1. Introduzione
1.1. Da clandestinus a clandestino: punti di contatto e differenze
Nello spirito di un contesto di studi e di contributi dedicati alla problematica attuale della clandestinità, si è scelto un titolo volutamente provocatorio che tiene conto del significato contemporaneo del termine clandestino mostrandone però i punti di contatto con l’antico. La parola ‘clandestino’, infatti, nasce come aggettivo, ma è utilizzata qui come sostantivo e, nello specifico, quando viene impiegata nel linguaggio mediatico e politico per indicare coloro i quali vivono in un Paese diverso dal loro senza regolare permesso di soggiorno e questo, spesso, con un’accezione negativa, discriminatoria: F. Faloppa, nella monografia dedicata, tra le altre cose, al rapporto tra le disposizioni giuridiche e il termine in questione, asserisce che, in epoca contemporanea, questo è associato all’idea di illegalità quando ci si riferisce ai migranti1. Costoro sono obbligati a vivere nell’ombra, di nascosto e ciò richiama l’originario valore dell’aggettivo latino clandestinus, formato dalla radice clam, dall’infisso de (da dies), dal suffisso tin e dalla desinenza us2. Il mutamento della nasale sonora labiale m di clam in nasale sonora alveolare n di clandestinus è dovuto alla presenza della nasale sonora labiale m all’interno di parola prima di una consonante3. Pertanto, è con valore aggettivale che clandestinus è attestato nelle quarantacinque ricorrenze che hanno come terminus ante quem il II d.C.4 e, per essere esatti, fino all’epoca del principato di Marco Aurelio (161-180)5.
Vi è però una sostanziale differenza tra l’antico e il contemporaneo poiché il cristianesimo viene sì, dichiarato religio illicita da Traiano (98-117)6, ma non perché ‘migrante’, quanto piuttosto a causa del suo essere in opposizione con le tradizioni fondanti di Roma, il mos maiorum. Il conflitto diventa ancora più evidente quando ad abbracciare il nuovo credo è un civis romanus, ovvero il rappresentante di quel potere centrale che è custode delle antiche tradizioni dell’Urbe in cui, infatti, religione e politica si intrecciano visceralmente: la pietas deorum, la devozione verso gli dei, costituisce insieme ai pignora imperii, i sette oggetti sacri custoditi in sette luoghi simbolo del potere di Roma, la base dell’aeternitas imperii di cui – ad esempio – un pius come Marco Aurelio, princeps e pontifex maximus, è strenuo difensore7. Tuttavia, egli è a capo di un principato tutt’altro che chiuso all’integrazione dei culti provenienti dai popoli assoggettati che si fossero dimostrati in armonia con il mos maiorum, mentre, in linea con la tradizione, si mostra reazionario nei riguardi di quelli che costituivano un serio problema per l’ordine pubblico come, appunto i cristiani. Vale la pena ricordare, a tal proposito, alcune fonti. In primis, due disposizioni che provano come le istituzioni reagissero davanti ai culti destabilizzanti per l’ordine pubblico fin dall’epoca repubblicana: il Senatus Consultum de Bacchanalibus del 186 a.C. contro – appunto – i baccanali e la Pauli Sententiae 5, 21. 2., quest’ultima risalente, molto probabilmente, all’epoca di Marco Aurelio che sancisce la punizione verso chi avesse introdotto nuove e pericolose sectae8. In secundis, la Vita Marci (XIII, 1), contenuta nella tarda Historia Augusta (fine IV, inizi V)9, la quale conferma l’atteggiamento aperto del princeps verso i culti di origine straniera utili per la salvaguardia di Roma. Mantenere un’informazione come questa, reputata affidabile in quanto tratta verosimilmente da uno storico coevo del princeps, cioè Mario Massimo (158/160 circa – 230)10, in un’opera così tarda potrebbe confermare l’idea che l’Historia Augusta sarebbe figlia di un ambiente senatoriale pagano, oramai in minoranza, alla ricerca di tolleranza verso i cristiani. Si ricordi, a tal proposito, che dalla fine del IV secolo, i ruoli si invertono rispetto al II: dal 27 febbraio 380 con l’editto di Tessalonica, il cristianesimo è, infatti, ufficialmente religione di Stato11.
Si precisa volutamente l’evoluzione dello status giuridico del cristianesimo per sottolinearne la differente posizione rispetto al giudaismo da cui discende. Il termine giudaismo è usato per indicare le strutture ideologiche e culturali dell’ebraismo, una sorta di puzzle più o meno uniforme delle utopie teocratiche delle élite sacerdotali e scribali di Gerusalemme formatosi a seguito della nascita del primo nucleo della diaspora. Questa nasce a seguito della cattività babilonese (597-587 a.C.), poiché alcuni esiliati scelsero di restare a Babilonia quando Ciro il Grande, conquistando la città, diede loro il permesso di rientrare in Palestina nel 539 a.C.12.
Il complesso rapporto tra gli ebrei della Palestina e della diaspora con le istituzioni romane ha portato, nel corso del tempo, a fiere opposizioni al culto tradizionale e a conseguenti risposte repressive, nonostante un iniziale accordo (161 a.C. circa) tra gli emissari di Giuda il Maccabeo e il Senato in un contesto in cui Roma è vista, addirittura, sotto una luce positiva. In seguito, e più precisamente nel 65/64 a.C., la situazione cambia drasticamente: Pompeo, durante la terza guerra contro Mitridate VI re del Ponto (74-63 a.C.), infatti, si intromette nel conflitto dinastico tra Icarno II e suo fratello Aristobulo sancendo di fatto l’inizio del contrasto tra Roma e il mondo giudaico13. Sono emblematici, ad esempio, gli episodi di cui sono protagonisti il praefectus Ponzio Pilato al tempo di Tiberio (26 d.C.)14 e, qualche anno dopo, Caligola (38 e 40 d.C.)15. È ancora più eloquente però il pugno duro usato durante le tre guerre giudaiche da Vespasiano (66-70/73)16, Traiano (115-117)17 e Adriano (132-135)18.
Ciononostante, alcuni elementi hanno giocato a favore del mantenimento dello status di liceità. In primis, la presenza di posizioni meno radicali – o compiacenti – nei riguardi del potere romano come quelle, ad esempio, di una certa élite sacerdotale e dello storico giudeo romanizzato Giuseppe Flavio (37/38 circa – 100 circa) che sono testimonianza di un equilibrio di fondo19. In secundis, l’assenza di trasversalità nel giudaismo che si fonda su una forte identità di popolo, di λαός.
1.2. L’ideologia trasversale del cristianesimo nel II secolo
Questo secondo punto, in particolare, pone il giudaismo in netta contrapposizione col cristianesimo che si configura, invece, come una presenza universale non vincolata ad alcuna identità di nazione e che mira, invece, ad averne una comunitaria. È interessante riportare, a tal proposito, gli studi di E. Norelli secondo i quali la parola χριστιανισμὸς sarebbe stata coniata proprio in opposizione al giudaismo agli inizi del II secolo da Ignazio vescovo ad Antiochia di Siria – la terza città dell’impero all’epoca di Giuseppe Flavio nonché il secondo grande centro della diaspora ebraica20 – e attestata quattro volte in tre lettere (Magnesii 10, 1. 3; Romani 3, 3; Filadelfiesi 6, 1) redatte nel corso del viaggio fino a Roma dove subì il martirio probabilmente nel 10721. Il ‘neologismo’ di Ignazio arriva a compimento di un percorso che ha inizio sempre ad Antiochia soltanto pochi decenni prima, molto probabilmente tra l’80 e il ’90 del I secolo: gli studi storico-esegetici di D. Marguerat, infatti, individuano questo lasso di tempo per la composizione degli Atti degli Apostoli avendo come elemento fondante della sua argomentazione la valenza dispregiativa del temine giudeo da 9:23 in poi, una scelta che marca in maniera inequivocabile la cesura del cristianesimo con le sue radici22. Il testo racconta, infatti, che la parola ‘cristiano’ nasce ad Antiochia per l’esigenza di coloro che, esterni al movimento, hanno sentito la necessità di creare una distinzione tra una comunità che accoglie anche gentili (ed è quindi pagano-giudaica) e i Giudei della Sinagoga locale (11:19-26c)23.
