Identità nazionale e argomentazione nel discorso politico

  • National Identity and Argumentation in Political Discourse

Résumés

L'articolo si occupa della identità nazionale distinguendo tra nazione come cittadinanza e nazione come identità-differenza, ed esamina le argomentazioni per la sicurezza nazionale nell'Atto finale della Conferenza di Helsinki (1975), nel Documento della Casa Bianca del 2002 intitolato «The National Security Strategy of the United States of America» e nella Costituzione Europea.

L'article traite de l'identité nationale en distinguant entre la nationalité entendue comme citoyenneté et la nationalité entendue comme identité-différence. Il analyse ensuite l'argumentation en faveur de la sécurité nationale exposée dans l'Acte final de la Conférence d'Helsinki (1975), ainsi que dans le document de la Maison Blanche de 2002 intitulé: «The National Security Strategy of the United States of America» et dans le texte de la Constitition européenne.

Plan

Texte

1. La ‘nazione’ come cittadinanza e come identità-differenza

La nazione è una delle astrazioni-concrete in cui si realizza l’identità comunitaria. In quanto categoria dell’identià la nazione è anche categoria della differenza. Ciò dà luogo all’ambivalenza del termine ‘nazione’, a una sua duplice accezione. Indicheremo le due accezioni, separabili solo per motivi di analisi, ma nella realtà ambiguamente connesse, con (a) la nazione come cittadinanza, e (b) la nazione come identità-differenza. Da una parte, (a), l’accezione essenzialmente politica, espressa nell’illuminismo e nella rivoluzione francese: la nazione è la comunità dei cittadini, è lo Stato in cui si esercita la sovranità del popolo; dall’altra, (b) l’accezione etnico-linguistica, maturata nel romanticismo, per cui una nazione si differenzia per razza, sangue, lingua, religione, ecc. dalle altre nazioni. Nelle due accezioni muta il modo in cui è concepita l’origine stessa della nazione. Nel primo caso l’origine è politico-giuridico-economica e dunque si riconosce questa identità per quella che è, cioè un prodotto storico-sociale. Nel secondo caso, invece, la sua origine è considerata come naturale, e benché vi intervengano, oltre a fattori ‘naturali’ come il sangue e il suolo, anche fattori storico-sociali, come la lingua e le tradizioni culturali, questi ultimi sono ipostatizzati e concepiti metafisicamente come naturali (è sintomatica l’espressione, anche nel linguaggio comune, ‘lingue naturali’, usata in senso assoluto e non relativamente a lingue o linguaggi ‘artificiali’) e ad ogni modo come naturalmente determinanti la differenza nazionale.

Come cittadinanza, la nazione è lo Stato in cui si esercita la sovranità del popolo, o semplicemente lo Stato territoriale, nel caso in cui il popolo-nazione non eserciti la propria sovranità. In ogni caso è una comunità riconosciuta nel suo carattere storico-sociale. Come identità-differenza, la nazione è una comunità naturale che trova espressione, o non trova espressione, nello Stato.

Come Stato, come popolo, come comunità di cittadini, la nazione è un’entità giuridica positiva. Come ‘comunità naturale’, la nazione fa parte di una visione giusnaturalista, in base alla quale, appellandosi a caratteristiche naturali comuni che differenzierebbero una ‘nazione’ dalle altre, si fanno valere i ‘diritti naturali’ della propria identità-differenza.

Rispetto alla nazione come identità positiva coincidente con lo Stato, la nazione come differenza naturale si connota come ‘nazionalità’: come identità-differenza naturale, la ‘nazionalità’ è antecedente alla costituzione dello Stato-nazione, e può non coincidere con esso fino a risultare ‘nazionalità minoritaria’ o ‘nazionalità oppressa’ all’interno dello Stato nazione.

Il carattere contestativo, eversivo nei confronti degli Stati esistenti, che è inerente alla nazione come identità-differenza, nella sua accezione ‘etnico-linguistica’, giusnaturalistica, spiega perché quest’accezione divenga trainante rispetto all’altra, quella politica, nei momenti di trasformazione della realtà storica (v. la fase di ‘ascesa della borghesia’, o il movimento anticolonialista e antimperialista in Asia e in Africa) ed entri invece in contrasto con essa quando gli interessi di conservazione delle identità statali realizzate prevalgano sui diritti delle differenze.

