Il racconto come presenza
In un articolo pubblicato sulla rivista letteraria Paragone nel 1966, Maria Corti recupera le «molte vite» di due personaggi leggendari, Marcolfo e Bertoldo, figure che, pur nelle origini e nei nomi diversi, sembrano potersi «raccontare quasi con le stesse parole» (Corti 1966: 119). Personaggi altri, come può esserlo l’irruzione della cultura popolare a corte, le loro storie «sottendono la struttura d’una altercatio comica e rituale fra il savio e il pazzo, un conflictus fra due culture e due società diverse, una battaglia buffonesca» (Camporesi 1993: 80) che Maria Corti segue nel tempo, immaginando infine l’incontro del sapiente villano Bertoldo con il mondo contemporaneo. La cultura espressa dal personaggio, quel «qualcosa che individuava subito il significato delle parole e dei fatti dietro l’oscurità nella quale, entro palazzi e regge, parole e fatti tendevano a nascondersi» (Corti 1966: 119) si trova qui improvvisamente smarrita, inservibili ed inutili le massime con cui giocava «la sublime morra della sapienza» (Corti 1966: 126). Il passaggio dalle campagne e dalle corti medievali alla società industriale, e alla catena di montaggio dove la studiosa e scrittrice infine lo immagina, segna non soltanto uno spostamento di valori e di relazioni sociali e culturali, ma in maniera più ampia l’impossibilità di utilizzare quel tipico fluire verbale di massime e proverbi per indagare il reale. È in questo modo che la matrice carnevalesca dello spirito bertoldesco prova ad affacciarsi un’ultima volta durante una manifestazione di piazza: il ribaltamento e la sovversione temporanea dell’ordine sociale non sono più ammessi, e la «sanguigna sapienza villanesca [finisce] in fumo». Sopravvissuto dentro il racconto nei secoli, Bertoldo improvvisamente entra in un gran silenzio «che si tinge di nero»: la cultura di cui è portatore «non ha più a che fare col mondo» (Corti 1966: 129).
Il breve racconto di Maria Corti, il cui finale amaro forse non è che solo una, e non l’ultima, delle molte «metamorfosi» di Marcolfo, pone almeno due questioni: quella della presenza, nel mondo contemporaneo, di forme di cultura locale e folklorica di cui il personaggio citato non è che una delle molte e possibili espressioni; e quella, evidentemente intrecciata alla prima, della nostra capacità di riconoscimento di categorie di pensiero che sembrano non appartenere più alla società attuale (Marrone 2012: 18-19), e dunque della loro trasmissibilità in contesti differenti da quelli in cui, per secoli, si sono formate e diffuse. Questioni che implicano una dimensione di racconto e di modalità narrative attraverso le quali, al di là degli attuali «residui folklorici» (Schenda 2001: 79), si esprimono repertori e forme delle culture tradizionali.
Una delle possibili risposte che si possono trovare alle questioni presentate è stata data da un libro uscito pochi anni fa per l’editore italiano Donzelli. Si tratta di Cecafumo, raccolta di racconti e fiabe, sia tradizionali che originali, nel quale il lavoro di scrittura si colloca entro uno spazio di verifica e riscontro delle possibilità non solo di saper leggere la cultura popolare (e le sue espressioni narrative), ma anche di trovarne un’area di continuazione nella contemporaneità. Cecafumo, nelle modalità di elaborazione dei racconti, muove difatti un’indagine almeno in due direzioni. Una prima che riguarda le trasposizioni di un materiale narrativo precedente e preesistente; una seconda che, oltrepassando la semplice materia narrativa, pone fortemente una riflessione sulla trasmissibilità, e l’attualità possibile, di uno spazio culturale comunque concepito a partire da una situazione di oralità.
Il volume è il testo d’esordio di Ascanio Celestini, attore, regista e scrittore che, partendo da una profonda ed incisiva presenza in quell’ampio fenomeno che va sotto il nome di teatro narrazione (Guccini 2005a: 11-43), si è nel tempo sempre più spesso confrontato con linguaggi e codici diversi (il cinema, la narrativa, la musica etc.), ma vissuti in parallelo, mostrando d’essere una delle personalità artistiche ed intellettuali più vivaci nel panorama culturale italiano contemporaneo. Questo ampliamento e passaggio continuo in codici differenti, di cui Cecafumo è una delle prime manifestazioni, sembra al tempo stesso conservare e mettere in luce una «geografia sotterranea» unitaria che, come ha segnalato Stefania Rimini, pone un ripensamento su «quello che sembrava un episodico e fiabesco ritorno al ‘popolare’ [diventato invece] il metro di una possibile ‘rivoluzione’ culturale» (2009: 154). Se la via delle fiabe non è dunque solo esperienza occasionale, ma maniera in cui prima a teatro poi attraverso altri linguaggi artistici è stata elaborata una «prospettiva dal basso», il passaggio da testo recitato a testo scritto in Cecafumo diviene una verifica su come, nella pagina, possa ritrovarsi e tradursi una pratica scenica intessuta di uno sguardo antropologico che, dalla fine degli anni Novanta, Celestini è andato compiendo attraverso una serie di spettacoli sul mondo popolare e sui suoi racconti.