Il cristianesimo del II secolo, come colto da S. C. Mimouni (2014: 7-8), diventa così latore di un messaggio altamente destabilizzante per l’impero: la sua presenza si fa strada in un periodo storico particolarmente complesso poiché caratterizzato da una profonda e generalizzata crisi spirituale che è conseguenza di incertezze economiche e politiche. Si va dunque alla ricerca personale della protezione di una divinità tutelare che assicuri la salvezza oltre la morte, una dimensione che oltrepassa la religiosità tradizionale romana. Ci si rivolge a dèi ellenistici, orientali e universalistici che hanno sofferto e vinto la morte. Esso si diffonde così in tutto l’impero sviluppandosi anche nelle sue diverse correnti eterodosse (e.g. gli gnostici di Basilide o Valentino, gli encratiti con Marcione e Taziano)24. A differenza però delle altre religiosità salvifiche, continua S. C. Mimouni (2014: 8, 17-18), il cristianesimo mostra una forte intransigenza cultuale che nuoce ai suoi rapporti con Roma. Il conflitto con le istituzioni è immediato poiché esse lo percepiscono rapidamente come un pericolo a causa del suo proselitismo: ciò che urta le autorità romane, in particolare, è l’intolleranza verso le molteplici manifestazioni della religiosità tradizionale dato che il suo monoteismo esclusivo obbliga a rifiutare tanto le assimilazioni sincretiche quanto il culto imperiale. Quest’ultimo è un punto di scontro insanabile poiché la divinizzazione del princeps rivitalizza il mos maiorum.
Dal canto suo, come rimarcato da numerosi studiosi, il cristianesimo non cerca affatto uno scontro politico frontale con Roma, e ciò fin dai suoi esordi: i noti passi evangelici di Marco (12:13-17), Matteo (22:15-22) e Luca (20:20-26) – in cui Gesù distingue ciò che si deve a Cesare da ciò che si deve a Dio – e il capitolo 13, paragrafo 17 della Lettera ai Romani nel quale Paolo di Tarso (4 - 64/67) invita a rendere alle autorità ciò che gli è dovuto, dalle tasse al rispetto, ne sono un esempio; il messaggio di quest’ultimo sembrerebbe però non bastare più nel II secolo per fermare la portata eversiva della pulsione millenaristica e così Ireneo di Smirne (circa 130-200 circa), vescovo di Lione, nell’Adversus Haereses (IV, 30. 3), interverrebbe asserendo che il mondo è in pace grazie a Roma le cui strade permettono così una rapida diffusione del messaggio cristiano che oramai si trova in tutto l’impero (I, 10. 2) e solo la presenza di Roma, che attualmente regna (V, 26. 1: «quod nunc regnat imperium»), può garantire la civilitas: dopo la caduta di Roma, infatti, verrà l’Anticristo, poi tornerà l’Agnello – ovvero Gesù Cristo – e ci sarà la vittoria finale di quest’ultimo che segnerà la fine dei tempi; anche per questo, tutti gli apologisti della seconda metà del II secolo si sentono parte integrante dell’impero. Naturalmente però questi ultimi, pur dichiarandosi fedeli al princeps, restano irremovibili nel non voler contravvenire ai loro principi che impediscono l’attuazione – finanche formale – della cultualità tradizionale pagana25.
1.3. Obiettivi della ricerca
Pertanto, questo contributo si propone di penetrare in quella che appare come una frattura ideologica insanabile tra la prospettiva cristiana – di cui si ripercorrerà la nascita e la genesi della sua ‘identità migrante’ dalle origini al II secolo – e quella delle istituzioni, come cioè un civis possa identificarsi anche come christianus in un tempo in cui affermare la propria fede in Cristo era formalmente un atto illecito. Si rivelerà preziosa, a tal riguardo, una rilettura di alcune fonti del II secolo che permetterà di descrivere in maniera netta e chiara questo conflitto. In particolar modo, si porrà l’attenzione su alcuni passi dell’Apologeticum di Tertulliano (160-240), avvocato e apologeta tra i più noti del suo tempo, attivo tra la città natale, Cartagine, e Roma26, sullo scambio epistolare tra Traiano e Plinio il Giovane a proposito di quali misure adottare nei riguardi dei cristiani e sul Martyrium Lugdunensium. Quest’ultimo è un resoconto dettagliato dei processi e delle esecuzioni subiti dai cristiani a Lione, probabilmente nel 176 e non nel 177, come asserisce Eusebio nella sua prefazione al V libro della Historia Ecclesiastica, per via della menzione di un solo princeps sia da parte di Eusebio che del Martyrium Lugdunensis27. Ugualmente, sarà possibile giocare sul termine clandestino in associazione ai cristiani qui definiti, provocatoriamente, migranti.
2. La ‘migrazione ideologica’ dal giudaismo
2.1. L’apertura verso i gentili negli Atti degli Apostoli
Come già accennato, il cristianesimo nasce in seno al giudaismo nell’odierna Palestina, ma da esso si distacca profondamente provocando quella che si può definire in maniera stuzzicante migrazione ideologica e fisica. Infatti, secondo la tradizione neotestamentaria, Cristo, prima di ascendere al cielo, appare agli apostoli o in Galilea o a Gerusalemme e da lì li invia in ogni luogo per diffondere il suo verbo (Marco 16:14-20, Matteo 28:18-20, Luca 24:46-49, Giovanni 20:21-23, Atti degli Apostoli 1:8)28.
Da un punto di vista ideologico, l’apertura del messaggio evangelico a tutte le genti comporta una migrazione, nel senso di allontanamento, dalla sua culla. La genesi di questo distacco può essere esemplificata in alcuni episodi raccontati negli Atti degli Apostoli i cui toni verso il giudaismo sono polemici al punto da manifestare un’aperta rottura (28:25-28)29. È una narrazione, quella cristiana di quest’epoca, sostiene S. C. Mimouni, atta a forgiare una ‘coscienza identitaria’: l’identità religiosa cristiana si fonda, infatti, su etnie differenti, tanto greche quanto giudaiche, destinate a sparire nel corso del tempo e a fortificarsi tra la metà del II e il III secolo proprio in risposta a una rinnovata spinta identitaria giudaica voluta dalla corrente dei farisei in cui la circoncisione diventa un elemento fondamentale, anzi il più importante30. Gli Atti degli Apostoli sono pertanto un testo che vuole mostrare una chiara, netta e dirompente apertura dell’innovatrice Parola di Cristo ai gentili. Questo si coglie bene in tre passaggi dello scritto: l’incontro tra l’apostolo Pietro e Cornelio (10:1-48)31 centurione della coorte italica di stanza a Cesarea32, databile con prudenza tra il 33 e il 3633, la nascita della comunità mista (giudaica-gentile) ad Antiochia che ha negli Atti degli Apostoli (11:19-26c) la sua fonte principale34, e il successivo Concilio di Gerusalemme (15:2-29)35, avvenuto intorno al 48-4936, il primo di cui si abbia notizia.
Il primo episodio riguarda, come detto, il centurione Cornelio, definito «adoratore di Dio» poiché tra quei pagani vicini ai culti e ai riti giudaici (10:1, 13:16.26, 13:50, 16:14, 17:4.17, 18:7)37. Costui riceve la visita di un angelo del Signore che lo invita a mandare degli uomini nella città di Giaffa per raggiungere l’apostolo Pietro (10: 1-8) che, in una visione estatica, viene invitato a nutrirsi anche di alimenti considerati impuri dalle Scritture poiché oramai mondati da Dio (10:10-16). I dubbi dell’apostolo vengono fugati dallo Spirito Santo che gli preannuncia l’arrivo degli uomini inviati dal centurione (10:19-20). Pietro, dopo averli ospitati, si incammina con loro verso Cesarea e, una volta raggiunto Cornelio, gli comunica la volontà del Signore: che nessun uomo possa dirsi profano o immondo solo perché non giudeo (10:28-29). Ascoltata la rivelazione di Cornelio sulla visita dell’angelo (10:30-33), l’apostolo ha dunque certezza che Dio non fa preferenze tra gli uomini poiché ciò che conta è esserne timorati esercitando una vita giusta. Ne consegue che Gesù Cristo è il Signore di tutti (10:34-37). A ulteriore riprova di questa apertura, lo Spirito Santo discende sui gentili che – tra lo stupore dei circoncisi – furono così in grado di glorificare Dio parlando in diverse lingue (10:44-46). Seguendo la volontà divina, tutti loro vengono quindi battezzati nel nome di Cristo (10:48).
