi quasi interamente durante il Ventennio, una varietà e una continuità di studi letterari che non rientrassero nella norma dominante. A questi riferimenti essi si appigliarono, quando cominciarono a farsi sentire le premesse di un cambiamento politico, per scrivere testi che annunciavano veramente la fine di un’era. Si pensi al testo che scrisse Giacomo Debenedetti nel 1942, pochi giorni prima di raggiungere le fila dei Partigiani: Vocazione di Vittorio Alfieri che molto deve all'impostazione “crociana” degli studi alfieriani successivi al 1917. Nel presentare il suo saggio Debenedetti ricorda quel grido di libertà che emana dagli scritti di Alfieri: quel grido che, nei tempi bui della dittatura, rincuorava e consolava.

All'Alfieri molti motivi ci possono ricondurre ; tra i quali, in tempi meno oscuri, si vorrebbe che primeggiassero quelli della poesia : il richiamo del poeta da una parte, e dall'altra il nostro legittimo desiderio di confrontarne la voce con l'acustica moderna. Ma non potrebbe darsi che per gente come noi, così malcapitata sul pianeta, in un'era così soffocante, il primo invito dell'Alfieri, e il più decisivo, emani da quella parola « libertà » che romba, tuona e vola nelle sue pagine ? (…)
Niente (…) poteva parere più giusto che l'evocarlo adesso, per ritrovarcelo congiurato in quest'ansia di libertà ; arrotare nella sua, così splendida di aggressioni, la nostra rabbia contro la tirannide. Naturalmente gli scribi e i dottori diranno che si tratta di pretese semplicistiche : ben altro è l'Alfieri, più complesso, ecc. Ma allora a che valgono i poeti, con tutta la loro immortalità, se al momento buono non gli si può chiedere le parole a noi necessarie, che noi da soli non avremmo saputo cavar fuori ? (Debenedetti, 1977 : 13)

La poesia, in qualche modo preservata, ha saputo quindi, per Debenedetti, dare la “parola necessaria” agli uomini che, ad un certo punto, decisero di passare dalla resistenza contro il discorso totalitario sulla letteratura alla Resistenza tout court. Ma non è illegittimo pensare che l'apprendimento di una resistenza letteraria, in nome di una certa idea della libertà e della verità che non è solo dei testi ma anche degli uomini, non sia estraneo a questo processo di maturazione ideologica e di consapevolezza politica. Come scrive anche Mario Fubini nel 1949, sempre a proposito di Alfieri:

Ora, a quanti non so, ma certo a più d’uno, dovette negli ultimi anni dal ’30 al ’40 e poi in quelli apocalittici che seguirono, una poesia come quella dell’Alfieri, sembrare consona a uno stato d’animo che così di frequente ci afferrava in quel tempo pauroso, e ad essi fu agevole intenderla nel suo accento genuino, a lei giungendo per la via stessa per cui era giunto il poeta. Forse m’inganno: ma dopo l’età che accolse l’opera dell’Alfieri e la fece propria (…) in nessun tempo come nel nostro l’Alfieri e la sua poesia furono così amorosamente studiati e compresi con tanta simpatia (Fubini 1949: 261)

Anche da quest'ultima citazione appare il vincolo – amoroso, secondo la definizione di Fubini: un rapporto di profonda ed etimologica “simpatia” – che lega il critico al testo letterario nella sua opera di resistenza. Il critico “salva” il testo dall'omologazione del totalitarismo, ma a sua volta il testo “salva” il critico come uomo, poiché diventa la palestra del suo pensiero critico e della sua indipendenza mentale e morale. Per dirla in finis con Debenedetti, forse il testo salva il critico proprio perché gli dà la vera “parola necessaria”: la libertà.

Bibliography

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Turi, Gabriele (2002). Lo Stato educatore. Roma-Bari: Laterza.