Ma l’accezione di nazione come differenza naturale, di sangue, lingua, cultura, suolo, si presta anche, data l’indissolubilità di identità e differenza, al rafforzamento della nazione come identità politica reale e quindi, in nome di essa, alla repressione – e soppressione, genocidio – delle nazionalità da essa ‘naturalmente’ differenti (nazionalismo, fascismo, nazismo). Non ci sono limiti di ordine spaziale nell’uso che l’identità politica nazionale – a seconda degli interessi politici ed economici – può fare della differenza etnico-linguistica nazionale: può impiegarla per ampliare il proprio territorio con una politica di annessioni (annessione dell’Austria alla Germania nazista), oppure per frammentare una precedente organizzazione politica (v. Iugoslavia, ex Urss, Cecoslovacchia) in diverse comunità nazionali, che, in certi casi, più che Stati nazionali (anche per la loro subalternità al controllo da parte dei paesi capitalistici più forti) possono essere considerati ‘Stati regionali’

Alla logica della identità sviluppata fino alle ultime conseguenze appartiene anche l’idea dello Stato monoetnico, dello Stato etnicamente puro. Uno Stato monoetnico non si è mai visto, ma tale idea viene prodotta e fatta circolare nell’attuale sistema di comunicazione-produzione, perché la frammentazione in Stati ‘monoetnici’ gioca a favore dell’imperialismo dell’economia capitalistica (divide et impera), realizzando insperati spazi al neocolonialismo e alla esportazione della guerra. Questo fantasma dello Stato monoetnico ha, sotto questo aspetto, la stessa funzione che svolge quello del ‘libero mercato’. Anche questo è fatto aleggiare come qualcosa di effettivamente esistente e anzi come il segreto dello sviluppo. In un’epoca di multinazionali, di capitale transnazionale, di ingerenza dello Stato nella produzione e nel mercato, al libero mercato, non corrisponde niente di reale.

2. Le argomentazioni per la sicurezza nazionale

La ‘Guerra del Golfo’ del 1991 segnò un decisivo cambiamento a livello mondiale circa l’idea e la pratica della guerra, che da quel momento in poi fu fatta circolare nel circuito della comunicazione-produzione mondiale, come ‘giusta e necessaria’, come ‘azione di polizia’, e persino come ‘operazione umanitaria’. Invece, l’Atto finale della Conferenza di Helsinki del 1975 considerò la guerra come un assolutamente inammissibile mezzo di risoluzione dei contrasti internazionali. Non ci sono assolutamente giustificazioni – dice L’Atto finale Helsinki – per la guerra, non solo per quanto concerne li Stati partecipanti alla Conferenza, ma anche nei confronti degli altri Stati del mondo.

Proponiamo di considerare en passant due documenti: il Final Act of the Conference on Security and Co-operation in Europe (1° agosto 1975) e il già menzionato National Security Strategy of the United States of America (17 settembre 2002). Certo, questi documenti differiscono negli obiettivi. Sono anche differenti per genere di discorso, essendo l’uno un progetto di cooperazione internazionale, l’altro un progetto nazionale di difesa. Ma qui ciò che ci interessa è compararli in riferimento alla questione dei rapporti internazionali, alla questione della pace e della guerra. Possiamo subito notare che la parola security appare sia nel titolo della conferenza di Helsinki sia nel documento sulla strategia di difesa degli Stati Uniti: possiamo comparare i differenti mezzi proposti da ciascuno di essi per la sicurezza (ma la differenza concerne anche i concetti di libertà, nazione, cooperazione e diritto internazionale). Come abbiamo detto nell’Atto finale di Helsinki la guerra è considerata come un inammissibile mezzo per risolvere i contrasti internazionali e per ottenere la sicurezza. Al contrario, nel documento sulla strategia di difesa degli Stati Uniti la guerra è considerata come il mezzo più efficace se non addirittura l’unico possibile per entrambe le cose.