La novità di Cecafumo, in relazione alla fiabistica, è certo quella di assumere nel testo scritto tale specifico filtro scenico, in un tentativo di animare la scrittura in parallelo con il precedente lavoro di meditazione antropologica sul materiale narrativo delle fiabe (Guccini 2005b: 55-60). Per tale motivo, prima di procedere ad un’analisi su come si esprima nell’opera scritta una diversa posizione nella presentazione del repertorio fiabesco, converrà richiamare brevemente alcuni elementi di quella pratica teatrale che si legano alla formazione iniziale del testo. Tale discendenza fra situazioni enunciative differenti è del resto esplicitamente richiamata nel libro finale, e affermata dal narratore nella prefazione dell’opera. La formula comunicativa di Cecafumo, Storie da leggere ad alta voce, questo il titolo completo, è in tal senso direttamente legata ad un’elaborazione ed una strutturazione che precedono la forma scritta e che alludono continuamente alla situazione teatrale di partenza. Al punto che quest’ultima appare ripresentata, certamente in maniera differente e con effetti dissimili, nell’allegato audio parte integrante del volume nel quale il pubblico può sentire l’autore narrare sei storie, accompagnato da una serie di musiche popolari reinterpretate da Matteo D’Agostino e Gianluca Zammarelli. Il lettore si trova così di fronte ad una composizione che esplicita il proprio essere stratificata nel tempo. Una stratificazione che è insieme quella delle fiabe tradizionali e quella della ricerca artistica e drammaturgica dell’autore:
In questa maniera è nato Cecafumo. Dal bisogno di portare in giro qualcosa che potesse essere rappresentato in strada e a teatro, nei festival e nei locali. È nato dal bisogno di costruire un repertorio che ci desse la possibilità di arrivare in un posto e improvvisare uno spettacolo. In sei anni abbiamo continuamente allargato questo repertorio fino alla messa in onda di trentun puntate sul racconto orale su Radio 31. Dopo la messa in onda abbiamo curato la pubblicazione di un libro che raccoglie quel repertorio. Poi il lavoro si è ulteriormente ampliato e ancora oggi quando ci chiedono Cecafumo noi arriviamo in teatro e prima dello spettacolo scriviamo una scaletta e decidiamo all’impronta quali dei racconti in repertorio faremo. (Celestini 2005a: 29)
A differenza di opere successive dell’autore, per Cecafumo Celestini precisa la dimensione di selezione possibile fra le storie del repertorio confluite nella raccolta, nella quale la stessa scrittura è presente come elemento secondario2, a fissare una materia in cui la mobilità del testo continua o dovrebbe continuare ad avere un ruolo di primo piano. A sottolinearne tale effetto contribuisce anche il sottotitolo che si pone quale esplicito invito al lettore: Storie da leggere ad alta voce. Il momento della scrittura è dunque solo la segnalazione di un repertorio che dalla pagina scritta dovrebbe nuovamente rientrare entro una situazione comunicativa orale e quotidiana, secondo un modello di narrazione precedentemente avviato e indagato dall’autore:
La narrazione, infatti, non è mai qualcosa di solitario; anzi, chi racconta nella tradizione orale, non racconta mai da solo, prima cosa perché non racconta per se stesso, o comunque non soltanto per se stesso, seconda cosa perché non racconta soltanto lui, non è mai una voce sola che parla. […] Neanch’io in teatro lo sono, prima cosa perché sostanzialmente il racconto non è un monologo ma è basato sull’INTER-VISTA e quindi su un incrocio di sguardi. (Celestini 2003: 21-22)
La nascita del racconto, una nascita che ne condiziona la presenza ma anche la trasmissione, è dunque pensata da Celestini in uno scambio relazionale. Giulio Di Palma, notando la curiosità di una notazione come quella di sottrarsi ad una situazione di monologo, conclude affermando che il riferimento di Celestini non andrà ricercato in delle condizioni di performance strutturate, nelle quali appunto, come a teatro, tale fabulazione corrisponderebbe ad una parte unica, quanto ad una tradizione narrativa nella quale il racconto è «una parte della vita di tutti i giorni e viene proposto senza l’ausilio di tecniche particolari, ma all’interno di un lessico quotidiano che è alla portata di tutti» (2005: 93). Tale spostamento non significa solamente pensare il racconto entro una situazione dialogica; piuttosto ciò va a focalizzare l’attenzione su una dinamica culturale che vede il materiale narrativo non semplicemente come qualcosa di espresso, bensì di agito, sottolineandone «il modo in cui i simboli, e i loro molteplici significati, vengono processualmente messi ‘in gioco’ e negoziati» (De Matteis 1995: 137). Nel recupero del repertorio popolare e nel modo di presentarlo, appunto come narratore e non come personaggio in scena (Bologna 2005: 20), il punto di vista elaborato da Celestini è molto vicino ad un’immagine, emergente dagli studi sul folklore, che vede la cultura là espressa, in quanto orale, essenzialmente come «cultura teatrale» (Casali 1982: 12), e la metafora della scena come un «modello privilegiato di produzione-ricezione della tradizione orale» (Beduschi 1987: 49).