Notes

1 Saranno citate, nelle note del presente articolo e secondo il modello bibliografico tradizionale, alcune opere che non tutte rientrano nella biografia essenziale presentata a fine articolo, e alla quale si riferiscono – con un diverso modello bibliografico, in uso nella rivista Textes et Contextes – invece le citazioni presenti nel corpo del testo. Return to text

2 Pier Giorgio Zunino ha formulato, sin dagli anni Ottanta, una critica molto netta della tesi del nicodemismo, in P.G. Zunino, L’ideologia del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 43-44. Return to text

3 Questa immagine infamante dell’intellettuale che « sta alla finestra » è ricorrente nei discorsi di stampo propagandistico e politico che Gentile pronunciò durante il Ventennio. Se ne può constatare la frequenza nei volumi citati, G. Gentile, Politica e Cultura, Firenze, Le Lettere, 1990. Return to text

4 La questione della critica letteraria durante il fascismo è stata l’oggetto di un convegno organizzato a Caen il 14 e il 15 maggio 2009, i cui Atti sono stati pubblicati a cura di C. Del Vento e X. Tabet, Fascisme et critique littéraire. Les hommes, les idées, les institutions, vol. 1 et 2, Caen, Presses Universitaires de Caen, 2010. Return to text

5 Non potendo dare qui una lista esauriente dell'ingente mole di testi consacrati allo studio e alla biografia di Croce e dei crociani durante il Ventennio, ci contenteremo di citare il testo, ormai non più recente ma che offre un quadro sintetico efficace, di Mario Puppo, Benedetto Croce e la critica letteraria, Firenze, Sansoni, 1974. Si veda anche il libro di A. Casadei, La critica letteraria del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2008. Return to text

6 Croce allude qui al critico Enrico Carrara che, come Cian, scrisse una recensione molto sfavorevole nei confronti di una monografia su Foscolo redatta da Giuseppe Citanna, discepolo di Croce, intitolata La poesia di Ugo Foscolo, saggio critico (Citanna, 1920). Le due recensioni furono pubblicate nel 1922 rispettivamente da Cian nel GSLI, vol LXXX, e da Carrara nella Nuova Rivista storica, volume VI. Return to text

7 Vedi nota precedente. Return to text

8 La voce allotrio è coniata da Croce ricalcando il vocabolo tedesco usato nella filosofia ottocentesca e riprendendo il senso della parola greca "allotrios", estraneo. Return to text

9 Per la storia di queste due riviste, si veda E. Bigi, E. Bonora, G. Folena, M. Guglielminetti, M. Marti e M. Pozzi, Cent’anni di Giornale storico della letteratura italiana, Torino, Loescher, 1983 e G. Luti, Critici, Movimenti e Riviste del’900 letterario italiano, Roma, La Nuova Italia scientifica, 1986. Return to text

10 È stato organizzato, tra l’11 e il 13 maggio 2005, a Torino un convegno internazionale su quest’argomento – purtroppo senza uno studio specifico dell'italianistica e degli studi letterari – di cui sono stati pubblicati gli atti a cura di P. G. Zunino, Università e Accademie negli anni del fascismo e del nazismo, Firenze, Olschki, 2008. Si veda anche il libro di G. Turi, Lo Stato educatore. (Turi, 2002), in particolare le pagine 104-120. Return to text

11 Nella seconda metà degli anni Trenta, vari centri nazionali furono creati, con regio decreto legge, per gli studi alfieriani, leopardiani, manzoniani ecc, che dipendevano direttamente dal Ministero dell'Educazione Nazionale. Il loro intento era di raccogliere e centralizzare l'insieme della produzione critica e di favorire varie manifestazioni e progetti, culturali ed editoriali, intorno ad un classico della letteratura italiana. Return to text

12 Per una presentazione generale dei progetti e della storia delle edizioni nazionali, si veda il saggio di M. Scotti e F. Cristiano, Storia e bibliografia delle edizioni nazionali, Milano, Sylvestre Bonnard, 2002. Return to text

13 Cesare Luporini affermò addirittura che « in Italia, non c'era solo la dittatura fascista. C'era anche il predominio dell'idealismo, che si distingueva nei due grandi nomi: Croce e Gentile; ed era estremamente avviluppante, intricante. (…) Intanto, però, era Croce a dominare la cultura – soprattutto quella non strettamente filosofica, ma storica ed estetica – e, rispetto al fascismo, questo era un bel paradosso ». (C. Luporini, Qualcosa di me stesso, lezione pronunciata il 25 maggio 1979, oggi in M. Moneti (a cura di), Cesare Luporini 1909-1993, numero speciale della rivista Il Ponte, anno LXV, n. 11, novembre 2009, p. 236. Return to text

14 Mi sia consentito di rimandare in questa sede al mio articolo, pubblicato nella rivista California Italian Studies (Lanfranchi, 2011), sulle profezie politiche contenute nelle maggiori opere della letteratura italiana e di cui alcuni lettori pensarono di trovare l’inveramento nell’Italia fascista. Return to text