La dichiarazione dell’ Atto finale di Helsinki – che fu sottoscritto dagli Stati europei dell’epoca, dall’Unione Sovietica, dagli Stati Uniti d’America, dal Canada, dalla Turchia – è ormai divenuta lettera morta sia nel testo della Costituzione europea (v. Ponzio 2006) sia nella realtà della politica internazionale. Nella nuova Costituzione europea, la pace non è uno dei principi guida della politica estera della Unione Europea ma uno dei suoi obiettivi, il quale può essere ottenuto anche per mezzo della guerra. Nel testo della Costituzione europea non vi è il ripudio della guerra, che, invece, è il principio fondamentale dell’Atto finale di Helsinki e della Costituzione italiana (art. 11). Nella «Dichiarazione sui Principi che reggono le relazioni fra gli Stati partecipanti» dell’Atto finale di Helsinki possiamo leggere:

Gli Stati partecipanti si astengono nelle loro relazioni reciproche, nonché nelle loro relazioni internazionali in generale, dalla minaccia e dall’uso della forza […]. Nessuna considerazione potrà essere invocata per servire da giustificazione al ricorso alla minaccia o all’uso della forza in violazione di questo principio.

Al contrario, secondo l’articolo III-309 della Costituzione europea, la pace può essere interrotta da missioni militari:

le missioni umanitarie e di soccorso, le missioni di consulenza e assistenza in materia militare, le missioni di prevenzione dei conflitti e di mantenimento della pace e le missioni di unità di combattimento per la gestione delle crisi, comprese le missioni tese al ristabilimento della pace e le operazioni di stabilizzazione al termine dei conflitti.

Tutto ciò trova la sua giustificazione anche nella lotta al terrorismo cui tutte queste missioni possono contribuire, ‘anche tramite il sostegno a paesi terzi per combattere il terrorismo nel loro territorio’.

Le missioni militari fuori dall’Unione sono intese come missioni per la prevenzione dei conflitti, l’ottenimento della pace e il rafforzamento della sicurezza internazionale. Per la prevenzione dei conflitti e l’ottenimento della pace l’Unione intende provvedere con la capacità operativa assicurata da un adeguato armamento. ‘Gli Stati membri si impegnano a migliorare progressivamente le loro capacità militari’ (I-41, 3). L’istituzione di un’Agenzia nel settore dello sviluppo delle capacità di difesa, nella ricerca e nell’acquisizione degli armamenti (Defence Agency) è prevista dall’Articolo I-41(3) L’’Agenzia europea per la difesa’ è incaricata a individuare le esigenze operative, a ricercare e mettere in atto qualsiasi misura utile a rafforzare la base industriale e tecnologica del potenziale e ad assistere il Consiglio europeo nel valutazione del miglioramento di tale potenziale; invece il Parlamento europeo ha so una funzione consultiva. Il Consiglio europeo è demandato ad adottare decisioni in merito alle procedure per amministrare il fondo comune per le spedizioni militari (v. III-313, 3). La politica dell’Unione concernente la difesa militare e la sicurezza:

rispetta gli obblighi derivanti dal trattato del North Atlantic Treaty Organisation (NATO) per alcuni Stati membri che ritengono che la loro difesa commune si realizzi tramite l’Organizzazione del trattato del Nord-Atlantico, ed è compatibile con la politica comune di sicurezza e di difesa adottata in tale contesto’(I-41, 2).

Gli interessi comuni che la nuova Costituzione intende salvaguardare sono quelli che riguardano la struttura del nuovo ordine mondiale che è vitale per il cosiddetto libero mercato e per la riproduzione della comunicazione-produzione globale. Un primario interesse comune è quello di assicurare lo spazio di svolgimento dello ‘sviluppo’ e della ‘competitività’. Si comprende così la subalternità alla vecchia NATO da parte della giovane Unione Europea e l’’inevitabilità’ della partecipazione di quest’ultima alle guerre degli Stati Uniti, dentro alla stessa Europa come nel caso del ‘disastro umanitario’ in Kosovo, e fuori, come nel caso dell’Afghanistan, e la necessità di ‘ricucire al più presto gli strappi’ prodottisi con l’ultimo episodio della ‘guerra infinita’ o ‘guerra preventiva’, cioè l’attacco all’Iraq motivata dalla presenza di ‘armi di distruzione di massa’.

