Riassunto della fiaba
Un Re ficcanaso esaudisce il desiderio espresso da tre sorelle popolane di sposarsi : allorché le prime due ambiscono a nozze con un domestico della corte reale – il vinaio e il fornaio – in cambio di una gran quantità di vino e di pane, la minore, che è anche la più bella, si auspica di sposare il Re in persona, promettendogli una discendenza dalle doti fisiche meravigliose, due figli maschi dai capelli d'oro e una figlia che, oltre la capigliatura aurea, sarebbe stata dotata di una stella in fronte.
La celebrazione delle nozze reali e la concretizzazione della promessa fatta dalla sorella minore suscita presso le due sorelle un vivo sentimento di gelosia che le induce, in assenza del Re, a sostituire ogni neonato con un animale e ad affidare i bambini alla vecchia Menga affinché li anneghi, dopo aver murata viva la loro madre. Ma il piano fallisce: trovati da un barcaiolo, i bambini vengono da lui allevati grazie ai proventi che gli procura la vendita di alcune ciocche dei loro capelli, con cui potrà anche far costruire un palazzo per loro, situato di fronte a quello del Re.
Un giorno, le tre zie, residenti nel palazzo del Re ficcanaso, vedono i tre bambini mentre si tagliano mutualmente i capelli e sospettano che siano i figli della sorella minore: di nuovo incaricano la vecchia Menga di farli morire, ciò che quest'ultima tenta di fare incitando la bambina più piccola a procurarsi l'Acqua che balla, l'Albero che suona e l'Uccel Bel-verde, una cerca contraddistinta da pericoli mortali. Se i due fratelli riescono a procurarsi i due oggetti magici, rispettando i consigli dell'eremita, ciò non sarà il caso per la cattura dell'uccello, la quale incomberà invece alla loro sorella che, nel rispettare la prova del silenzio, si affermerà come vincitrice e ridarà la vita ai fratelli, rimasti pietrificati per non aver superato tale prova.
I tre fratelli possono così finalmente rispondere positivamente all'invito a cena che il Re aveva più volte rivolto loro invano, una cena durante la quale l'Uccel Bel-verde fa notare l'assenza di una persona, in cui gli astanti ravvisano la Regina murata viva, la quale viene liberata immediatamente. Timorose dei delitti commessi, le sue sorelle tentano allora di avvelenare il cibo dei tre nipoti e della loro madre, un tentativo che l' Uccel Bel-verde riuscirà a sventare, prima di condannare il gruppo antagonista a un castigo spettacolare e di annunciare al Re che i tre fanciulli sono i suoi figli.
Nel 1956, in pieno dibattito sul neorealismo, consecutivo alla pubblicazione del romanzo Metello (1955) di Vasco Pratolini (Bonura 1972: 32)1 e allorché la questione della lingua viveva un ennesimo episodio in seguito alla pubblicazione del romanzo pasoliniano Ragazzi di vita (1955), la casa editrice Einaudi pubblica un'opera in due volumi intitolata Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino. Nelle prime pagine dell'ampia Introduzione lo scrittore ligure spiega come nacque tale iniziativa:
La prima spinta a comporre questo libro è venuta da un'esigenza editoriale: si voleva pubblicare, accanto ai grandi libri di fiabe popolari straniere, una raccolta italiana. Ma che testo scegliere? Esisteva un "Grimm italiano"(1971 : 7)? 2
Egli vi confessa lo stato d'animo con cui assolse la commissione einaudiana, il cui scopo era anche di incrementare presso il lettorato italiano e straniero la diffusione di un patrimonio folclorico fino ad allora esplorato soprattutto da demologi di gran fama :
Era per me – e me ne rendevo ben conto – un salto a freddo, come tuffarmi da un trampolino in un mare in cui da un secolo e mezzo si spinge solo gente che v'è attratta non dal piacere sportivo di nuotare tra le onde insolite, ma da un richiamo del sangue, quasi per salvare qualcosa che s'agita là in fondo e se no perdercisi senza più tornare a riva, come il Cola Pesce della leggenda! [...]. Io m'immergevo in questo mondo sottomarino disarmato d'ogni fiocina specialistica, sprovvisto d'occhiali dottrinari, neanche munito di quella bombola d'ossigeno che è l'entusiasmo [...] per ogni rivelazione di quello che – con un'espressione gramsciana fin troppo fortunata – si chiama oggi il "mondo subalterno"; bensì esposto a tutti i malesseri che comunica un elemento quasi informe, mai fino in fondo dominato coscientemente come quello della pigra e passiva tradizione orale (1971 : 11-12).