L’esecutore del racconto mette allora in scena un discorso possibile, funzionale al momento, ed il ruolo dell’incontro, dell’inter-vista citata da Celestini, costituisce di volta in volta un modo di incanalare e rielaborare fatti, tensioni, pensieri impliciti ed espliciti da parte dei partecipanti di cui il racconto stesso non è che il completamento di un’esperienza più ampia. È del resto da questa prospettiva che l’antropologo Victor Turner definiva l’azione performativa come un qualcosa compiuto «non per esprimere il progetto, ma per realizzarlo» (1986: 38), ossia per renderlo presente. In maniera non dissimile si pone la riflessione di Celestini:
Per cui il racconto è qualcosa che non racconta semplicemente la storia, ma racconta una presenza, la presenza di un gruppo di persone, non per forza una comunità, perché altrimenti noi non potremmo parlar più oggi di racconto […]. Però senz’altro il racconto produce un’identità personale: una persona racconta una sua storia davanti a me e io riconosco qualcosa in quella storia che mi interessa, io ritrovo in quella storia una parte della mia identità; una persona racconta una sua storia e la racconta per raccontare e rendere presente la sua identità. (Celestini 2003: 22)
Se per la narrazione scenica, come scrive Celestini, la struttura di repertorio aperto e manipolabile in una relazione all’ambiente è prevista e cercata per riproporre e attualizzare un modello di narrazione che non mimi soltanto un atteggiamento delle culture folkloriche, ma ne realizzi un’espressione ed una funzione odierna, la situazione comunicativa del libro, della quale ci occuperemo, è ovviamente differente. Ci si può chiedere allora come nella pagina scritta Celestini tenti di risolvere lo scarto fra presenza teatrale e lettura, e se la ricerca svolta nell’ambito della scena trovi degli equivalenti nella scrittura delle fiabe. In questa prospettiva, anche per via dell’esplicito legame che Celestini stabilisce nel presentare le sue storie in differenti espressioni artistiche, ci si potrebbero già aspettare delle dinamiche enunciative che tendano a ristabilire questa esperienza del racconto quale presenza. Strategie che in conseguenza intervengono e modificano la riscrittura dei testi, in relazione particolarmente ad una loro percezione comune e rispetto alle forme attraverso le quali questi sono presentati al lettore: in un gioco di manipolazione non tanto dei contenuti delle storia, ma della loro soglia di accesso. Procedendo su questi fattori, l’obiettivo dell’intervento sarà di mettere in luce quelle strategie che, nel testo di Celestini, accompagnano il trasferimento dall’oralità alla scrittura delle fiabe, focalizzando l’attenzione su alcuni aspetti non consueti, e sulle modalità di presentazione della sua raccolta rispetto al destinatario.
La parola «detta»
Il ruolo del paratesto assume un particolare rilievo in Cecafumo. È possibile distinguere tre tipi di interventi che agiscono nella presentazione e definizione della lettura delle fiabe e attraverso i quali il libro forma e informa il destinatario: un primo dato dalle due introduzioni autoriali (una firmata da Celestini; l’altra, sulla «musica in favola», da D’Agostino, uno degli autori della colonna sonora dell’allegato audio); un secondo da delle brevi note prefatorie riportate all’inizio di ogni racconto; ed infine il paratesto editoriale presente sul risvolto di copertina, non firmato, ma probabilmente ad opera dello stesso autore. La funzione di questi apparati non è la medesima; insieme, però, contribuiscono ad una lettura del testo fortemente direzionata, che coinvolge almeno tre fattori: l’uso ‘pratico’ del libro di fiabe, il posizionamento culturale del suo contenuto, e la costruzione del narratario.
I tre elementi convergono poi verso un’unica strategia di selezione del lettore e in una presentazione di specifiche modalità di percezione e ricezione della fiaba. Di quest’ultima difatti è messa in evidenza la tipologia di trasmissione del racconto, il modello di scambio comunicativo inscritto nel quotidiano il quale, pur essendo culturalmente condiviso anche solo in riferimento al genere narrativo di appartenenza, tende a non trovare espressione e manifestazione nelle trascrizioni e riscritture contemporanee. Questo è quanto accade, ad esempio, in uno dei riferimenti maggiori, per un lettore italiano, nell’approccio alla fiaba: quello delle Fiabe italiane di Italo Calvino, prima e più importante raccolta di carattere nazionale pubblicata nel 1956. La riscrittura calviniana, citata anche in Cecafumo, accoglie in effetti la dimensione dell’oralità dei racconti tradizionali, ma soltanto quale dato storico di formazione e trasformazione del testo in ambito folklorico, promuovendo invece una leggibilità del modello fiabesco che poggia su una scrittura letteraria (nonché sulla tradizione scritta del genere narrativo).
