Infiniti disegni disegna la pagina scritta dentro il contenitore di parole, il lettore. Non disegni solamente, giacché il libro è una mappa, la pianta di un casale, un palazzo, un castello, una regione, una patria. Codesta pianta non ha segni inutili, o neutri, e le lacune, gli iati sono non meno essenziali dei luoghi dove si edifica.
Giorgio Manganelli, Pinocchio : un libro parallelo, p. 11.
Le illustrazioni con cui Lorenzo Mattotti (Brescia, 1954) accompagna la storia del burattino più famoso della letteratura italiana, ripubblicata da Einaudi nel 2008 nella prestigiosa collana « I millenni », costituiscono l’ennesima rivisitazione di questa fiaba che, incarnando – secondo la casistica definita da Italo Calvino nel famoso articolo del 1981 « Perché leggere i classici » – « l’inconscio collettivo o individuale » (Calvino, 1991 :13), sarebbe divenuta anch’essa un classico, in quanto godrebbe di una perenne attualità in virtù della sua forza memoriale. Un libro totale o talismano, una semiosfera di linguaggi che, come si evince dalla bibliografia in calce al nostro studio, la critica più recente, in convegni internazionali o mostre, ha messo in luce grazie ad approcci interdisciplinari, e con cui ogni artista plastico, italiano e straniero, si è confrontato sin dalle prime pubblicazioni in volume alla fine del XIX secolo. Tra riduzioni per l’infanzia, adattamenti cinematografici – cartoons o film –, illustrazioni e commenti paralleli (Manganelli, 1977), le avventure di Pinocchio incrementano il dialogo tra le diverse espressioni artistiche, in una lettura che si configura ogni volta come una reinvenzione per via di orizzonti percettivi sempre nuovi. Tale rilettura consente all’artista di definire se stesso in rapporto o in contrasto col testo collodiano, promuovendo una sorta di analisi interiore, resa possibile dal viaggio iniziatico che il burattino impone anche al lettore che cerca in esso aspetti inediti.
La pluralità di sensi racchiusi nelle avventure di Pinocchio spiega il costante confronto grafico che Lorenzo Mattotti conduce con esse dal 1990, anno in cui la casa editrice parigina Albin Michel pubblica nella collana « Jeunesse » il racconto con le sue prime illustrazioni. Mattotti segna con quest’ultime non solo l’inizio in Francia della sua attività d’illustratore di libri per ragazzi, ma soprattutto una svolta importante nel suo percorso di disegnatore di album di fumetti che l’hanno imposto già dagli anni Ottanta sulla scena internazionale : in primo luogo Il Signor Spartaco (1982), in cui evolve dall’influenza americana underground verso una figurazione più pittorica per l’uso di pastelli e tratti di matita grumosi ed espressionistici ; in secondo luogo Fuochi (1984), in cui il disegno ed il colore diventano vettori di narrazione. La scelta stimolante di ridisegnare alcuni grandi classici lo ha portato nel 2009 ad illustrare nel contempo per le edizioni Seuil Le Corbeau (The Raven) di Edgar Allan Poe adattato da Lou Reed, e per Gallimard « Jeunesse » Hansel et Gretel dei fratelli Grimm.