Nell'ambito di una riflessione di stampo diacronico dedicata alle nuove forme assunte dalla fiaba nel ventesimo secolo, ai suoi avatars, alle sue "reincarnazioni", ci proponiamo di esaminare una delle fiabe italiane più note, L'Uccel bel-verde, con la quale Calvino apre il secondo volume della raccolta einaudiana. La prima versione scritta appare nell'opera di Giovanfrancesco Straparola (Caravaggio, 1480?-Venezia 1557?) Le piacevoli notti3, "un libro nuovo e singolare non solo per la molteplicità delle forme narrative, ma anche e soprattutto per la scelta di dare consacrazione letteraria alla fiaba popolare, quella fiaba che costituiva già allora un gustoso e diffuso intrattenimento serale" (Pirovano 2006 : 52). Composta di settantré testi in prosa, qualificati dall'autore con l'appellativo "Favola" e di altrettanti enigmi scritti in ottava, posti alla fine di ogni racconto, essa venne pubblicata a Venezia, in due volumi, nel 1550 e nel 1555: L'uccel bel-verde corrisponde alla favola IV,3 di Ancilotto re di Provino e si inserisce nel primo volume4.
Un'altra versione è riscontrabile in due testi dell'ampia opera intitolata La novellaja fiorentina. Fiabe e novelline stenografate in Firenze dal dettato popolare da Vittorio Imbriani, pubblicata a Livorno nel 18775: il primo è intitolato L'uccellino che parla, e il secondo, una variante, L'uccel bel-verde6. Come per ogni fiaba, Calvino indica nella nota posta alla fine del testo le fonti alle quali ha attinto, ma anche le particolarità e le finalità degli interventi effettuati:
Da L'uccellino che parla, Firenze; e da altre versioni (IMBRIANI). Per questa fiaba così diffusa in tutta Italia ho integrato la versione dell'Imbriani con particolari tratti da molte altre versioni, in modo da darne un testo il più ricco possibile [...]. La prima versione letteraria è la novella di Ancilotto re di Provino in STRAPAROLA (IV,3), assai simile alla tradizione orale come è giunta a noi (1971 : 363).
Come ha osservato con molto acume Alberto Maria Cirese (1988 : 19), questa esplicazione non si rivolge tanto al lettore quanto agli specialisti di fiabistica, le cui eventuali critiche circa la fedeltà al testo originario sembrano in tal modo anticipatamente neutralizzate.
Vittorio Imbriani (Napoli, 1840 - Pomigliano d'Arco, 1886), nella Dedica-prefazione alla Gigia sottolineava a sua volta che l’obiettivo fondamentale del suo lavoro era riprodurre con la massima fedeltà il linguaggio del popolo, discostandosi quindi dal modus operandi dei fratelli Grimm.7
Il raffronto tra la versione calviniana dell' Uccel bel-verde e quella imbriana dell'Uccellin che parla, alla luce del testo primario scritto dallo Straparola, ci appare tanto più interessante da svolgere che "lo scoiattolo della penna" afferma di aver voluto
arricchire sulla scorta delle varianti le versioni scelte, quando si può serbandone intatto il carattere, l'interna unità, in modo da renderla più piena e articolata possibile; integrare con una mano leggera d'invenzione i punti che paiono elisi o smozzicati […] (1971 : 17).