In questo contesto di interessi, la pace non è un valore in sé e un fondamentale diritto di ciascun individuo e di ciascun popolo. Al contrario, troviamo qui l’ideologia della necessità della guerra preventiva , che ha la sua esplicita formulazione in «The National Security Strategy of the United States of America» del 2002: «Riteniamo che la migliore difesa sia una buona offesa» (III). «Non permetteremo ai nostri nemici di sparare per primi» (V). Il concetto di guerra preventiva consiste nell’abbattere il ‘nemico’ e nel verificare dopo se effettivamente era armato (nella guerra preventiva del 2003 contro l’Iraq, le ‘armi di distruzione di massa’ non sono state trovate). Nel documento del 2002, si dice gli Stati Uniti confidano nel rispetto da parte dei contraenti del trattato NATO e sul contributo militare degli Stati che ne fanno parte; e come abbiamo visto, la Costituzione europea conferma tale fiducia.

A tale proposito bisogna tener conto del cambiamento intervenuto nel frattempo nella finalità della Nato. Nella Conference di Washington del 1999 la North Atlantic Treaty Organisation, che era un’alleanza difensiva e divenuta un’alleanza offensiva; precisamente, essa è divenuta un mezzo per affermare gli interessi economici degli Stati membri, ovunque essi siano minacciati. Il carattere aggressivo ha trovato conferma nella successiva Conferenza di Praga, dove, contro qualsiasi forma di verifica democratica, la Nato ha accettato la strategia dell’attacco preventivo.

3. Sicurezza, cooperazione, pace e coinvolgimento nella vita degli altri

L’argomentazione basata sulla connessione tra sicurezza, cooperazione e pace, da una parte, e coinvolgimento con l’altro, coinvolgimento nella vita altrui, è assente nella Costituzione europea. Invece è parte centrale dell’Atto finale della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Helsinki 1975) a cui abbiamo fatto riferimento e di cui qui ci occuperemo in maniera più dettagliata.

Cominciamo con alcune considerazioni sul concetto di ‘sicurezza’, che, come abbiamo visto è impiegato, anche nel documento del settembre del 2002 emesso dalla Casa Bianca.

Nel rapporto con altro la sicurezza è una esigenza dell’identità, individuale o collettiva. La sicurezza è collegata con l’affermazione, la conferma, il riconoscimento della propria identità, con l’assicurazione del posto, del ruolo nell’essere, del diritto ad essere, dell’inter-esse, della stabilità e tranquillità nell’essere, del conatus essendi. Sicurezza significa anche essere in pace con gli altri e con se stessi, avere la coscienza in pace, godere di ‘buona coscienza’. L’identità è riconosciuta, confermata, assicurata, stabilizzata, pacificata. La sicurezza contribuisce a garantire l’identità. Da che cosa? Dall’alterità di sé, e da sé. Ma il rapporto con l’altro in quanto altro non può essere garantito.

L’Atto finale di Helsinki fu sottoscritto da parte di trentatre stati partecipanti dell’Europa, e dall’Urss, dagli USA e dal Canada, al punto da essere unanimemente considerato una pietra miliare della collaborazione tra Est e Ovest. Ciò lo rende particolarmente interessante se conveniamo che la questione della costituzione dell’Europa deve essere vista nel quadro della politica mondiale.

L’importanza che può essere attribuita a questa Conferenza, in quella prospettiva che Kant avrebbe chiamato ‘cosmica’ è testimoniata dal fatto che dal 1984 al 1989 l’European Coordination Centre for Research and Documentation in Social Science (Vienna), per iniziativa del filosofo polacco Adam Schaff, allora presidente onorario dell’European Coordination Centre, promosse una serie di incontri tenutisi in luoghi diversi dell’Europa sul tema ‘un’analisi semiotica dell’Atto finale di Helsinki’ (Budapest, Praga, Trieste, Mosca, Pécs, Dubrovnik, Lipsia, Sofia, Rotterdam).