Nella costruzione di un diverso approccio con il materiale narrativo tradizionale, l’apparato paratestuale in Cecafumo ha dunque funzione di mettere in condizione il lettore di cogliere una scrittura fiabesca che si distacca dalla tradizione scritta e di indirizzarlo ad un recupero del suono e della parola parlata quale uno degli elementi che guidano la scrittura stessa. Si tratta di presentare una struttura a metà: una struttura che è al tempo stesso elaborata per una lettura narrativa e per qualcosa d’altro, una voce, una relazione che il testo non attua ma che prevede in maniera esplicita quale potenzialità e destinazione finale3. Il primo dato del paratesto, emergente fin dal sottotitolo, è allora un’oralità cercata che anche il testo scritto dovrebbe mostrare in quanto effetto. Nel risvolto di copertina viene data una definizione di questo stato instabile del testo scritto: la trasposizione delle storie avrebbe «l’intento di mostrare la ricchezza di una lettura parlata»; mentre nell’introduzione l’autore propone un «suggerimento per la lettura di questo libro», ossia «di leggere a alta voce e magari di improvvisare leggendo» (Celestini 2002: XI-XII).
La struttura del testo aiuta ad inquadrare le storie in un effetto di oralità, a cominciare da una disposizione formale che, invece della prosa, sceglie di fornire una scrittura drammaturgica, nella quale la riga testuale termina là dove c’è, o potrebbe esserci, una pausa nella lettura o dove qualche elemento importante del testo, che potrebbe essere sottolineato nella recitazione, vuole essere messo in evidenza andando a capo. Ecco, a titolo d’esempio, l’incipit della storia «Il corpo a pezzi»:
Perasacco era ricco e c’aveva un padre più ricco di lui
che gli piaceva di starsene tranquillo.
E Perasacco poteva mangiare senza paura di spendere troppo,
poteva bere e ubriacarsi e svegliarsi a mezzogiorno,
o semplicemente se ne poteva stare in finestra
a contare i mattoni nel muro,
ma una strega del paese suo gli aveva imparato un fatto.
(Celestini 2002: 154)
La scansione del testo non è dunque pensata secondo la linearità della lettura in silenzio. Gli spazi bianchi, i modi in cui una frase unica viene spezzata su più righe (così come anche i salti di riga), formano una visività che già articola sia una possibile intonazione che un’interpretazione del racconto, segnalando inoltre anche la velocità del suo procedere. Il lettore può accettare o meno di seguire tale ritmicità, ma la presenza costante di questo tipo di divisone testuale obbliga ad una presa di contatto non abituale con la pagina, suggerendo implicitamente una modalità di accesso al testo che inquadra già il racconto.
Interessante a questo proposito notare come le fiabe siano presentate in un movimento che include una sequenza recitativa più ampia, non presente nel testo scritto, ma che questo sottintende a partire dall’assenza dei marcatori più comuni nell’identificazione della fiaba e del racconto orale, le formule di apertura e chiusura del testo. Tali marcatori, stereotipi anche nella tradizione di scrittura dei racconti popolari, delimitano comunemente lo spazio del genere narrativo, ossia la logica che guida il racconto orale, informando in tal modo il lettore sul tipo di testo che si troverà a leggere. Una griglia formale, dunque, che non ha soltanto funzione di identificare e delimitare il racconto ma, forse in maniera maggiore, di aprire uno specifico spazio immaginario, il cui riconoscimento è richiesto al destinatario per una corretta interpretazione della storia (Belmont 2002: 48-49).