Ma a che cosa fa egli riferimento ostentando tale obiettivo: alla diegesi, alla finzione, alla morale, alla letterarietà della fiaba? Trattandosi di una delle fiabe più note in Italia, ma anche all'estero8, ci proponiamo di affrontare tali interrogazioni confrontando il testo selezionato con la versione straparoliana e con L'uccellin che parla di Vittorio Imbriani, in base all'analisi dell'ipertesto svolta dall'insigne studioso francese Gérard Genette, secondo il quale
[...] privo di un individuabile agrammatismo, l'ipertesto può esser letto a sé stante; esso racchiude un significato autonomo e quindi, in un certo modo, sufficiente. Tuttavia, sufficiente non vuol dire esaustivo. Ogni ipertesto presenta un'ambiguità [...]. Tale ambiguità è dovuta al fatto che un ipertesto può esser letto al tempo stesso a sé stante e in relazione con il suo ipotesto (1982 : 450)9.
L'ambiguità rilevata da Gérard Genette è presente o meno nel caso che ci interessa? Sino a che punto Calvino è riuscito a far prevalere lo statuto dello studioso, acquisito quasi suo malgrado, su quello dello scrittore attratto dalla fiaba?
1. L'intreccio fiabesco calviniano: tra imitazione e innovazione
Alla differenza dello Straparola, il quale inizia la narrazione con la presentazione di Ancilotto re di Provino, non nell'esercizio del potere politico, ma in un momento in cui "per suo diporto con molta compagnia se n'andava alla caccia" (275), Vittorio Imbriani autore di L'uccellin che parla e Calvino avviano la fiaba – un genere che quest'ultimo definisce come "il racconto magico che di solito parla di re di paesi indeterminati" (1971 : 19) –, con una posizione politica alquanto netta, ossia la condanna del potere monarchico, arbitrario e tirannico:
– (Imbriani) C'era una volta un Re. Non si sa per qual caso proibì che la sera non si sortisse, pena la testa; nessuno, indispensabilmente, sennò tagliata la testa.10
– (Calvino) Un Re era ficcanaso. Andava, a sera, sotto le finestre dei sudditi, a sentire cosa si diceva nelle case. Era un tempo di turbolenze, e il Re sospettava che il popolo covasse qualcosa contro di lui (351).
Il denominatore comune ai tre testi, ossia il motivo dell'ingannatrice ingannata, sul quale poggia l'intreccio narrativo scaturisce tuttavia da tale incipit: la passeggiata del re rappresenta infatti la molla che farà scattare la mancanza, uno dei perni dell'architettura fiabistica.11 Nella fattispecie, si tratta del desiderio espresso da tre fanciulle del popolo di sposarsi con un esponente della servitù del Re – siniscalco, cameriere, scudiero, fornaio, o vinaio a seconda della versione – e, per la più giovane, addirittura con il Re in persona. A mo' di compenso per tale matrimonio, ognuna dichiara di esser pronta a fare un dono meraviglioso, il cui carattere fittizio raggiunge l'apice con la promessa della sorella minore:
Io invece vorrei avere in sposo il Re in persona, e gli farei due figli maschi di latte e sangue coi capelli d'oro e una figlia femmina di latte e sangue coi capelli d'oro e una stella in fronte (Calvino 1971 : 351).
Calvino, non solo ricorre così a uno dei topoi della fiaba, cioè "la tendenza a metallizzare e mineralizzare oggetti ed esseri viventi" (Lüthi 1979 : 40), ma si riallaccia anche palesemente alla favola straparoliana IV,3 e a L'uccellin che parla dell'Imbriani giacché l'inganno di cui sarà vittima la sorella minore, dopo il matrimonio con il Re e il meraviglioso parto, verrà ordito dalle due sorelle, la maggiore e la mezzana, gelose di tale ascesa sociale. Ma diversamente dalle versioni precedenti, la mano complice della loro volontà omicida sarà quella della vecchia Menga e non quella della regina madre sorretta dalla comare.