L’Atto finale di Helsinki è andato sempre più perdendo, sul piano Europeo e mondiale, soprattutto negli anni Novanta, il suo valore paradigmatico. Alle cause esterne di questo processo, che come abbiamo detto ha il suo momento ‘catastrofico’ nel 1991 con l’inizio della Guerra del Golfo, tutt’ora in corso, abbiamo accennato. Nelle analisi che seguono, invece, ci interessa individuare quali possano essere state le cause interne che ne hanno determinato l’accantonamento. Queste cause interne vanno ricercate nei suoi luoghi argomentativi, nei suoi concetti e nelle sue categorie. Evidenziarle significa approfondire il carattere ‘aporetico’ (Balibar 2006) della costituzione dell’Europa di cui parla.

Salvaguardia dei diritti delle differenze e cooperazione reciproca dei popoli degli Stati partecipanti per assicurare le condizioni per le quali essi possano godere una ‘vera e duratura pace’: sono questi i due punti basilari della Conferenza di Helsinki. Essi riconducono il concetto di nazione alla sua origine politica ed economico-politica (e non etnica) facendolo coincidere con quello di Stato-nazione come identità economico-politica e in cui si esercita la sovranità del popolo nazionale. Al tempo stesso essi tengono conto della nazione come identità-differenza sia a) in quanto alterità reciproca, cioè in quanto diversità di ‘sistemi poilitici, economici e sociali ‘, nonché di ‘dimensione, localizzazione geografica o livello di viluppo economico’ – differenza che non deve impedire la reciproca collaborazione e ostacolare il reciproco rispetto –; sia b) in quanto eventuale presenza di ‘minoranze nazionali’ che compongono lo Stato-nazione. Il territorio non identifica in quanto tale e in modo naturale lo Stato-nazione; e mentre gli Stati partecipanti concordano nel rispetto reciproco della ‘integrità territoriale di ciascuno degli Stati partecipanti ‘, essi concordano anche che ‘le loro frontiere possono essere mutate, in conformità a diritto internazionale, con mezzi pacifici e mediante accordo’.

L’intero testo dell’Atto finale di Helsinki si organizza come un imperativo ipotetico (‘se vuoi... allora…’) in cui il fine è il miglioramento del benessere dei popoli a livello mondiale. E non si tratta soltanto del benessere degli Stati partecipanti. Le condizioni di tale benessere sono la realizzazione della pace, della comprensione reciproca, della eguaglianza, della giustizia, della conoscenza reciproca, della reciproca responsabilità e solidarietà fra i popoli.

L’Atto finale di Helsinki, anziché marcare la differenza fra le identità nazionali, ne marca, considerandole come Stati e come popoli, l’’eguaglianza sovrana’ e ne evidenzia la necessità di rapporti reciproci di non-indifferenza. Se si interessa della differenza nazionale, questa riguarda le minoranze nazionali interne agli Stati, rispetto alle quali richiede da parte dei rispettivi Stati, anche in questo caso, rapporti di non-indifferenza, salvaguardandone, attraverso l’impegno comune, i diritti e riconoscendone l’eguaglianza giuridica rispetto al resto del popolo nazionale.

L’alterità rispetto all’identità statale nazionale è dunque vista come differenza che non solo non è contrasto e contrapposizione ma è anche non-indifferente rispetto alle altre identità, sia nel senso che non vengono trascurate le differenze o cancellandole nella comune identità, sia nel senso si stabiliscono rapporti di cooperazione e aiuto reciproco fra gli altri Stati, sulla base di una reciproca responsabilità.

Ma, se si osserva bene, il rapporto di alterità oscilla nel testo soprattutto fra:

  1. un rapporto di reciprocità convenzionale, stabilito fra entità autosufficienti che assumono determinati impegni reciproci per libera scelta, secondo un’ideologia del patto, della sottoscrizione volontaria di un trattato;
  2. un rapporto di assimilazione dell’altro tramite la ricerca delle condizioni della cooperazione nella storia comune, in un comune passato, nell’esistenza di elementi comuni di tradizioni e valori: è l’ideologia che sottende anche l’identità nazionale come etnia, l’ideologia della possibilità di unione e comprensione fra appartenenti a una stessa storia, a una stessa tradizione, a una stesa cultura. Di conseguenza, le aperture all’intesa e alla cooperazione mondiali, pure presenti nell’Atto Finale della Conferenza Helsinki, non trovano più giustificazione.