L’assenza di formule quali il «c’era una volta» è quindi ulteriore scarto nelle attese del lettore di Cecafumo. Nel testo difatti non compaiono che una volta, ma in relazione ad una storia che è un pretesto per un gioco linguistico e che si distacca dalle altre della raccolta4. Uno dei possibili motivi di questa assenza è forse il numero limitato di fiabe nel testo di Celestini, appartenendo la maggior parte delle storie a diversi generi del racconto orale: a formulazioni diverse dovrebbero così corrispondere situazioni narrative dissimili. Ciò però non spiega la loro mancanza anche nelle fiabe vere e proprie. Un’ulteriore motivazione può allora essere cercata nella specifica dimensione dell’oralità, culturale e non solo formale, che il testo vuole proporre. Dan Octavian Cepraga, distinguendo l’uso delle formule d’apertura in narratori semi-professionisti e non professionisti, ha segnalato che questi ultimi, agendo in uno spazio intimo e familiare, possono ottenere «l’attenzione degli ascoltatori e misurare il grado di attesa del pubblico» ponendo ad inizio del testo «procedimenti di straniamento e di sorpresa, ottenuti spesso mediante effetti di comicità e deformazione surreale» (2006: 221). Lo studioso fa comunque riferimento alla presenza di formulari codificati, anche in questo caso; ma essi, rientrando entro la logica del racconto domestico, particolarmente se all’intero di un’occasione di racconto già avviata, appaiono meno determinanti e necessari, sia per il narratore che per il destinatario. In questa maniera, come nell’incipit del racconto «Il corpo a pezzi» citato poco sopra, l’attenzione del lettore viene richiamata attraverso la presentazione di situazioni e di immagini atipiche (l’avversativa dell’ultima frase riportata invita difatti il lettore a ripensare l’attacco sotto un’altra ottica) che movimentano immediatamente il racconto: Peresacco, personaggio agiato e tendenzialmente statico, è messo in contatto con un sapere segreto (fornito da una strega) che per curiosità lo porterà a compiere un viaggio nell’altro mondo.
Ciononostante, l’attacco narrativo di ogni singola storia, non mediato, prevede un accordo con il lettore costruito precedentemente. È questo uno delle funzioni dell’apparato paratestuale, sul quale si ritornerà a breve. Per il momento si vuole segnalare come l’assenza di repertori standardizzati di apertura e chiusura, ed il loro effetto straniante per il lettore, tendano ad inquadrare il succedersi dei racconti entro un’unica possibile sequenza la cui ampiezza è delimitata dal libro stesso definendo in tal modo una fluidità ed instabilità della parola scritta5; ma anche un approccio ai testi che ha per obiettivo quello di spostarne la percezione da un’abituale rapporto con la tradizione delle fiabe quale repertorio dato e definito che viene trasposto sulla pagina e che abitualmente, proprio a partire dai marcatori più forti del genere, costruisce una identificazione che è anche chiusura e delimitazione della possibilità di racconto. Atteggiamento quest’ultimo che produce in definitiva una visione della fiaba quale documento slegato da una necessità odierna di racconto, ossia una sua incapacità di persistere nello spazio dell’oggi se non nella sua identificazione di oggetto libro.
Il risultato della pagina scritta di Cecafumo tende differentemente verso un effetto di presenza, ossia verso la formazione di un’impressione di vicinanza attraverso la quale il racconto sembra attuarsi e costituirsi nel momento della lettura. In questo senso, l’uso preponderante del tempo verbale presente focalizza ulteriormente l’attenzione sull’attualità del racconto della storia contribuendo, anche nell’immobilità tipografica, ad un tentativo di ridefinizione odierna di queste narrazioni, non solo come genere o come patrimonio tradizionale, ma come modalità e reinvenzione possibile di una trasmissione del racconto. La preponderanza del tempo presente si pone difatti in contrasto con la tradizione scritta di questo genere di racconti, favorendo nel lettore una diversa percezione degli stessi entro il sistema dell’oralità. Questo aspetto, a partire dalle teorie di Weinrich sul funzionamento dei tempi verbali nei testi, è stato studiato da Cristina Lavinio la quale ha segnalato, tra le altre cose, come le fiabe orali adottino prevalentemente tempi commentativi, un atteggiamento che comporta un «maggior coinvolgimento del soggetto enunciatore rispetto a quel mondo e, parallelamente, un coinvolgimento – in un’analoga partecipazione – del destinatario» (1993: 43); mentre le loro riscritture tempi narrativi6. L’uso del presente, continua Lavinio, è «funzionale alla drammatizzazione: il racconto viene ‘attualizzato’ […] e gli avvenimenti vengono quasi rappresentati» (1993: 59).
In linea con tale atteggiamento, nei racconti sono presenti anche effetti di circolazione del sapere, ossia momenti nei quali il narratore si pone come tramite di un passaggio narrativo più ampio che lega la storia ad una certa comunità: «Al paese mio, dicono dell’esercito invincibile. | Dicono che l’esercito invincibile dove passa ruba le bestie» (Celestini 2002: 85, corsivo mio). Il richiamo ad una fonte comune non è però inteso solo come recupero mimetico di atteggiamenti presenti nell’oralità; così come probabilmente non sono da cogliere in tal senso i tic linguistici, l’uso di una «scrittura oralizzante» (Guccini 2005a: 25), e in alcuni casi (ma relativamente all’assunzione della parola da parte di personaggi) le forme dialettali. Ripetizioni, tic e forme agrammaticali rientrano in effetti nella tradizione del racconto orale, ma in Cecafumo la loro rielaborazione è tale da non sottendere ad una presunta fedeltà ad un testo fonte (del resto non cercata per molti altri aspetti del racconto). Differentemente, tali strategie di enunciazione tendono ad inquadrare l’immagine della situazione narrativa che il testo suppone e vuole promuovere e che, nel caso del libro scritto, il lettore è chiamato a realizzare in linea non dissimile alla funzione narratore costruita in scena.