Il nostro tralascia il discorso teologico e misogino dello scrittore caravaggino mirante a giustificare la superiorità dell'uomo rispetto alla donna per volontà divina,12 per dar adito a quel suo precipuo gusto per l'azione e le motivazioni logiche ad essa legate espresso in gran parte della sua produzione letteraria.13 Né trova spazio nelle pagine calviniane una seppur minima imitazione dell'invettiva scagliata dallo Straparola contro la mésalliance e l'odio ch'essa genera da parte della " proterva e maligna madre del re" (277) all'origine dello stratagemma contro la nuora.
I tre bambini nati cogli attributi meravigliosi vengono sostituiti nei tre testi con degli animali, ma come aveva già fatto l'Imbriani al suo tempo, non si tratta più di cani botoli bensì di una scimmia, di un cane e di una tigre, animali dal profilo maggiormente caratterizzato.
Anche nella sequenza dedicata all'emarginazione di cui è vittima la sorella minore dopo il parto, Calvino predilige L'uccellin che parla; ella infatti non è posta sotto un'acquaio ove, a mo' di cibo, le vengono date "le immondicie e le carogne che giù della fetente e sozza scaffa cadevano", come scrive il novelliere ed enigmografo bergamasco (280), ma in condizioni fisiche e psicologiche che l'Imbriani aveva già messo in scena e che lo scrittore ligure riprende quasi alla lettera:
Le sorelle la prendono, la levano dal letto, la portano giù in cantina, la murano dal collo in giù, che le restava fuori solo la testa. Ogni giorno le andavano a portare un po' di pane e un bicchier d'acqua, e le davano uno schiaffo per una: questo era il suo cibo quotidiano (351).
Ne L'uccellin che parla si legge:
Venghiamo alle sorelle che il Re gli lascia piena libertà di far quel che vogliono di questa donna. La prendono, la levano di letto, la portano giù in cantina, la murano di qui in giù; dal collo in giù, tutta murata, altro che la testa fori. Ed ogni giorno gli andavano a portare un po' di pane, un bicchier d'acqua; e uno schiaffo per una gli davano: questo era il suo mangiare (86).
Nel seguito della narrazione, lo Straparola come l'Imbriani possono essere considerati quali riferimenti fedelmente rispettati, in quanto i tre bambini condannati all'annegamento dal gruppo aggressore verranno adottati da un barcaiolo presso il quale rimarranno fino al momento dell'agnizione paterna.
Al pari dei due precedenti narratori, Calvino dà una nuova incrinatura alla vicenda con un secondo stratagemma, le cui vittime saranno ancora una volta i tre gemelli. Infatti, dopo aver appreso che sono ancora in vita, le due sorelle li spingono a procurarsi oggetti magici, con l'intento che tale cerca cagioni la loro morte, dati i pericoli che presenta.
Nella riscrittura calviniana la cerca14 dell'Acqua che Balla – già presente nella versione straparoliana e di cui l'Imbriani offre una variante ne L'uccellin che parla tramite la fontana che brilla – e dell'Albero che Suona – allorché Straparola e Imbriani propongono rispettivamente il pomo e l'albero che canta – riveste la medesima finalità di quella evocata nella favola IV,3 delle Piacevoli notti, ossia accrescere la bellezza fisica di Serena e renderla più felice (283-288). Si nota così che i due ipotesti sono alquanto presenti nell'intreccio riscritto da Calvino, sebbene egli riduca il numero dei personaggi e privilegi l'azione, giungendo ad una narrazione molto concisa. L'omaggio ch'egli rende a Giovanfrancesco Straparola nell'Introduzione della raccolta einaudiana per l'aver conferito all'Italia una sorta di supremazia genetica in materia di fiabe rispetto ad altri paesi,15 un giudizio a cui Giancarlo Mazzacurati sottoscriverà anni dopo col qualificarlo "capostipite principale dei repertori fiabeschi europei" (1976 : 67-113), si traduce certo con la ripresa del motivo dell'ingannatrice ingannata, ma secondo modalità narrative che confluiscono verso una razionalità del fiabesco. Ma l'avatar calviniano si distinguerà dai due testi di riferimento anche per la messa in scena di figure del tutto nuove.