L’episodio introduce quella che è, senza dubbio, la svolta del nuovo credo rispetto al giudaismo: il dibattito sull’inclusione dei gentili. Un processo, naturalmente, non esente da scontri come dimostra tanto la giustificazione dell’apostolo Pietro alla comunità di Gerusalemme della sua scelta di battezzare i pagani (11:1-18), quanto la fondazione della comunità mista di Antiochia. Le controversie all’interno di questa comunità sulla circoncisione imposta ai gentili (15:1), porteranno al Concilio di Gerusalemme. Questo, sostiene D. Marguerat38, è un chiaro segno dell’ostilità dei fuorusciti dalla Sinagoga locale all’integrazione dei pagani (13:45-14: 2): abbracciare i riti giudaici, mantenere le antiche radici e dunque un rapporto diretto ed esclusivo con l’unico vero Dio, è per costoro la condizione soteriologica necessaria per la salvezza. La fede in Gesù Cristo è così, paradossalmente, posposta. La nascita di questa comunità mista rappresenta pertanto una tappa fondamentale nella migrazione ideologica e fisica del cristianesimo rispetto al giudaismo poiché qui, per la prima volta, i facenti parte di questa comunità mista sono chiamati dall’esterno cristiani (11:26c) in quanto «sostenitori di Cristo» per distinguerli dai membri della Sinagoga locale39. L’inclusione dei gentili nel nascente cristianesimo porta a quello che viene chiamato ‘decreto apostolico’ nel corso del Concilio di Gerusalemme. In questa occasione, gli apostoli stabiliscono che ai gentili sia evitata la circoncisione, ma sia imposta l’astensione dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime (15:19-20, 28-29)40. Ciò avviene grazie soprattutto a Paolo di Tarso, accompagnato da Barnaba – della tribù di Levi, cipriota per nascita, primo evangelizzatore di quest’isola e molto conosciuto a Gerusalemme (4:36-37) – nell’opera di predicazione presso i pagani; Paolo, lo si ricordi, che si dichiara civis romanus dinanzi a Porcio Festo, procurator Augusti della Giudea (25:11-12)41, è un giudeo convertito appartenente alla tribù di Beniamino (Romani 11:1 e Filippesi 3:5).
2.2. La critica al giudaismo nel II secolo
Il pensiero di Paolo, i cui viaggi lo porteranno fino a Roma all’epoca di Nerone (54-68)42, è alla base dell’interessante testimonianza di uno scritto della seconda metà del II secolo, la Lettera a Diogneto, un’opera riassuntiva della dottrina di un buon cristiano, nel cui V capitolo si descrive quest’ultimo come un forestiero senza patria, un cittadino che si adatta ai costumi della realtà politica che lo ospita senza però sposarli ideologicamente poiché egli è innanzitutto un seguace di Cristo e per questo è perseguitato dai pagani e dai Giudei (V, 5); in virtù di ciò, non sono più accettabili i ritualismi di questi ultimi: i sacrifici, la circoncisione, il rispetto del sabato e dei digiuni fanno di loro, infatti, dei nuovi pagani (III-IV)43. Non è un esempio isolato. Basti pensare ad altre opere dello stesso periodo: la Lettera di Barnaba, l’Apologeticum di Tertulliano e, infine, l’Adversus Haereses di Ireneo.
La Lettera di Barnaba appartiene alla cosiddetta ‘letteratura subapostolica’, la cui datazione, secondo E. Prinzivalli, è intorno al 130; si tratta di un testo di notevole importanza per due motivi: in primis poiché si vuole scritto da Barnaba per questione di auctoritas nomini e, in secundis perché ben quindici capitoli su ventuno sono dedicati a una sferzante polemica antigiudaica che raggiunge l’acme nel privare il giudaismo del suo testo di riferimento, l’Antico Testamento, riletto in chiave cristologica44.
Nell’Apologeticum, opera in cui Tertulliano difende il cristianesimo redatta tra il 197 e il 20045, si asserisce (VII, 3) che i cristiani sono detestati sin dal principio in quanto portatori di verità e per questo sono trattati come nemici da combattere, specialmente dai Giudei46.
Nell’Adversus Haereses, opera in cinque libri contro lo gnosticismo e altre eterodossie cristiane, scritta probabilmente tra il 174 and 18947, Ireneo vuole mettere in risalto ciò che distingue davvero cristiani e Giudei. Costoro, che hanno ricevuto le tavole mosaiche per evitare di ritornare a un culto politeistico (IV, 14. 3), hanno una grande responsabilità: l’aver perduto lo spirito dei Patriarchi nell’approcciarsi alla Legge di Dio. In IV, 18. 2, si asserisce, ad esempio, che mentre il cristiano compie le oblazioni con carattere libero, il giudeo lo fa in maniera formale al punto da essere quasi un obbligo tipico di uno schiavo e il significato del gesto, ovvero ciò che ci sta dietro, non sfugge agli occhi del Signore. Questa attenzione eccessiva, e spesso solo apparente e vuota, al rispetto della Legge è – dice Ireneo – alla base della distinzione tra l’originario culto ebraico di Abramo e gli attuali giudaici. Esemplificativo, a tal riguardo, quanto si legge in IV, 8. 2: Ireneo, qui, riprende il famoso passo di Luca (13:10-17) in cui Gesù riceve l’indignata critica dell’ἀρχισυνάγωγος, il responsabile dell’edificio e dell’ordinamento esterno delle cerimonie della Sinagoga locale, per aver guarito un’inferma posseduta durante lo Shabbat. Ad essa, Gesù risponde dicendo che si tratta di pura ipocrisia poiché coloro che invocano il riposo del sabato per come lo predicano, non mancano certamente di portare il bue e l’asino ad abbeverarsi48.
Non di meno, pesa sui Giudei il non aver voluto accettare Gesù come Messia. Questo rifiuto marca fortemente il pensiero di Ireneo al punto che in V, 30. 2, appoggiandosi integralmente all’autorità di Geremia (8:16), asserisce che l’Anticristo verrà da una Tribù israelita, quella di Dan (la seconda per importanza numerica tra tutte le dodici tribù: cfr. Numeri, 1:27-30). A riprova della veridicità della profezia – continua Ireneo – nell’Apocalisse (7:5-8) la tribù di Dan non è menzionata tra quelle i cui membri si salveranno durante il Giudizio Universale. Come spiega A. Orbe, la visione di Ireneo si situa in una prospettiva molto precisa, condivisa anche da altri pensatori cristiani di fine II, inizi III secolo, come Ippolito di Roma (170 circa - 235), e cioè sulla credulità dei Giudei nei confronti dell’Anticristo poiché egli verrà come loro se lo aspettano: non con l’umiltà mostrata da Gesù, ma con molti prodigi e con lo sfarzo di un re che s’insedierà nella Gerusalemme terrestre, poi – dice Ireneo (V, 25. 3-4) – siederà nel Tempio dove convincerà i suoi adoratori che egli è il Messia che aspettavano e ciò perché – come asserisce Ippolito – ciò che conta per la Sinagoga è realizzare i suoi disegni politici49.
2.3. Il monoteismo esclusivista: il cristianesimo quale unico vero erede dell’ebraismo secondo Ireneo e Giustino Martire
Il pensiero espresso da Ireneo nell’Adversus Haereses eleva pertanto il cristianesimo, monoteismo esclusivista, ad essere l’unico vero erede dell’ebraismo e questo perché è in grado di riconoscere nei signa di Dio il loro valore non esteriore ma intrinseco come, in effetti, erano stati dati ad Abramo (IV, 16. 1-2). Ciò è valido non solo per lo Shabbat, ma anche per la circoncisione. Quest’ultima critica è un punto di contatto con un altro grande personaggio suo contemporaneo: il filosofo e apologeta Giustino Martire (100 - 165 circa)50. Infatti, dice Ireneo (IV, 16. 1), Abramo ricevette direttamente da Dio la giustificazione della circoncisione (Genesis 17:9-11) – come in seguito Mosè (Exodus 31:13) e il profeta Ezechiele (Ezechiel 20:12) a proposito dello Shabbat – e tuttavia, continua Ireneo (IV, 16. 2), nessuna pratica è essenziale per la salvezza poiché quest’ultima venne concessa senza problemi anche ai Patriarchi vissuti prima di Abramo. Pertanto, la circoncisione, dice Giustino nel Dialogo con Trifone – un’opera ambientata ad Efeso in cui Giustino si confronta con Trifone, un rabbi locale probabilmente realmente esistito, e scritta tra il 150 e il 160 – permane nel giudaismo come vano formalismo rituale (12, 3 e 16, 1-4) ed è per questo che i cristiani non sono circoncisi come non lo erano Abramo, Isacco e Giacobbe (11, 5)51.
Risulta evidente allora come il mettere distanze dal giudaismo sia alla base di una maggiore presa di coscienza dell’essere cristiano nel II secolo e dunque di una sua effettiva ‘migrazione ideologica’. Naturalmente, quando si parla di ‘essere cristiano’, si fa riferimento a quella che, all’epoca di Giustino ed Ireneo viene definita la ‘Grande Chiesa’, cioè l’ortodossia, poiché, come asserisce M.-F. Baslez, in Asia Minore, e in particolare nella Smirne di Ireneo, fino alla metà del III secolo, è possibile trovare comunità eterodosse che abbracciano ancora riti tipicamente giudaici come lo Shabbat52.