Lo «sceneggiare» anima la situazione narrativa con descrizioni, spiegazioni, dialoghi e gesti, stabilendo così un particolare tipo di rapporto testo di riferimento/performance, che ricorda, ancor più che la relazione fra la parte scritta e la parte interpretata, quelle fra sceneggiatura e film. Almeno parzialmente, i contenuti dell’oralità-che-si-fa-testo rispondo infatti […] all’esigenza di «girare» il film verbale dell’azione. (Guccini 2005a: 25)
In questo «film verbale dell’azione» che il destinatario segue tra le pagine, ad emergere con forza è la figura del narratore, ed il suo ruolo nella trasmissione del racconto. Questa assunzione della parola esibita davanti al lettore (e che il lettore stesso prende in carico nel momento in cui accetta il ruolo di narratore ad alta voce7) spinge a cogliere la sequenza dei racconti a partire dal ruolo centrale di chi assume la responsabilità del discorso, non soltanto nei termini di istanza narrativa, ma come figura autoriale necessaria «a garantire l’autenticità» a cui nella «perfomance contribuisce la presenza fisica (in carne ed ossa) del narratore, che filtra le voci e i punti di vista […], al di là dell’effettiva credibilità dei fatti» (Rimini 2006: 17)8. Celestini difatti non scompare fra i racconti, né si fa narratore invisibile, localizzando invece il testo attraverso una rete di rimandi, legami e motivazioni9, al cui centro si pone la figura di chi assume, attualmente, la parola e rivendica una processualità anche nella scrittura, ossia «il tentativo di arrivare a scrivere la parola ‘detta’» (Celestini 2002: X), secondo un modello espresso che è quello che «la verità non sta nel racconto ma nel bisogno di raccontarlo» (Celestini 2002: X).
Insomma… le storie cambiano mentre vengono raccontate. E cambiano perché devono essere raccontate ancora. Cambia la voce che le accompagna e l’occasione per raccontarle. Si confrontano con spettatori e linguaggi diversi senza perdere la propria natura orale. Cioè la possibilità di cambiamento. (Celestini 2002: XI)
Il mondo alla rovescia e il quotidiano
La possibilità di trasformazione e reinvenzione delle storie può però attuarsi a condizione che il destinatario condivida e riesca a comprendere il ruolo privilegiato che Celestini affida alla narrazione rispetto alla storia. A questa funzione sembra giungere uno degli apparati paratestuali già citati, il quale altrimenti potrebbe apparire come inaspettato in un testo di fiabe. Questo elemento aggiuntivo, un filtro supplementare al testo, consiste nella presentazione, variabile da poche righe a mezza pagina, di ogni singola storia. La sua localizzazione è sotto i titoli delle singole fiabe: lo stile usato è quello di una prosa regolare ad intento informativo, mentre, tipograficamente risulta in carattere minore rispetto al racconto vero e proprio. Si distacca dunque decisamente dal racconto, sia per stile che per tipologia di contenuti, richiamandosi idealmente alle pagine introduttive, rispetto alle quali però queste note non costituiscono esattamente una continuazione: se l’introduzione presenta il narratore rispetto al suo mondo (al teatro, all’ascolto e ricreazione dei racconti) e alla formazione del libro, le note analizzano singoli aspetti delle storie e della loro cultura di provenienza. Inoltre, la porzione testuale che precede i racconti non fa parte della lettura ad alta voce auspicata da Celestini, anche se il destinatario parrebbe il medesimo. Si potrebbe aggiungere che in questo caso il destinatario privilegiato è colui che assumerà la lettura ad alta voce, e non gli eventuali ascoltatori. Da questo punto di vista si tratta di un apparato che evidenzia un ruolo di accompagnamento e commento al testo vero e proprio.
È possibile dividere i contenuti che vi si trovano secondo diverse aree tematiche: una prima dedicata alla provenienza del racconto, se esso sia tradizionale o originale, o ancora se se sia frutto di un’elaborazione scenica10; una seconda in cui si esplicitano eventuali informatori, particolarmente per quanto riguarda le storie sul mondo contemporaneo11; una terza che informa sul tema trattato nel racconto ed il suo ruolo all’interno della cultura popolare (nonché, in alcuni casi, l’elaborazione di questo tema da parte degli studi etnologici12); ed infine, collegata a quest’ultima, una quarta nella quale si esplicitano certi atteggiamenti e categorie culturali differenti da quelli del possibile destinatario13 o si immagina il racconto entro il sistema di pensiero della realtà di provenienza14. Non per tutti i racconti tali elementi sono presenti insieme, anzi è frequente che ad ogni occasione ci si trovi di fronte ad una od al massimo due soluzioni esplicitate. Vi è dunque ampia libertà che ha come effetto quello di focalizzare ogni singola nota sul particolare ruolo ‘giocato’ dalla storia: chiarendo in tale maniera una qualche particolarità, la presenza di un tema culturale importante, la trasformazione effettuata.