2. Giganti ed eremiti: le nuove figure calviniane
Le prove a cui sono sottoposti i tre bambini miracolosamente salvati dal barcaiolo sono escogitate dalla vecchia Menga, incaricata per la seconda volta di ucciderli alfin di evitare l'agnizione da parte del Re.
Nel testo calviniano si osserva che gli ostacoli da superare nell'ambito della cerca dei due oggetti magici e dell'Uccel bel-verde inducono la messa in scena di figure16 del tutto assenti nelle versioni precedenti: i quattro giganti con le spade in mano messi a far la guardia al palazzo ove si trova l'Acqua che balla, e la "porticina con sopra un paio di forbici" (359) con cui l'eroe dovrà misurarsi per accedere all'Albero che suona, sostituiscono tanto gli animali velenosi e divoratori di esseri umani presenti nella versione straparoliana (286), quanto le mortifere e vociferanti figure, dal profilo impreciso, a cui rimanda invece il testo dell'Imbriani.17
Se il gigante si inscrive nell'universo della fiaba italiana18 – pur essendo del tutto assente nella raccolta straparoliana – con l'ostacolare l'azione dell'eroe, va rilevato che Calvino alterna osservanza e rifiuto della tradizione favolistica, per il modo in cui viene affrontato. Infatti i due fratelli, esecutori del desiderio della loro sorella di possedere l'oggetto magico, non trionfano grazie alle loro doti personalima grazie all'eremita. Figura assente nella favola IV, 319 e ne L'uccellin che parla, l'eremita con i suoi consigli20 permette di far procedere l'azione, seguendo in ciò uno dei topoi della fiaba:
La tradizione orale indoeuropea (compresa quella dei tarocchi) e la novellistica, che da essa ha abbondantemente attinto, ci presentano l'eremita in una duplice veste. Da un lato abbiamo eremiti che si caratterizzano per quelle che dovrebbero essere le loro abituali virtù: religiosità, bontà, saggezza. Dall'altro troviamo invece figure di eremiti dai contorni melanconici e saturnini, se non perfino foschi: seduttori, perversi, assassini [...]. La fiaba sembra però ignorare questo secondo aspetto del personaggio, per privilegiare la figura dell'eremita virtuoso, il quale assume così quasi invariabilmente il ruolo di aiutante. Egli, forte della propria sapienza, dà indicazioni all'eroe impegnato in una difficile ricerca (Lüthi 1979 : 153).
Occorre inoltre rilevare che Calvino conferisce al consiglio dell'eremita un carattere scherzoso tramite il modo di superare l'ostacolo:
Sta' a sentire, - disse l'eremita, - vedi quella montagna? Va' in cima, troverai una gran pianura e in mezzo un bel palazzo. Davanti al portone ci sono quattro giganti con le spade in mano. Sta' attento: quando hanno gli occhi chiusi non devi passare, hai capito? Passa invece quando hanno gli occhi aperti. C'è il portone: se lo trovi aperto non passare, se lo trovi chiuso spingi e passa. Troverai quattro leoni: quando hanno gli occhi chiusi non passare, passa quando li trovi con gli occhi aperti, e troverai l'Acqua che Balla[...].