3. La ‘migrazione fisica’: la diffusione del cristianesimo presso i cives
Il distacco dal giudaismo, la rivendicazione delle radici monoteiste ebraiche e l’apertura ai gentili rappresenta, dunque, il bagaglio identitario e ideologico del cristianesimo nel corso della sua ‘migrazione fisica’. Diffondendosi in tutto l’impero, esso entra in contatto anche con i cives. Coloro i quali che, tra questi ultimi, lo sposano depongono, di fatto, il ruolo di custodi del mos maiorum, fondato – come detto in precedenza – su un’apertura politeistica al nuovo che viene integrato a patto che non si opponga ai suoi principi basilari53. Questa condizione li pone in una prospettiva molto delicata anche perché – dato non trascurabile – fino agli esordi del III secolo essere civis era un privilegio. Soltanto con la Constitutio Antoniniana voluta da Caracalla del 212, ad eccezione dei dediticii, tutti gli abitanti dell’impero acquisiscono la cittadinanza romana54 implicando così un’accettazione generale del culto tradizionalista, una scelta che, a detta di E. Dal Covolo e della maggior parte della critica, ha reso più facile l’identificazione dei dissidenti55.
4. Le contraddizioni delle disposizioni traianee nell’Apologeticum di Tertulliano
Pertanto, anche per questo, il cristianesimo diventa nel II d.C. oggetto di problematiche giuridiche alla base delle quali vi è la certezza che i cristiani sono sempre e comunque dei fuorilegge: non licet esse vos (V, 3) afferma Tertulliano nella sua opera rivolgendosi ai magistrati di Cartagine56 e argomentando a favore di un’intrinseca contraddizione delle disposizioni anticristiane vigenti ai suoi tempi: non è lecito essere cristiani ed eppure questi non sono ricercati d’ufficio (II, 8-9 e 14), inoltre sono denunciati per l’appartenenza al nomen christianum e non per i crimini efferati a esso connesso (I, 4, II, 3 e 18, III, 5-6) ed infine, contrariamente agli altri criminali, sono rimessi in libertà a seguito di formale abiura del nomen (II, 10)57.
5. Punire l’inflexibilis obstinatio cristiana: l’obiettivo preciso di Plinio e Traiano
Le disposizioni cui Tertulliano fa riferimento sono quelle contenute nello scambio epistolare avvenuto tra il 109 e il 113 tra Plinio il giovane, legatus Augusti pro praetore delle provincie di Ponto e Bitinia, e Traiano (Epistula X, 96 ed Epistula ad Plinium X, 97)58 i cui contenuti sono così schematicamente riassumibili:
1) Il capo d’imputazione principale è il nomen christianum la cui abiura fa cadere automaticamente, anche i delitti connessi al nomen, quelli cioè che Plinio definisce flagitia cohaerentia nomini (X, 96. 2)59.
2) L’abiura implica un atto formale: i sacrifici rituali ai simulacri degli dèi e all’immagine del princeps nonché le imprecazioni a Cristo.
3) A seguito di questa procedura, l’imputato viene rimesso in libertà.
4) Si ammette soltanto la procedura accusatoria con denuncia formale che esclude la ricerca d’ufficio (il famoso «Conquirendi non sunt» in Ep. X, 97. 1) e le denunce anonime.
5) Se il cristiano denunciato è un civis romanus, costui viene rimesso al giudizio del princeps in base al principio della provocatio ad Cesarem e ciò implica che l’imperium del governatore sia limitato ai soli provinciales come stabilito dalla Lex Iulia de vi, probabilmente di epoca augustea60.
6) La procedura da seguire non deve essere rigida
Tra le considerazioni di Plinio nei riguardi dei cristiani, una è degna di nota poiché permette di comprendere bene la percezione delle istituzioni nei riguardi dei cristiani: Plinio definisce inflexibilis obstinatio (X, 96. 3), l’incrollabile reticenza dei cristiani nel non voler effettuare, quantomeno formalmente, gli atti devozionali verso gli dèi e verso il princeps. Un gesto che li fa percepire come sprezzanti del mos maiorum e che li rende irriducibilmente inflessibili nel corso dei vari interrogatori, davanti alle torture e alla morte poiché convinti di una ricompensa post mortem61.
Si è lungi dal credere che questa legislazione sia confusa come asserisce Tertulliano nell’Apologeticum (II, 8) e che, per merito di Traiano, sia protettiva nei confronti dei cristiani (V, 7)62. Tutt’altro: una lettura più attenta delle epistulae porta, infatti, a una differente interpretazione. Certamente Traiano vieta la persecuzione d’ufficio, conferisce alla prassi stabilita da Plinio un carattere non rigoroso e, eliminando ogni peso formale delle denunce anonime, conferma quanto stabilito dal suo legato imperiale sulla procedura accusatoria supportata da prove certe e sulla rimessa in libertà dell’imputato che abbia abiurato con atti tangibili. Tuttavia, si è dell’avviso che queste disposizioni abbiano l’obiettivo di circoscrivere le istruttorie ai soli veri cristiani per evitare che un’accusa come quella di cristianesimo, null’altro – dice Plinio – che una superstizione balorda e smodata (X, 96. 8) i cui adepti sono automaticamente rei di infamanti flagitia, possa essere usata in maniera inappropriata. Inoltre, si pone sulla testa dei cristiani una spada di Damocle costantemente pronta a colpire. S’instaura, cioè, come ampiamente sostenuto da S. Mazzarino, un clima discriminatorio latente63: i cristiani – afferma Tertulliano (Ap. XL, 2) – sono considerati i capri espiatori di quanto di male avviene nel mondo.
6. Confessio nominis e flagitia nei documenti del II secolo
Plinio, come detto, definisce nell’Epistula con il termine flagitia (X, 96. 2) le accuse infamanti rivolte ai cristiani senza però entrare nel dettaglio: in X, 96. 7 non sembrerebbe, infatti, essercene esplicito riferimento64. In altri documenti, invece, questi flagitia sono apertamente nominati e ciò avviene per rinforzare l’ignominiosa fama di cui godono i cristiani e il principale capo d’accusa, la confessio nominis: ateismo, antropofagia e incesto65. Questi documenti coprono un arco cronologico che va dal 153 circa al 176 circa, ovvero dagli anni del principato di Antonino Pio (138-161) a quelli di Marco Aurelio (161-180):
1) l’Apologia che Giustino Martire invia tra il 153 e il 155 ad Antonino Pio e ai suoi figli adottivi Marco Aurelio e Lucio Vero66;
2) il Martyrium Polycarpi che racconta della condanna a morte di Policarpo, vescovo di Smirne in una data oscillante tra il 155 e il 17767;
3) l’orazione contro i cristiani che Marco Cornelio Frontone (100-166/170), maestro di retorica di Marco Aurelio, pronuncia in Senato forse tra il 162 e il 164 e parzialmente riportata nell’Octavius (IX, 6 e XXXI, 1)di Minucio Felice nel 197 circa68;
4) l’Apologia che Melitone, vescovo di Sardi, invia a Marco Aurelio nel 175 circa e che è citata in alcuni suoi passi da Eusebiodi Cesarea (265-340) nella sua Historia Ecclesiastica (IV, 26)69;
5) la Legatio pro christianis di Atenagora, vescovo di Atene, consegnata a Marco Aurelio e Commodo probabilmente durante la fine dell’estate del 176 in occasione della loro visita ad Atene70.
6) il Martyrium Lugdunensium, un preziosissimo documento di cui si posseggono lunghi estratti grazie ad Eusebio (apud. H.E. V, 1-2)71. Questi appaiono come il risultato di una raccolta anonima delle testimonianze dirette dei cristiani non inquisiti (a ulteriore conferma del rispetto del conquirendi non sunt di Traiano) e che dunque sopravvivono alle esecuzioni avvenute a Lione probabilmente nel 17672. Costoro, infatti, assistono i cristiani incarcerati (1, 27. 153 e 1, 28. 161-162), sono presenti alla decapitazione dei cives (1, 47. 283), sono presenti ai munera gladiatoria in cui si giustiziano coloro che non abiurarono (1, 33. 220-223 e 1, 50. 303-305, 1, 53-56), e sono testimoni dello strazio dei corpi dei cristiani strangolati in carcere e dati in pasto agli animali (1, 59. 350). Infine, raccontano della cremazione e della dispersione delle ceneri di quanto restava dei corpi dei martiri (1. 62-63). In virtù di ciò, pare poco probabile assegnare la paternità dell’originario documento a Ireneo73.