L’importanza di un tale apparato nella ricezione dei racconti è evidente. Il lettore, seguendo la linearità del testo, non accede direttamente ad un incontro con le storie, ma questo è preventivamente mediato, discusso, connotato. Si apre in questo modo il ‘sipario’ costituito dal «c’era una volta», non lasciando però implicite le referenze culturali che la formula contiene. Difatti, in prevalenza nelle note non ci si trova più di fronte al motivo della trasmissione orale del testo, ma ad una più ampia ridefinizione della cultura popolare della quale l’autore offre un contesto pertinente per poter leggere più agevolmente elementi sottintesi della storia. Il carattere informativo delle note rivela poi uno dei suoi aspetti più interessanti in relazione ai racconti originali, particolarmente a quei testi in cui il contenuto discusso è in rapporto alla memoria collettiva, alla storia recente o a problematiche che non rientrerebbero, tradizionalmente, nel racconto orale (la seconda guerra mondiale, la condizione operaia etc.). In riferimento a questi testi, si comprende meglio come l’insieme delle note crei già una prospettiva d’indagine nella quale anche i racconti non tradizionali finiscono per rientrare, e a partire dalla quale questi si relazionano agli altri testi. Vi è dunque un effetto di corrispondenza culturale che è insieme «la volontà di suscitare una ‘nuova letteratura orale’ che non si limiti ad adattare le favole della tradizione, ma sia un loro equivalente» (Guccini 2005a: 169). Proprio «La fabbrica», racconto al quale Guccini si riferisce nella citazione, rappresenta una delle prospettive di come le forme ed i modi del racconto orale possano ancora indagare la realtà. In questo caso la nota pone al lettore delle questioni che la storia stessa sembrerebbe risolvere con la sua presenza:
È difficile pensare a una possibilità della fiaba nella cultura contemporanea. Il pensiero borghese l’ha costretta nell’ambito della letteratura per l’infanzia, mentre la fiaba era un vero e proprio genere della letteratura orale. [… Le fiabe] Memorizzavano, raccontavano e interpretavano tutto un universo. […] Per questo mi chiedo se la letteratura orale ha una possibilità nella cultura contemporanea. Se nel mondo presente può esistere un’oralità che è ancora in grado di raccontare i destini degli uomini e delle donne. (Celestini 2002: 204)
Il patrimonio del racconto orale diviene dunque una maniera di attraversare e costruire le storie anche nella contemporaneità, lo specifico recupero di un punto di vista che può attuarsi in una narrazione più ampia e diffusa, in un rapporto tra oralità, scrittura e riscrittura che di quel repertorio non recupera solamente delle storie ma una specifica forma di lettura del reale. Tramite questo accostamento e livellamento dei racconti (sia da un punto di vista stilistico che di focalizzazione del racconto) nel lavoro di Celestini si sviluppa il tentativo di veicolare una particolare visione della cultura orale entro la quale possono così rientrare, accanto a personaggi fantastici e mondi magici, figure che scorrono lungo il filo della storia italiana, fino a figure di ritorno, come in un’ipotetica continuità narrativa15. La costituzione di una nuova letteratura dell’oralità passa in questo caso attraverso una discussione e presentazione degli elementi e dei personaggi che a quella cultura appartengono, alla loro capacità d’esprimere una descrizione del quotidiano, e alla maniera di percepirlo e di parteciparvi. Si tratta di un approccio nella descrizione della realtà intimamente legato ad alcune qualità dei racconti popolari che trovano particolare realizzazione nelle riscritture delle storie e descrizione negli apparati paratestuali: il ribaltamento e la predilezione di personaggi marginali.
Di quest’indagine sul quotidiano, l’espressione più evidente in Cecafumo è Giufà, le cui storie sono messe in risalto rispetto alle altre della raccolta. I testi riguardanti l’eroe tragicomico della tradizione mediterranea (espressione della figura dello sciocco leggendario)16, con l’eccezione di due immediatamente precedenti gli altri ed uno posto fra i primi racconti, sono presentati difatti in una unità riservata, questa composta di cinque narrazioni, con titolo «Vita e morte di Giufà». Tali racconti, pur autonomi l’uno dall’altro, costituiscono quindi una sequenza il cui legame e la cui continuità sono sottolineate da più fattori. In primo luogo il titolo generale che inquadra e riunisce i sottotitoli dei diversi episodi; secondariamente la nota informativa in questo caso è posta solo all’inizio dell’intera sequenza, offrendo al lettore una visione d’insieme di quello che sta per leggere; terzo, l’inizio di ogni storia riprende e riparte dalla situazione precedentemente narrata (e, in alcuni casi, ripetendo immediatamente ad inizio racconto l’immagine sulla quale si è concluso il precedente17); infine, i testi di questa porzione sono quelli raccontati a voce sul supporto audio allegato al libro nel quale Celestini, accompagnato dai musicisti, interpreta in successione i brani mostrando insieme una maniera di girare «attorno ad un personaggio per svelarne i possibili destini» e un modo di avvicinarsi «alle occasioni del racconto nella tradizione orale» (Celestini 2002: 204).