Ahi! – disse l'eremita, – l'Albero che Suona è un osso duro. Senti cosa devi fare: sali sulla montagna, guardati dai giganti, dal portone, dai leoni, tutto come ha fatto tuo fratello. Poi troverai una porticina con sopra un paio di forbici; se le forbici sono chiuse non passare; se sono aperte, passa. Troverai un albero enorme che suona con tutte le sue foglie. Tu arrampicati e stacca il ramo più alto: lo pianterai nel tuo giardino e metterà radici (358-359).
Il "gioco" carnevalesco con lo sguardo, assente nelle precedenti versioni, dà così luogo a uno slittamento della narrazione che avvicina la fiaba alla farsa.21
Si può parlare di un ipotesto imbriano e di un ipotesto straparoliano nella ripresa in chiave mitico-religiosa del ruolo che riveste ancora lo sguardo nel superamento delle prove. Straparola affida all'oste il compito di trasmettere ai due fratelli l'oggetto magico grazie al quale potranno scampare alla"velenosa fiera" che impedisce di accedere al pomo che canta:
Prendete adunque questa veste tutta di specchi coperta e l'uno di voi si la ponga indosso, e solo così vestito entri nel giardino di cui trovarete l'uscio aperto, e l'altro resti fuori del giardino, e in modo alcuno non si lasci vedere. Ed entrato ch'egli sarà nel giardino, l'animale subito gli verrà all'incontro, e vedendosi se stesso ne gli specchi, incontanenti morto in terra caderà; e andatosene a l'albero del cantante pomo, quello umanamente prenderà, e senza guardarsi a dietro, fuori del giardino uscirà (286).
Il rinvio al mito di Perseo e Medusa è particolarmente esplicito, come lo era presso l'Imbriani la raccomandazione, formulata dall' aiutante, di non voltarsi indietro per evitare la pietrificazione, quello al mito di Orfeo ed Euridice:
In mentre che tu hai finita la strada, tu troverai una bellissima piazza, dove c'è una porta. Entra dentro e vedrai un cortile lungo lungo, ma lungo! Di qui e di là non vedrai altro che statue; che sono uomini e donne andati come siei ito tu, tale e quale, per cercare queste tre cose. Te, le puoi avere. Se quando tu senti urlare, strapparti per la persona, se tu non ti volti, questa roba l'è tua; ma se ti volti, tu divieni statua.22
Calvino si riallaccia ai testi prescelti quando riprende il carattere funzionale dello sguardo, ma se ne discosta nell'associarlo a figure del tutto nuove, quali sono appunto i giganti e l'eremita. Del resto, durante l'ultima cerca, dedicata all'Uccel bel-verde, il nostro ricorre a una tonalità poliziesca che conferisce alla finzione un colorito particolare opacizzando sempre di più la trascrizione delle fonti.
3. L'ultima prova o l'avatar in chiave “magico-poliziesca”
Dallo Straparola e dall'Imbriani autore di L'uccellin che parla Calvino riprende lo scopo della terza ed ultima quest, ossia la cattura dell'Uccel bel-verde. Lo scacco dei due fratelli, consecutivo alla trasgressione dell'interdizione di rispondere alle domande dell'uccello, è una spia, nella versione calviniana, di ciò che Cristina Lavinio chiama "ingentilimento" del testo, fondato sul ricorso ad una certa dose di realismo psicologico.23 La pietrificazione costituisce infatti la sanzione data ai due fratelli per lo stupore, in realtà il dolore, espresso circa la sorte subita dalla loro madre:
Il giovane arrivò nel giardino pieno di statue e di uccelli. L'uccel bel-verde si posò sulla spalla e gli disse: - Sei venuto, cavaliere? E credi di prendere me? Ti sbagli. Sono le tue zie che ti mandano a morte. E tua madre la tengono murata viva...
- Mia madre murata viva? – disse il giovane e come parlò subito diventò anche lui statua di marmo (360-361).