7. Prospettive istituzionali e cristiane, un incontro impossibile secondo il Martyrium Lugdunensium: la ‘clandestinità cristiana’
7.1. Due ideologie a confronto
Il racconto del Martyrium Lugdunensium merita di essere accuratamente analizzato poiché risulta dettagliato, privo di elementi meravigliosi tipici della successiva letteratura agiografica e soprattutto si presenta accurato nella ricerca terminologica delle cariche pubbliche dei diversi funzionari74. I suoi contenuti permettono di dimostrare quanto affermato fino ad ora: i cristiani, e i cives in particolare, sono percepiti come scollati dalla realtà politica e religiosa romana e proprio per questo rappresentano una vera e propria minaccia per la salvaguardia del mos maiorum. Dal canto loro, i cristiani interpretando una prospettiva diversa rispetto a quella istituzionale, cercano di mostrare l’infondatezza delle accuse.
7.2. Atti di intolleranza e di discriminazione: racconto di ieri, echi di oggi
Agli esordi del documento, si legge che i cristiani sono trattati, appunto, come dei clandestini, nel senso discriminante contemporaneo di estranei indesiderati e, se possibile, pericolosi: esclusi dai luoghi pubblici poiché malvisti, sono insultati e malmenati, le loro vesti vengono violentemente stracciate (1, 7. 24-28)75 e questo indipendentemente dal fatto che fossero o meno cives.
7. 3. Denunce, interrogatori e tentativi di “reintegrazione” secondo le epistulae di Plinio e Traiano
Tuttavia, nei loro riguardi non si scatena una vera e propria persecuzione d’ufficio. Il documento mostra, piuttosto, che questo clima di forte discriminazione e di intolleranza porta il popolo pagano a effettuare denunce secondo le disposizioni di Plinio e Traiano. Non solo: il governatore locale non cerca di condannarli a tutti i costi quanto di reintegrarli nel solco delle tradizioni dei padri e questo, come è chiaro, assume un peso maggiore se i cristiani in questione sono cives.
Dopo questi primi atti di violenza, il popolo formula nei loro riguardi una delatio: i pagani, inferociti, trascinano i cristiani davanti ai magistrati della città di Lione, tra cui il tribunum militum (1, 8. 28-29), affinché gli imputati siano pubblicamente interrogati76. L’accusa formale al nomen christianum e la conseguente confessio nominis da parte degli accusati al cospetto di tutta la folla è dunque registrata da parte dei magistrati che redigono un elogium77, un vero e proprio rapporto di polizia78, contenente la notitia criminis da trasmettere al legatus Augusti pro praetore della Gallia Lugdunensis, ad oggi non identificabile79. Quest’ultimo, se avesse reputato il sopracitato rapporto come fondato, aveva l’obbligo di iniziare d’ufficio il processo contro il reus durante il quale egli era tenuto a riesaminare ex novo i fatti su cui l’accusa verteva80. Interrogatorio che effettivamente avviene (1, 8-10) e che si svolge pubblicamente in tribunale davanti a un considerevole numero di persone, in pieno rispetto della disposizione rintracciabile in D. 48. 1. 12: Modestinus libro tertio de poenis81. Durante questa fase, alcuni dei cristiani precedentemente interrogati confermano la loro appartenenza al nomen christianum, mentre altri abiurano (1, 11).
7. 4. La difesa dell’ἐπίσημος Vettio Epagato: i cristiani non sono né empi né atei
L’interrogatorio è narrato con dovizia di particolari (1, 9-10) e ciò permette di confermare che la confessio nominis è il capo d’accusa principale. Si racconta, infatti, che un certo Vettio Epagato (1, 9. 33 - 10. 53), indignato per il trattamento che il governatore sta riservando ai cristiani accusati, si levi tra la folla sollevando stupore e meraviglia probabilmente per il fatto di essere un personaggio molto noto in città (e per questo definito ‘ἐπίσημος’); egli chiede di prendere parte alla difesa dei cristiani per mostrare questi ultimi non peccano di ateismo e dunque non mancano di pietas (1, 9. 43: «ἄθεον μηδὲ ἀσεβές [...] ἐν ἡμῖν»)82, delle accuse che rappresentano, evidentemente, quei flagitia cohaerentia nomini di cui parlava Plinio (Ep. X, 96. 2). Il legato augusteo non dà seguito alla richiesta di Vettio Epagato, ma si limita a chiedergli se fosse anche lui cristiano e ciò è sufficiente per farlo entrare nella schiera dei martiri (1, 10. 50).
7. 5. In massa contro i cristiani: l’arresto del vescovo Potino e del medico Alessandro
Anche l’arresto di Potino, vescovo della comunità locale, permette un’interpretazione giuridica conforme alle prescrizioni traianee (1, 29. 167 – 1, 31. 187): costui è trascinato in tribunale dai soldati ed è seguito da un corteo formato dalle autorità locali e dal popolo. Questa dinamica costituisce la delatio che permette l’accusa formale davanti al legatus Augusti (1, 30. 175 - 178) il quale non pone a Potino la domanda di rito quanto piuttosto se conoscesse o no il Dio dei cristiani (1, 30. 178). Trattasi, a ben vedere, di una dinamica provocatrice poiché Potino in quanto vescovo, non può che essere cristiano. Quest’ultimo, dal canto suo, effettua la sua confessio nominis rispondendo al legato che se ne fosse stato degno, finanche lui avrebbe riconosciuto il Dio cristiano83.
Si segnali anche il caso di Alessandro, un medico di professione originario della Frigia (1, 48-50) il quale è denunciato dalla folla mentre è intento a supportare coloro i quali, avendo rinnegato l’abiura, subiscono un ulteriore interrogatorio da parte del legato augusteo che tenta di farli abiurare nuovamente (1, 48. 286-290). La folla allora lo addita quale cristiano e ciò costituisce l’accusa formale raccolta dal legato (1,49. 291-295) il quale gli chiede se fosse anche lui cristiano. Alla risposta affermativa di Alessandro, lo condanna a essere sbranato dalle fiere (1, 50. 303-305).
7. 6. La confessio nominis, primo capo d’imputazione
La lettura sin qui proposta si rinforza alla luce di un passo del documento molto significativo: come già affermato in precedenza, i cristiani non denunciati non vengono arrestati e anzi restano al fianco di quelli che finirono in prigione dando loro assistenza e conforto (1, 11. 61 – 62)84.
Pertanto:
1) I cristiani sono processati a causa del nomen che dunque è il capo d’imputazione principale: le risposte affermative di Vettio Epagato, Potino e Alessandro sono sufficienti per condannarli.
2) Il nomen christianum è il baricentro di altre accuse, quei flagitia cohaerentia nomini cui Plinio faceva riferimento (X, 96. 2), che dunque hanno ragion d’essere solo a partire dall’appartenenza del soggetto alla fede cristiana.
7. 7. L’importanza dei flagitia cohaerentia nomini
Questi ultimi, tuttavia, non sono secondari e anzi hanno un ruolo tutt’altro che marginale. Esattamente come avviene per i clandestini oggi, i cristiani sono denigrati, calunniati, ed emarginarti come si evince dalle prime righe del Martyrium Lugdunensium (1, 7. 24-28)85, ma anche dal pamphlet che Luciano di Samosata (120-180/192) dedica al mistico Alessandro di Abonutico (105-170), l’inventore del culto di Glicone86. Nel passo di Luciano (Alexander XXXVIII) atei e cristiani sono messi sullo stesso piano, paragonati a spioni (κατάσκοποι), messi in contrapposizione ai veri credenti (πιστεύοντες) e veementemente espulsi da questi ultimi agli inizi della cerimonia iniziatica istituita da Alessandro di Abonutico87.