Nel’Atto finale di Helsinki c’è però anche un terzo senso del rapporto di alterità fra gli Stati-nazione, e consiste nel ritenere che

3) tale rapporto è un rapporto di compromissione non scelto, di solidarietà non decisa, di responsabilità necessaria e subita, in conseguenza a) dell’interdipendenza economica mondiale; b) del livello raggiunto dallo sviluppo tecnologico, che comporta l’impossibilità di circoscrizione territoriale dell’inquinamento, del pericolo della radioattività, dell’effetto-serra, ecc., come pure la non-circoscrivibilità territoriale dei nuovi bisogni prodotti dalla tecnologia con il conseguente incremento della diseguaglianza fra sviluppo e sottosviluppo; c) dell’inseparabilità della sicurezza e benessere di una parte del mondo (l’Europa, l’Occidente, il Nord del Mondo) dalla sicurezza e benessere di tutto il resto: l’impossibilità di miglioramento delle condizioni di vita dei popoli e di protezione e miglioramento dell’ambiente senza la cooperazione internazionale (interstatale).

Secondo questo terzo senso, il rapporto di alterità come differenza non-indifferente fra le identità nazionali è indipendente da rapporti di reciprocità stabiliti da un patto, da una convenzione e dall’assimilabilità all’interno di un passato di tradizioni comuni. Malgrado la loro differenza ed estraneità, compresa l’eventuale estraneità di qualcuno degli Stati alla relazione pattuita, sancita da una convenzione o da un trattato, sussiste fra di essi e fra i loro popoli un rapporto di solidarietà subita, per il quale non ci sono identità autosufficienti e tali che non siano coinvolte – anche senza che lo abbiano deciso – nella situazione e nel destino delle altre identità (v. Ponzio 2007).

Il testo della Conferenza va in quest’ultima direzione quando, per esempio, riconosce:

  • l’indivisibilità della sicurezza in Europa e del mondo intero, indipendentemente da ogni patto, da ogni trattato;
  • l’inscindibilità di protezione dell’ambiente e cooperazione internazionale;
  • la dipendenza della pace in Europa dalla pace nel mondo, al punto che i princìpi che, sotto questo riguardo, reggono le relazioni fra gli Stati partecipanti, ivi compreso quello di non ricorrere in nessun caso alla forza e che nessuna giustificazione può essere invocata per il ricorso alla minaccia o all’uso della forza, vengono considerati validi, nel testo anche nei confronti degli Stati non partecipanti.

Secondo il terzo senso della cooperazione e della realizzazione della pace, ‘l’obiettivo di promuovere relazioni migliori tra Stati’ fa da termine medio, cioè rientra nella premessa minore, di un’inferenza in cui nella premessa maggiore si trova ‘la pace mondiale, la sicurezza mondiale, la sicurezza e il benessere per tutti i popoli’, e che è così rappresentabile:

Premessa maggiore: Gli stati partecipanti mirano alla pace, alla sicurezza e al benessere per tutti i popoli;

Premessa minore: Ma data l’indivisibilità della sicurezza in Europa e dato il collegamento stretto tra pace e sicurezza in Europa e nel mondo nella sua totalità, non vi può essere pace, sicurezza e benessere senza miglioramento delle reciproche relazioni degli Stati (partecipanti e non);

Conclusione: Dunque bisogna promuovere il miglioramento delle reciproche relazioni fra gli Stati (partecipanti e non).

Tutta l’argomentazione si basa sulla concezione (espressa dalla premessa minore) della compromissione, della responsabilità non pattuita e dell’inevitabile solidarietà – della necessaria non-indifferenza – nei confronti dell’altro.