La pietrificazione è inoltre funzionale allo svolgimento dell'intreccio fiabesco in quanto conferisce alla sorella minore un nuovo statuto, quello dell'attante e non più della richiedente. Vestita da cavaliere, munita dei due oggetti magici, ella infatti s'incammina dopo aver ascoltato i consigli dell'eremita:
– Apri l'occhio, che se quando l'Uccello parla gli rispondi sei finita. Strappagli una penna delle ali, invece, bagnala nell'Acqua che balla e poi tocca tutte le statue...
– Appena l'Uccel bel-verde vide la ragazza vestita da cavaliere, le si posò sulla spalla e disse: – Anche tu qui? Ora diventerai come i tuoi fratelli...Li vedi? Uno e due, e con te tre... Tuo padre in guerra...Tua madre murata viva... E le tue zie se la ridono... (361)
Per aver saputo rispettare l'interdizione relativa al silenzio, la sorella minore permetterà ai suoi fratelli, ma anche ai leoni, ai giganti e alla coorte di statue che popolano il giardino di tornare in vita. Occorre rilevare che nell'episodio della cattura Calvino non riprende né il ricatto a cui la bambina con la stella in fronte sottoponeva l'uccello nella versione straparoliana (280)24, né lo stratagemma presente nell'Uccellino che parla, in cui le pentole usate a mo' di oggetto magico traducono uno schietto quanto sorridente realismo popolare, rafforzato da uno stile che risente dell'oralità.25
Con la cattura dell'uccello inizia l'epilogo della fiaba, nel quale Calvino si distaccherà dalle versioni anteriori dando più ampio respiro a quella consonanza con il thriller già percettibile nel modo in cui era stato descritto il comportamento antagonistico delle zie all'origine di "delitti" (355-356).
L'invito a pranzo che il Re rivolge ai tre fanciulli, nei quali ha avvertito un qualcosa di familiare, rappresenta il contesto in cui avviene il tentativo di avvelenamento da parte dell'antagonista o del suo esecutore. Notiamo innanzi tutto che né lo Straparola né l'Imbriani autore di L'uccellin che parla avevano introdotto tale elemento nella narrazione; lo troviamo, invece, nella versione imbriana dell' Uccel bel-verde. Ma se il movente è identico, vale a dire evitare la sanzione indotta dall'infanticidio, anche se fallito, gli attori sono diversi: Calvino infatti sospende la finzione fiabesca col far dell'omicida non una strega, attante della Regina madre nella versione imbriana, bensì il gruppo costituito dalle due sorelle e dalla vecchia Menga. L'Uccel bel-verde calviniano svolge un ruolo salvifico dapprima nel rivelare l'assenza al banchetto della madre dei tre fanciulli, poi nell'assaggiare il cibo avvelenato dalle zie. In ambedue i momenti, la narrazione calviniana assume una tonalità enigmatico-giocosa, tramite la voce dell'uccello: le sue due interiezioni "Manca una sola!" e "Solo quello che becco io!" (362) inducono la liberazione della madre dei tre fanciulli (362) e la salvazione di questi ultimi.
Al pari della favola straparoliana e dei due testi imbriani, Calvino fa dell'uccello il portavoce di una mise en abyme della narrazione, ma in modo ben più rapido rispetto alle fonti, per dare maggior rilievo al suo tramutarsi in vero e proprio giudice il cui antropomorfismo serve ora ad emettere la sentenza:
Il Re [...] fece comparire innanzi a sé le due cognate e la vecchia e disse all'Uccel bel-verde: Uccello, ora che hai svelato tutto, dà la sentenza.
E l'uccello disse: - Alle cognate, una camicia di pece e un pastrano di fuoco, alla vecchia giù dalla finestra. Così fu fatto (363).
Appare palesemente che lo scrittore ligure non si rifà al finale proposto dall'Imbriani nell'Uccel bel-verde, caratterizzato da un'amplificazione della dimensione fiabesca e patetica,26 né conserva il carattere spettacolare che riveste il castigo a cui è sottoposto il gruppo antagonista, che si tratti della condanna al rogo nella versione straparoliana o dell'impiccagione nell'Uccellin che parla.