Conviene pertanto spendere ulteriori riflessioni su questi flagitia poiché il loro peso giudiziario nel corso dell’intero episodio di Lione è in grado di mostrare come l’assenza di uno strumento quale il De officio Proconsulis, vademecum per i governatori provinciali redatto da Ulpiano agli inizi del III secolo, comportasse una sostanziale ignorantia iuris: stando, infatti, alla testimonianza del retore cristiano Lattanzio (250 circa – post 317), nel VII libro, erano contenute le disposizioni anticristiane88. L’importanza dei flagitia da un punto di vista giudiziale emerge nitidamente nei momenti immediatamente successivi all’interrogatorio del legatus Augusti a Lione (1, 9-10) durante il quale avviene la confessio nominis da parte degli imputati (1, 11. 54-56), ma circa dieci di loro abiurano (1, 11. 56-59). Ciò però non basta a farli rimettere in libertà: il fatto di essere stati cristiani, infatti, fa di loro degli atei e quindi degli empi (1, 9. 43), accuse che comportano in primis la detenzione in custodia cautelare (1, 13. 65-68) secondo il principio della cognitio custodiarum89 e, in secundis, l’inizio di un’inchiesta – e non di una persecuzione d’ufficio (1, 14. 70)90 – voluta dal legatus Augusti. Costui ottiene dai loro schiavi pagani la conferma di una serie di terribili calunnie (1, 14. 73-74): i cristiani consumano cene tiestee e unioni edipiche e, inoltre, si macchiano di altre nefandezze censurate nel testo poiché ripugnanti solo al pensiero (1, 14. 73-74). Queste terribili asserzioni, che costituiscono i flagitia cohaerentia nomini, hanno l’effetto di indurre anche le persone che avevano ottimi rapporti con i cristiani a cambiare atteggiamento nei loro confronti mostrando disprezzo e sdegno (1, 15. 76-78)91. Il peso che il legatus Augusti conferisce a questi flagitia è esemplificato dalla gestione degli apostati e di coloro i quali invece restano fedeli al nomen christianum: come per Plinio, è possibile pensare che questo funzionario imperiale abbia chiaro che la confessio nominis christiani costituisca un capo d’accusa sufficiente per condannare, ma che al contempo non sia convinto che l’abiura cancelli le colpe connesse al nomen92. I primi vengono trattenuti in prigione in quanto «ἀνδροφόνοι» e «µιαροί», cioè colpevoli di omicidi ed esseri impuri (1, 33. 191-197)93. I secondi, addirittura, sono sottoposti a torture (1, 16-31) o condannati a morire in arena (1, 37-42), un’azione che si spiega col fatto che l’imperium del governatore provinciale è illimitato sui provinciales94.
7. 8. La provocatio ad Caesarem: la prova della presenza di cives christiani
Tuttavia, tra gli apostati – una decina lo si ricordi (1, 11. 56-59) – ci sono alcuni cives Romani95 la cui presenza tra gli imputati è confermata dalla provocatio ad Cesarem cui loro si appellano e che obbliga il legatus Augusti a redigere ed inviare al princeps (1, 44. 261: «περὶ ὧν ἐπέστειλεν τῷ Καίσαρι») una missiva per sapere come comportarsi con loro (1, 44. 261-263).
7. 9. Marco Aurelio come Traiano: liberare gli apostati, decapitare i renitenti all’abiura
Marco Aurelio, nell’epistula di risposta, mostra di voler restare nel solco delle disposizioni traianee (Ep. ad. Plin. X, 97): ordina di decapitare i cives romani christiani renitenti all’abiura e di liberare gli apostati (1, 47. 276-277) a patto che costoro confermino formalmente la loro posizione attraverso, molto probabilmente, dei sacrifici rituali96. I cives romani apostati vengono interrogati separatamente dal legatus Augusti (1, 48. 285-286) ed alcuni – la maggior parte si legge (1, 48. 287: «οἱ πλείους τῶν ἠρνημένων») – tornarono in seno alla «Grande Chiesa» rinnegando l’apostasia mentre i restanti, confermando l’abiura, sono rimessi in libertà (1, 48. 288-289). Nei riguardi di questi ultimi, il testo non lesina parole ricche di pesante disprezzo poiché con la loro viltà hanno imbrattato il nomen christianus (1, 48. 290).
Se dunque i cives sono interrogati a parte ciò significa che, con ogni buona probabilità, il legatus Augusti abbia sottoposto a interrogatorio nuovamente anche gli altri apostati – evidentemente dei provinciales – e che dunque egli abbia adottato per questi ultimi la stessa politica voluta da Marco Aurelio per i cives Romani.
7.10. L’obiettivo delle istituzioni: condannare il cristianesimo avendo apostati
Il modus operandi del legato imperiale merita un approfondimento soprattutto alla luce del contesto in cui si verificano questi avvenimenti e della caratterizzazione altamente negativa che ne fa il Martyrium Lugdunensium per il quale l’unico scopo del legato augusteo è quello di osteggiare, umiliare e condannare a tutti i costi il cristianesimo e i suoi adepti più convinti, ma di reintegrarne quanti più possibile nel mos maiorum97. Andando oltre gli intenti apologetici del documento cristiano, si intravede un disegno preciso da parte del legatus Augusti, quello cioè di comprendere realmente la connessione tra nomen e flagitia, e dunque l’effettiva pericolosità del cristianesimo e di salvaguardare il mos maiorum. Nel nome di quest’ultimo e della paenitentiae venia pliniana, cioè il perdono per chi si pente rinnegando il nomen christianum mediante – evidentemente – un sacrificio agli dèi e all’immagine del princeps (Ep. X, 96. 2-3)98, egli cerca di reintegrare gli apostati e di condannare, anche attraverso la pubblica umiliazione, in maniera esemplare i renitenti all’abiura. Una scelta strategica dettata, in misura non minore dalla percezione avuta del cristianesimo nel corso dei vari interrogatori99, la cui pericolosità è stata, molto probabilmente, acuita anche dalla perseveranza dei cristiani davanti alle torture e alla morte100 poiché sorretti dalla certezza di una ricompensa eterna che i pagani, infatti, vogliono assolutamente evitare accanendosi sui resti dei martiri101.
1027.11. La sorte dei cristiani più in vista: l’umiliazione pubblica del civis Attalo
Il legatus Augusti, dunque, ordina le prime esecuzioni di cristiani, in questo caso provinciales, durante dei munera cittadini (1, 38 – 1, 42) che sono sospesi nel momento in cui è condannato alle fiere un certo Attalo, originario di Pergamo, da sempre colonna portante della comunità cristiana della sua città natale (1, 17. 87-88)103. Costui è un personaggio certamente di rilievo in città: in 1, 43. 257, infatti, è definito ‘ὀνομαστός’104. Per questo è reclamato a gran voce da una folla fremente che si accalca all’interno dell’anfiteatro (1, 43. 246 e 1, 44, 262). Nei suoi confronti il legatus Augusti autorizza un’azione di pubblico dileggio: Attalo è obbligato a fare il giro dell’anfiteatro preceduto da un’insegna (πίναξ) sulla quale – precisa il testo – c’era scritto «Attalo il cristiano» (1, 44. 258-260). Tuttavia, il funzionario imperiale è obbligato a sospendere lo spettacolo poiché gli viene comunicato che anche Attalo è civis romanus: lo rimanda in prigione in attesa della risposta di Marco Aurelio sulla procedura da adottare con i cives (1, 44. 261-263).
7.11. L’epistula di Marco Aurelio arriva durante la festa delle Tre Gallie
L’epistula di Marco Aurelio, si legge in 1, 47. 276-281, giunge a Lione in concomitanza dell’inizio di un avvenimento molto particolare, un’interpretazione resa possibile da una traduzione diversa e innovatrice del testo greco:
Poiché Cesare aveva ordinato di decapitarli in un caso, di liberarli invece se avessero abiurato [e ciò] mentre la grande festa nazionale [che si svolge] qui (si tratta di una manifestazione che attira un gran numero di persone da tutte le regioni) stava per cominciare, [il legatus Augusti] fece ritornare in tribunale gli uomini benedetti facendoli sfilare come spettacolo per la folla [per pubblico ludibrio]»105
Si tratta, molto probabilmente, dell’antica festa celtica del Lugnasad (o ‘delle Tre Gallie’) in onore del dio Lug – molto sentita dalle popolazioni galliche – che si svolgeva ogni 1° agosto e che dal 10 a.C. venne romanizzata per volere di Augusto il quale, per l’occasione, fece edificare un altare su cui i rappresentanti delle sessanta civitates galliche avrebbero dovuto rendere onore al princeps: si consacra così il legame tra le tradizioni celtiche e quelle di Roma106. Il legatus Augusti, come si può leggere nel passo in questione, coglie l’occasione per spettacolarizzare lo svolgimento del processo, le esecuzioni, ma anche le abiure. La precisazione che si trova nel testo, cioè che egli ordina la sfilata degli imputati dalle prigioni al tribunale affinché la folla pagana possa goderne come in uno spettacolo (1, 47. 279-281)107, ne è una spia evidente. Una scelta atta a costituire una pressione psicologica sui cristiani per incentivare i renitenti all’abiura, per indurre gli apostati a confermarla e per coinvolgere ulteriormente la popolazione pagana nella condanna dei nemici delle tradizioni ancestrali di Roma. Lo scopo, come detto, è preciso: egli vuole dimostrare che la politica romana è tanto pronta a condannare chi fuoriesce dal mos maiorum quanto disposta a reintegrare chi lo riabbraccia secondo il principio della paenitentiae venia pliniana ribadito dall’epistula di Marco Aurelio.