Ma con questo tipo di argomentazione interferiscono gli altri due sensi sopra indicati della cooperazione e della reciproca responsabilità, cioè quello che le fa derivare da un patto, considerandole come assunte per libera decisione da parte di entità autonome e autosufficienti; e quello che per sostenerle fa appello a tradizioni comuni, a un comune passato, a una comune patrimonio di valori. Secondo quest’ultimo senso la possibilità del miglioramento delle reciproche relazioni fra gli Stati viene fatta dipendere dalla loro storia comune e dal riconoscimento dell’esistenza di elementi comuni delle loro storie tradizioni.

Per il primo tipo di argomentazione, la responsabilità è una responsabilità limitata alla sottoscrizione di un accordo che presuppone la libera scelta dell’obiettivo di realizzare la pace mondiale, la sicurezza e il benessere dei popoli. Per il secondo tipo di argomentazione la reciproca responsabilità fra gli Stati è dovuta alla riconducibilità a elementi comune ritrovabili nel loro passato, nella loro tradizione nella loro storia. È lo stesso tipo di argomentazione su cui si fonda l’idea di nazione come differenza etnica, benché, come abbiamo visto l’Atto finale se ne discosti concependo gli Stati come identità politico-economiche.

Entrambe queste due concezioni della reciproca responsabilità interferiscono con la quella della responsabilità non identitaria, senza scappatoie, senza alibi che coinvolge ed espone in maniera totale, responsabilità a cui pure il testo di Helsinki si richiama.

Come conseguenza della mancata concentrazione sul terzo senso del rapporto di alterità fra le identità nazionali e dunque sul terzo tipo di argomentazione, l’Atto finale di Helsinki trascura di approfondire l’analisi e la dimostrazione delle ragioni della cooperazione internazionale, del miglioramento delle relazioni anche con gli Stati non partecipanti. L’obiettivo della pace e della cooperazione a livello mondiale non viene pienamente giustificato. E il testo della Conferenza di Helsinki finisce con l’essere una sorta di elenco di buone intenzioni. In tal modo perde la propria forza argomentativa e la possibilità di una reale incidenza sulla politica internazionale, come di fatto è risultato sempre di più a partire dalla guerra del Golfo del 1991 ad oggi.

Per chi come noi intende discutere la questione della ‘costituzione dell’Europa’non in termini tecnici, giuridici o politologici, ma in termini di ‘ragionevolezza ‘ (l’uomo da animale razionale deve al più presto mutarsi in animale ragionevole, pena la distruzione dell’intero pianeta), ovvero in quella prospettiva che Balibar (2006), richiamandosi a Kant, critico della Ragione, chiama prospettiva ‘cosmica’, e quindi deve riflettere sulle argomentazioni che effettivamente possano stare fondamento della costituzione dell’Europa nell’attuale forma capitalistica della comunicazione-produzione globale, è imprescindibile non perdere di vista quel momento importante per l’Europa costituito dalla Conferenza di Helsinki e i motivi interni ed esterni che ne hanno determinato il fallimento.

Bibliographie

Riferimenti bibliografici

Balibar, Etienne (2006). «Sur la constitution de l’Europe. Crise et vitualité», in: Cingali, Salvatore, Ed. Europa Cittadinanza Confini. Dialogando con Etienne Balibar (= Centopassi; 8), Lecce: Pensa Multimedia, 25-40.

Ponzio, Augusto, (2006) «Political ideology and the language of the European constitution», Semiotica. Special issue Political Semiotics, ed. Bernard Lamizet, 159 – 1/ 4, 261-263

Ponzio, Augusto (2007). Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico (= Meltemi.edu; 83), Roma, Meltemi.

Citer cet article

Référence électronique

Augusto Ponzio, « Identità nazionale e argomentazione nel discorso politico », Textes et contextes [En ligne], 2 | 2008, publié le 01 décembre 2008 et consulté le 29 mars 2024. Droits d'auteur : Licence CC BY 4.0. URL : http://preo.u-bourgogne.fr/textesetcontextes/index.php?id=145

Auteur

Augusto Ponzio

Dipartimento di Pratiche linguistiche e analisi di testi, Facoltà di lingue e letterature straniere, Via Garruba 6, 70122 Bari (Italia), Dipartimento di Pratiche linguistiche e analisi di testi, Facoltà di lingue e letterature straniere, Via Garruba 6, 70122 Bari (Italia)

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