Nonostante tale differenza, Calvino rimane fedele al topos che contraddistingue generalmente lo scioglimento delle fiabe, ossia il trionfo del Bene sul Male; una fedeltà che nasce non da un necessario riflesso controriformistico, destinato a evitare le forche caudine della censura ecclesiastica, come è spesso il caso nel testo straparoliano, in cui l'uccel bel-verde proferisce "parole che non umane, ma divine parevano" (289), bensì da una concezione fortiniana della moralità, intesa come "il nome privato della politica"27, e in virtù della quale "il Re ficcanaso" è punito dal popolo per la sua indiscrezione politica.
Nello scioglimento Calvino non riprende né l'enigma straparoliano – la cui soluzione, il pappagallo, rafforza il ruolo svolto dall'uccello28 – , probabilmente perché nell'Italia degli anni cinquanta l'enigma ludico non aveva la stessa importanza ch'essa aveva nel Cinquecento, "secolo in cui si cifra il mondo" (Calabrese 1984 : 91), né tanto meno il proverbio con cui l'Imbriani conclude L'uccellin che parla29, o quello inserito dallo Straparola nel commento che fa seguito alla decifrazione dell'enigma (294).
Giunti al termine del nostro studio, e lungi dal voler essere esaustivi circa l'ipertestualità calviniana, ci appare tuttavia palese che varie modalità narrative sostengono la tesi a favore dell'avatar a scapito della trascrizione.
Col riprendere il motivo dell'ingannatrice ingannata Calvino tesse un filo narrativo tra Cinquecento e Novecento che costituisce anche il perno dell'ipertestualità dichiarata. La favola straparoliana e l'Uccellino che parla, più dell'omonima fiaba imbriana, possono essere considerati quali ipotesti nella misura in cui l'intreccio fiabesco gravita intorno ai medesimi elementi, cioè la critica del potere monarchico, la gelosia in seno al nucleo familiare, "una trappola rischiosa, qualunque sia il livello della scala sociale" (Milanini : 54), o ancora le prove da superare per affermarsi come attante. Ma la scenografia a cui tali elementi danno luogo si contraddistingue per l'introduzione di figure fiabesche del tutto nuove e per una tessitura evenemenziale "magico-poliziesca"con le quali Calvino si allontana dai due testi di riferimento.
In nome della rapidità ch'egli esporrà più tardi in Lezioni americane "lo scoiattolo della penna" sopprime quelle tracce commentative e situazionali tipiche dell'oralità a cui invece l'Imbriani ricorre a spron battuto. Ne scaturisce una leggerezza stilistica che, coniugata con una coloritura farsesca e una moralità in chiave fortiniana, concretizza "un'idea della forma fiaba, se anche non infedele, di certo autonoma e personale" (Falcetto 1988 : 46) consona alla sua maniera di condurre a buon porto la missione einaudiana:
In tutto questo mi facevo forte del proverbio toscano caro al Nerucci: “La novella nun è bella, se sopra nun ci si rappella”, la novella vale per quel che su di essa tesse e ritesse ogni volta chi la racconta, per quel tanto di nuovo che ci s'aggiunge passando di bocca in bocca. Ho inteso di mettermi anch'io come un anello dell'anonima catena senza fine per cui le fiabe si tramandano, anelli che non sono mai puri strumenti, trasmettitori passivi, ma […] i suoi veri autori (25).
Non v'è allora alcun dubbio che con l'avatar Calvino si è affermato non solo quale autorevole studioso ma anche come autore di fiabe. La riscrittura costituisce così una spia supplementare di quella sua "uccellinità30", evidenziata da una parte della critica, grazie alla quale egli ha non poco contribuito a far entrare le fiabe straparoliane e imbriane nel parnaso della letteratura popolare italiana.