7.12. Ferma risoluzione anche oltre le leggi nel nome del mos maiorum
Questa strategia si evidenzia ulteriormente in altri due passi del testo. Il primo è quello, già menzionato, del medico Alessandro (1, 48-50)108, condannato dal legatus Augusti con rapidità e ferma decisione a seguito della canonica confessio nominis (1, 50. 302) poiché costui stava spronando alcuni cristiani che avevano rinnegato l’iniziale apostasia (1, 11. 56-59) durante la prigionia (1, 48. 286-290) a non cedere ai tentativi dal funzionario imperiale che tentava, invece, di portarli nuovamente all’abiura nel corso dell’ultimo interrogatorio prima dell’eventuale definitiva condanna capitale (1, 48. 286-290). Il secondo, invece, è quello della particolare esecuzione cui è destinato il civis Attalo. Costui, che a seguito delle disposizioni contenute nell’epistula di Marco Aurelio non abiura, sarebbe destinato teoricamente alla decapitazione. Il legatus Augusti, invece, andando contro la disposizione del princeps, oltrepassa i limiti della Lex Iulia de vi109 e lo condanna ad una fine atroce: bruciare su una sedia di ferro alimentata dal fuoco sotto lo sguardo compiaciuto della popolazione pagana (1, 52. 310 - 314)110. Anche in questo caso, l’agire del funzionario romano è dettato dal preciso disegno di condannare in maniera esemplare coloro che non sono fedeli al mos maiorum. Quale migliore soluzione se non quella adottata in questo caso verso un civis, personaggio talmente di rilievo in città da essere definito – lo si ricordi – «ὀνομαστός» giusto poco prima della sua condanna (1, 43. 257)nonché, in occasione del primo arresto (1, 17. 87-88), colonna portante della comunità cristiana di Pergamo di cui era originario?
7.13. La strategia del legatus Augusti in sintesi
Pertanto
1) Il comportamento di questo legatus Augusti è quello tipico di un funzionario che percepisce il cristianesimo, per lui evidentemente sconosciuto fino a quel momento, come un problema. Non è escluso che, oltre alla connessione tra nomen christianum e flagitia cohaerentia nomini, costui abbia concepito questo pensiero per via dell’inflexibilis obstinatio (Ep. X, 96. 3) che contraddistingue i cristiani restii all’abiura poiché consci di una ricompensa post mortem.
2) Di sicuro egli si mostra scrupoloso e forse curioso nella ricerca delle prove delle accuse infamanti mosse ai cristiani durante il primo interrogatorio e contro le quali si scaglia l’ἐπίσημος Vettio Epagato (1, 9. 43). Ciò lo spinge ad aprire un’inchiesta interrogando gli schiavi (1, 14. 70) e a trattenere in prigione gli apostati in quanto ἀνδροφόνοι et µιαροί, cioè colpevoli di omicidi ed esseri impuri (1, 33. 191-197), fino all’arrivo dell’epistula di Marco Aurelio.
3) Si esclude però che quest’ultima scelta sia stata una maniera per provare a condannare a tutti i costi sia i cives che i provinciales poiché come si legge in 1, 48. 286-290, egli fa il possibile per cercare di fare abiurare nuovamente coloro che avevano, dopo un’iniziale apostasia, riabbracciato la fede. Questo conferma il suo tentativo di avere più apostati che ritornino al mos maiorum che martiri in piena ottemperanza della politica di Traiano e Plinio.
4) In questa ottica si può anche leggere la sua scelta di condannare il civis Attalo ad una morte atroce e non alla decapitazione trasgredendo l’ordine di Marco Aurelio: una morte di una persona nota in città restia all’apostasia sarebbe stata da esempio. Le morti spettacolari cui sono condannati gli altri cristiani provinciales (1, 37-42 e 51-56) ai quali sino alla fine si tenta di estorcere la conferma della pratica dei flagitia rientrano pienamente in questa logica di esempio, di punizione e di denigrazione del cristianesimo.
8. Conclusione
Al termine di questa disamina, è possibile concludere quanto segue per quello che riguarda il rapporto tra cittadinanza romana e l’essere cristiani durante la dinastia antonina, in particolare con Traiano e Marco Aurelio.
Innanzitutto, l’essere christianus implica un distacco, una migrazione ideologica, dalle sue origini giudaiche: le rigetta in nome di un’identità trasversale, non legata ad alcuna unità di popolo politicamente definita, una condizione che permette l’inclusione di Giudei e gentili. A questi ultimi, raggiunti dal messaggio cristiano anche grazie a Paolo di Tarso e a Barnaba, viene evitata la circoncisione, come stabilito nel decreto apostolico del Concilio di Gerusalemme riportato negli Atti degli Apostoli (15:2-29).
Questo testo si rivela determinante per collocare cronologicamente la cesura con le radici giudaiche. Gli studi storico-esegetici di D. Marguerat, infatti, individuano nell’uso dispregiativo del termine ‘giudeo’ un elemento cronologico determinante per situare la redazione degli Atti tra l’80 e il ’90. Questo distacco dalla culla giudaica coincide con un’apertura verso i gentili. Alcuni episodi raccontati ne sono testimonianza eloquente: l’incontro tra l’apostolo Pietro e il centurione della coorte italica di Cesarea Cornelio (10:1-48) e le problematiche seguenti alla nascita della comunità mista (giudaica-gentile) ad Antiochia (11:19-26c), città che, nella II metà del I secolo era, tra l’altro, la terza dell’impero nonché il secondo grande centro della diaspora ebraica. È in questo contesto che, per la prima volta, i facenti parte di questa comunità mista sono chiamati dall’esterno «cristiani» (11:26c) in quanto «sostenitori di Cristo» per distinguerli dai Giudei della Sinagoga locale. A capo di questa neonata composita comunità, agli inizi del II secolo c’è il vescovo Ignazio che, nel corso del viaggio verso Roma dove subì il martirio probabilmente nel 107, conia il termine χριστιανισμὸς (Magnesii 10, 1. 3; Romani 3, 3; Filadelfiesi 6, 1), proprio in opposizione – sostiene E. Norelli – al giudaismo.
Il cristiano, allora, è un cittadino del mondo poiché si adatta ai costumi della realtà politica che lo ospita senza però sposarli ideologicamente poiché egli è innanzitutto un seguace di Cristo anche per via delle persecuzioni che subisce da parte dei Giudei. Una visione che si sviluppa nei capitoli III-IV-V di una testimonianza della prima metà del II secolo, la Lettera a Diogneto, la cui critica al giudaismo non può definirsi isolata poiché essa è presente in un altro testo coevo: la Lettera di Barnaba che, forte dell’auctoritas del nome cui si attribuisce, rivendica addirittura una lettura cristologica dell’Antico Testamento. Una prospettiva che è rinforzata da tre autori della stessa epoca: l’apologeta Tertulliano di Cartagine nell’Apologeticum, Ireneo di Smirne, vescovo di Lione, nell’Adversus Haereses e il filosofo e apologeta Giustino Martire nel Dialogo con Trifone.
Il primo, in VII, 3, asserisce che i cristiani, in quanto portatori di Verità, sono detestati sin dal principio e per questo sono trattati come nemici da combattere, specialmente dai Giudei.
Il secondo, nel libro IV, e il terzo, nei capitoli 11, 12 e 16, puntano il dito contro il rispetto formale – e spesso solo apparente – delle pratiche giudaiche come lo Shabbat o la circoncisione. Queste, è vero, vennero stabilite da Dio con i Patriarchi per creare un legame unico con il popolo ebraico, ma non sono assolutamente essenziali per la salvezza. Difatti, né Abramo né Isacco né Giacobbe – dice Giustino – vennero circoncisi, eppure – sostiene Ireneo – tutti costoro, come anche i Patriarchi vissuti prima di loro, ebbero la vita eterna in beatitudine. Per questo, i cristiani della «Grande Chiesa», cioè coloro che sposano l’ortodossia, non sono circoncisi e non praticano lo Shabbat. Inoltre, per Ireneo (libro V), come ricordano gli studi di A. Orbe, i Giudei hanno la grande responsabilità di non aver riconosciuto in Gesù il Messia tanto atteso in quanto giunto con umiltà. Il vescovo di Lione, a tal proposito, si dimostra molto cinico: citando Geremia (8:16) prima e l’Apocalisse (7:5-8) dice che l’Anticristo nascerà dalla Tribù di Dan, la sola a non salvarsi durante il Giudizio Universale e poi che costui, sfruttando la credulità dei Giudei, li convincerà di essere il Messia poiché si mostrerà loro per come se lo immaginano, cioè con lo sfarzo di un re potente che possa realizzare – come sostiene un autore di poco posteriore a Ireneo, Ippolito di Roma, – le aspettative politiche della Sinagoga. In conclusione, Giustino e Ireneo conferiscono al cristianesimo, religione monoteista ed esclusivista, il ruolo di vero e unico erede dell’ebraismo, una sorta di puzzle più o meno uniforme delle utopie teocratiche gerosolimitane formatosi a seguito della nascita del primo nucleo della diaspora dopo la cattività babilonese (597-587 a.C.).