15 Nel 1924, il critico Umberto Calosso poteva ancora pubblicare L’anarchia di Vittorio Alfieri, (Calosso, 1924) in cui sviluppava la tesi di un Alfieri libertario. Era però una delle ultime testimonianze, durante il Ventennio, di una voce discorde dall’interpretazione politica dominante. Un’eccezione notevole è rappresentata dal testo di Luigi Salvatorelli che, nel 1935, pubblica un saggio sul pensiero politico dei maggiori scrittori italiani, in cui parla, per Leopardi, di “presentimento del socialismo” (Salvatorelli, 1975 : 195). Salvatorelli non era però un critico letterario di formazione e di mestiere, ed è perciò naturale che la sua prospettiva fosse storica e politica, pur trattando anche di testi letterari. Return to text

16 Sui rapporti tra Borgese e il fascismo si veda l’articolo di G. Tassani, “Il " peccato originale" di Giuseppe Antonio Borgese: da consigliere ad esule: un singolare itinerario durante il fascismo”, in Nuova Storia Contemporanea, n. 4, luglio-agosto 2000, ma anche le lettere che Borgese scrisse a Giovanni Gentile, dall’Italia e poi dall’America: G. A. Borgese, Lettere a Giovanni Gentile, Roma, Archivio Guido Izzi, 1999. Return to text

17 Su Berto Ricci e quelle che furono le sue particolarità e differenze rispetto al clima culturale fascista, si veda il saggio di P. Buchignani, Un fascismo impossibile : l'eresia di Berto Ricci nella cultura del Ventennio, Bologna, Il Mulino, 1994. Return to text

18 Rimandiamo qui al capitolo introduttivo del libro di C. Del Vento, Un allievo della rivoluzione. Ugo Foscolo dal noviziato letterario al nuovo classicismo (1795-1806), Bologna, Clueb, 2003, e al mio articolo, centrato sulla fortuna critica di Foscolo durante il fascismo: S. Lanfranchi, La réception de Foscolo dans l’Italie fasciste, in Laboratoire italien, n. 5, 2004, p. 197-219. Return to text

19 Si veda in particolare il commento di De Robertis alle poesie di Foscolo: U. Foscolo, I sepolcri : odi, sonetti, con l'interpretazione di Giuseppe De Robertis, Firenze, Le Monnier, 1932. Il fronte della critica allotria non distingue la critica pura di un De Robertis dalla critica estetica dei crociani, sebbene le posizioni di De Robertis siano, sin dal suo testo programmatico del 1915, Saper leggere, ben distinte e in molti sensi addirittura opposte a quelle di Croce, e sebbene, d'altro canto, alcuni discepoli crociani – Luigi Russo in primis – siano totalmente ostili al metodo e al lavoro di De Robertis. L'inopportuna confusione tra queste due scuole è anch'essa dovuta al “bipolarismo” del discorso critico che abbiamo descritto. Bipolarismo che non ammetteva le differenze, pur cospicue, tra i vari membri della critica non allotria. Return to text

20 Mi sia nuovamente consentito di rimandare ad un mio articolo pubblicato in Mélanges de l’Ecole française de Rome, (Lanfranchi, 2010) che identifica la fonte usata dalla redazione della sezione lettere dell’Enciclopedia per suggerire ad Ireneo Sanesi – autore della voce Ugo Foscolo – alcuni cambiamenti al suo testo: si tratta del libro di testo dello stesso Vittorio Rossi, Storia della letteratura italiana, pubblicato da Vallardi sin dal 1902. È molto probabile che questa stessa fonte fosse usata per suggerire altri cambiamenti, per altre voci, il che testimonia di un processo di omologazione del discorso sui classici della letteratura, direttamente ispirato dal discorso scolastico – tradizionalmente ben distinto da quello della “alta cultura”. Return to text

References

Electronic reference

Stéphanie Lanfranchi, « Fascismo e resistenza della critica letteraria », Textes et contextes [Online], 6 | 2011, 01 December 2011 and connection on 23 November 2024. Copyright : Licence CC BY 4.0. URL : http://preo.u-bourgogne.fr/textesetcontextes/index.php?id=301

Author

Stéphanie Lanfranchi

Maître de Conférences, rattachée au Laboratoire Triangle, UMR 56, ENS de Lyon, 15, parvis René Descartes, 69007, Lyon

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