Spostati dalla successione consueta dei racconti del testo, queste storie trovano una strategia di presentazione particolare. Le informazioni sul personaggio, sulle qualità (positive) che la sciocchezza comporta (Marrone 2012: 18-25), sono di fatto anticipate nelle note ai racconti di questo antieroe che precedono «Vita e morte di Giufà». Oltre a ciò, la mediazione testuale tende ad informare preventivamente anche sulla dinamica dei racconti di Giufà, ma più in generale del fiabesco, i cui testi possono, pur da una prospettiva non usuale, utilizzare elementi provenienti da altri contesti (avvenimenti storici, fantastici, personaggi reali ed inventati)18. La variazione, quale fattore interno al genere narrativo e alle sue riscritture, continua ad essere riconosciuta come modalità legata di volta in volta alla situazione comunicativa, anche se tale trasformazione non modifica la visione culturale che le storie mettono in scena. Di qui l’uso, nel breve ciclo, di storie provenienti da tradizioni diverse, le quali però non mutano il carattere del personaggio, bensì ne arricchiscono la figura. L’effetto che emerge da questa scelta è quello di focalizzare l’attenzione sulla costante dinamica attraverso la quale l’antieroe Giufà, per ingenuità o malizia, sovverte il senso del reale che gli si pone di fronte, riuscendo al tempo stesso a ricavare un vantaggio. L’insensatezza che accompagna così le singole azioni dello sciocco mostra una logica ed un’efficacia che si accumula di episodio in episodio, fino a segnare un percorso di vita del personaggio, formulando uno specifico modo di stare al mondo e di percepirlo. Non il solo Giufà però è personaggio di un mondo rovesciato. La chiarezza evocativa delle sue storie (duplicata nell’allegato audio) ed il loro facile meccanismo di capovolgimento degli aspetti del quotidiano è anche una modalità di chiusura del libro che riapre, in maniera retrospettiva, le storie già lette. Il lettore difatti può ritrovare lungo l’arco del testo declinazioni diverse di questo rovesciamento, declinazioni che però configurano una comune presa culturale del reale, o meglio una sua interpretazione: «la costruzione di un mondo alla rovescia […] non serve a tagliare i ponti con la realtà, ma a sovvertirne il senso, recuperando un altro modo di percepire il tempo e la coscienza» (Rimini 2009: 154).
Si ritorna, in tal modo, alle tematica di partenza proposta dall’articolo di Maria Corti, ossia come la cultura folklorica possa trovare un proprio ruolo entro il mondo contemporaneo. Le strategie di presentazione dei racconti di Cecafumo alludono difatti ad una continuità delle storie, e degli atteggiamenti culturali esplicitati da Celestini, entro l’esperienza del lettore, che è chiamato a reinterpretarle e a formarsi una nuova immagine del racconto per poterlo ripetere (Celestini 2003: 26). In questo senso, i testi non mostrano più solo una forma di una trasmissione di parola, ma tale riferimento diviene elemento privilegiato per indagare aspetti della memoria culturale condivisa dalla prospettiva del quotidiano (la dimensione relazionale del racconto) che si realizzerà, pur su un piano diverso, anche in altri testi (ancora una volta mobili in diverse espressioni artistiche)19; una maniera di costruzione sociale del racconto che, a partire dalla tradizione del fiabesco e del popolare, «dà forma alla nostra percezione del mondo, che ci dispone a certe aspettative, che struttura persino la forma che assumono i nostri sentimenti» (Jedlowski 2000: 60). Il lavoro di riscrittura di Celestini non è dunque limitato ad una traduzione di modalità narrative della fiaba. Il passaggio da testo orale a drammaturgia scenica fino a parola scritta segna invece un percorso di continuità che, poggiando sulla presa in carico da parte del narratore di un posizionamento della fonte della parola e della sua relazione intersoggettiva, restituisce un’esperienza del racconto riconducendo anche le forme folkloriche entro una quotidianità dalla quale esse non esprimono più solo un loro essere stato, ma una loro presenza, negoziabile e funzionale al momento del racconto, dalla quale infine, per l’ennesima metamorfosi, anche Marcolfo potrebbe riaffacciarsi.