In questa veste di rottura col giudaismo, di apertura ai gentili e grazie anche ai viaggi di Paolo di Tarso, il cristianesimo effettua la sua migrazione fisica in tutto l’impero per diffondersi presso i cives. Qui si consuma un altro e più sanguinoso scontro, quello con le istituzioni romane, o meglio col mos maiorum. Per l’autorità romana, infatti, l’essere christianus, fedele di un monoteismo esclusivista, è incompatibile, anzi ossimorico, con l’essere civis, identità quest’ultima che fino al 212, anno della Constituitio Antoniniana, era un privilegio. I cives, infatti, sono i rappresentanti delle tradizioni dei padri, il mos maiorum, che non vieta l’integrazione del culto straniero, a patto però che questo non neghi la funzione politeista della religione romana strettamente legata al potere e alla figura del princeps. Una visione non accettata dagli apologeti cristiani del II secolo che, dal canto loro, difendono la loro posizione, manifesto, senza dubbio, di un desiderio di integrazione nel mondo romano: per loro, infatti, non abiurare il nomen e il non adempiere ai formalismi rituali non sarebbe incompatibile con la chiara fedeltà mostrata al princeps. Il II secolo, infatti, è il momento in cui si data il primo provvedimento contro il cristianesimo: le disposizioni di Plinio e Traiano, infatti, sono stabilite in una data oscillante tra il 109 e il 113 (Epistula X, 96 ed Epistula ad Plinium X, 97). Esse, che saranno seguite anche da Marco Aurelio, si pongono come obiettivo quello di salvaguardare il mos maiorum non attraverso una persecuzione d’ufficio, ma con processi di stampo accusatorio al fine di avere, in generale, apostati e non martiri. È una legislazione che è ben lungi – come invece vorrebbe far credere Tertulliano nell’Apologeticum – dall’essere confusa (II, 8) o addirittura protettiva (V, 7). Al contrario, si rivela mirata al fine di colpire solo e soltanto i veri cristiani renitenti all’abiura. Per dare origine all’istruttoria è necessaria, infatti, una denuncia formale del reo supportata da prove e dalla confessione di quest’ultimo. Al civis, in virtù del suo status, è concessa la provocatio ad Cesarem. Il capo d’accusa è uno ed uno soltanto, il nomen christianum, che in realtà è motivo di pessima fama: l’appartenenza al cristianesimo, infatti, rende automaticamente responsabili dei cosiddetti flagitia cohaerentia nomini.
Quindi i cristiani – esattamente come i clandestini oggi secondo la concezione più dispregiativa del termine – sono percepiti come un corpo estraneo nella società, addirittura pericolosi, e per questo diventano oggetto delle malversazioni del popolo pagano. Lo mostrano chiaramente diversi documenti redatti tra il 153 circa e il 176 circa: l’Apologia di Giustino Martire ad Antonino Pio e ai suoi figli adottivi, Marco Aurelio e Lucio Vero (tra il 153 e il 155), il Martyrium Polycarpi (tra il 155 e il 177), l’orazione contro i cristiani di Marco Cornelio Frontone (tra il 162 e il 164) riportata da Minucio Felice (Octavius IX, 6 e XXXI, 1), gli stralci dell’Apologia di Melitone a Marco Aurelio del 175 circa (apud Eusebius, Historia Ecclesiastica IV, 26), la Legatio pro christianis di Atenagora, vescovo di Atene, recapitata probabilmente alla fine dell’estate del 176 a Marco Aurelio e al figlio Commodo durante il loro soggiorno ad Atene e infine, il Martyrium Lugdunensium (apud Eus., H.E. V, 1-2) le cui vicende sarebbero collocabili più verosimilmente nel 176 e non nel 177 come asserisce Eusebio (Praefatio H.E. V) per via della menzione sia da parte di quest’ultimo che del Martyrium Lugdunensis di un solo princeps.
Quest’ultimo testo si rivela d’importanza capitale per comprendere le dinamiche dell’epoca tra pagani, cristiani e istituzioni: spoglio di qualunque elemento meraviglioso, tipico della successiva letteratura agiografica, ed accurato nella ricerca terminologica delle cariche pubbliche dei diversi funzionari imperiali, è il risultato di una raccolta anonima delle testimonianze dirette dei cristiani non inquisiti e dunque sopravvissuti alle esecuzioni avvenute a Lione probabilmente nel 176. In virtù di ciò, appare difficile poterne assegnare la paternità a Ireneo che, tra l’altro, non risulta mai nominato negli estratti del Martyrium Lugdunensium conservati da Eusebio.
Quello che resta del documento permette di delineare un quadro ben preciso e di ricostruire tutte le fasi processuali a carico dei cristiani. Costoro – almeno quelli accusati formalmente – sono vittime di ogni tipo di vessazione: denigrati ed esclusi dai luoghi pubblici per la loro terribile fama, sono portati davanti alle autorità cittadine che redigono un elogium, un vero e proprio rapporto di polizia contenente la notitia criminis, trasmesso poi al legatus Augusti pro praetore della Gallia Lugdunensis la cui identità ad oggi resta sconosciuta. Costui denuncia una certa ignorantia iuris sull’argomento a causa, molto probabilmente, dell’assenza del De officio proconsulis che sarà redatto solo più tardi, nel III secolo, da Ulpiano. In esso, infatti, e in particolare nel VII libro – accogliendo le affermazioni del retore cristiano Lattanzio –, erano contenute le disposizioni anticristiane. Una ignorantia iuris che tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto da diversi studiosi, comporta l’inizio non già di una ricerca d’ufficio a danno dei cristiani, ma di un’indagine per comprendere il rapporto tra il nomen christianum e i flagitia (1, 14. 70). Anche per questo egli trattiene in prigione, secondo il principio della cognitio custoriarum, tutti gli accusati anche coloro i quali che nel corso di un primo processo, circa una decina, avevano abiurato (1, 11. 56-59). Tra questi si annoverano alcuni cives che, appellandosi al giudizio Marco Aurelio tramite la provocatio, obbligano il legato a redigere un’epistula per sapere come comportarsi con loro (1, 44. 261-263). Gli studi effettuati permettono di datare l’arrivo della risposta del princeps in concomitanza con l’antica festa celtica del Lugnasad (o ‘delle Tre Gallie’) in onore del dio Lug – molto sentita dalle popolazioni galliche – il I agosto. Questa diventa l’occasione per ribadire la linea di principio di Marco Aurelio e sposata anche dal legato: spettacolarizzare la liberazione di eventuali apostati e le condanne a morte di quei cristiani – alcuni provinciales non uccisi nel corso di altri munera antecedenti alla spedizione della missiva (1, 38 – 1, 42) più quelli non strangolati in prigione (1, 59. 350) e i cives – che continuassero a essere renitenti all’abiura. Questi ultimi, in particolare, in virtù del loro status sono soggetti a una morte meno violenta attraverso la decapitazione, come stabilito dal princeps (1, 47. 276). Il legato segue alla lettera quanto detto da Marco Aurelio, fatto salvo per un caso ‘eccezionale’: il testo riporta, infatti, una voluta trasgressione da parte del legato della Lex Iulia de vi la quale, probabilmente dall’epoca augustea, sancisce i limiti dell’imperium del governatore provinciale sui cives. Il legato, infatti, condanna Attalo, un civis particolarmente noto in città, a bruciare su una sedia di ferro in arena sotto lo sguardo della folla (1, 52. 310 - 314). Una violazione che si può interpretare come atto di estrema salvaguardia del mos maiorum: fornire una punizione esemplare che sia di monito per tutti.
Non tutti i cives christiani accusati però trovano la morte: alcuni di loro, infatti, seguendo il volere di Marco Aurelio rinnovano l’abiura (1, 48. 288-289) e sono così riaccolti, idealmente, come difensori del mos maiorum. Costoro però, da questo momento in poi, non possono più definirsi christiani ed anzi vengono additati come uomini che infangano il nomen (1, 48. 290). Per questi motivi, un civis romanus che si fosse convertito al cristianesimo sarebbe stato costretto a vivere come un clandestinus in patria.