L’edizione francese di Pinocchio pubblicata da Albin Michel, all’origine di tale percorso, viene ripresa in Italia da Rizzoli Milano Libri (1991), da Fabbri Editori (2001) e infine da Einaudi nella versione 2008, che costituisce uno dei due riferimenti bibliografici del nostro corpus. Tuttavia, il lavoro di illustrazione del testo di Collodi continua fino al 2012, quando le edizioni parigine Hélium ripropongono, nella traduzione di Nicolas Cazelles, le avventure di Pinocchio illustrate da Lorenzo Mattotti, che ai disegni ed ai pastelli delle edizioni precedenti, compresa quella einaudiana, aggiunge altri schizzi e pitture creati per l’occasione. In altre parole, dal 1990 al 2012, Mattotti compie un lavoro incessante di scavo delle virtualità espressive e mitiche della fiaba attraverso schizzi, disegni, pastelli, manifesti, prove d’autore, abbozzi in bianco e nero o a colori. Questo materiale è stato esposto in occasione di una mostra organizzata al Teatro Politeama di Poggibonsi dal 10 aprile al 23 maggio 2010. Curata da Maria Perosino (Le parole e i giorni, 2010), la mostra ha reso possibile una percezione globalizzante del corpo a corpo di Mattotti con un universo immaginario che condivide molti aspetti della sua estetica e della sua poetica, e mette a nudo i sensi che ogni tecnica esperita dall’artista acquista nell’addentrarsi nelle pieghe del testo collodiano. Come per Manganelli, che nel 1977 pubblica la sempre attuale e avvolgente lettura-commento della fiaba, si potrebbe parlare anche per Mattotti di un « libro parallelo » ventennale, che ha la funzione speculare di far riaffiorare sentori ed esperienze autobiografiche nonché di far dialogare, mettendole in una prospettiva critica, le diverse scuole artistiche dell’Europa tra Ottocento e Novecento. Un Pinocchio riscritto per dire le angosce ma anche le meraviglie del burattino nella sua scoperta delle spaventose oscurità del mondo. E anche un modo per ridisegnare, da parte di Mattotti stesso, il proprio percorso creativo : definite dallo stesso come un work in progress, le illustrazioni che corredano il volume einaudiano sveleranno, come vedremo, il suo laboratorio formale, un’officina le cui innumerevoli prove hanno la natura di « taccuino di un viaggio picaresco » (Le parole e i giorni, 2010), una sorta di deposito/canovaccio in cui si sono sedimentate le passioni nascoste dell’artista.
Tuttavia, il lavoro sulle illustrazioni realizzate da Mattotti presuppone la riattivazione del principio metodologico che regola la dialettica tra testo e immagini. I disegni e le tavole colorate raccolte nel volume del 2008 vanno forse intesi, secondo l’interpretazione che Daniele Barbieri propone nella sua rilettura delle « invenzioni poetiche di Lorenzo Mattotti », come « estrapolazioni narrative di momenti di una storia » (Barbieri, 2002 : 113) che, pur condizionandole, le fa esistere ? Niente fiaba, dunque niente illustrazioni di Mattotti ? Si tratterà piuttosto, distaccandoci da tale determinismo segnico, di verificare l’ipotesi secondo cui le illustrazioni non dovranno essere ridotte alla funzione parassitaria di pura glossa a margine del testo verbale, semplice riscrittura visiva secondo media diversi da quello verbale, ma dovranno sollecitare risorse ermeneutiche che, mettendo l’accento sulla peculiarità comunicativa intrinseca all’arte plastica, dica la percezione della realtà (anche quella narrativa e immaginifica delle avventure di Pinocchio) attraverso la semiotica dei segni grafici posti da Mattotti sulla pagina, e l’organizzazione architettonica che le immagini costruiscono nel gioco speculare col testo.
Per arricchire questa messa a punto metodologica, occorre citare l’altro tassello del corpus di questo studio. La riedizione einaudiana delle avventure di Pinocchio nel 2008 è seguita dal film d’animazione Pinocchio realizzato da Enzo d’Alò (Napoli, 1953), già sceneggiatore e regista di altri due cartoons di successo: La freccia azzurra (1996), tratto dall’opera di Gianni Rodari, e La gabbianella e il gatto (1998) tratto dal racconto omonimo di Luis Sepúlveda. Il Pinocchio, con le musiche di Lucio Dalla, è stato prodotto da Cometafilm e distribuito in Italia da Lucky Red (si veda il sito del film : www.pinocchio.it). Presentato alla Mostra internazionale del cinema di Venezia nel settembre 2012 e uscito in Francia nel febbraio 2013, esso porta a compimento un lavoro di ricerca plastica durato tredici anni. La parte grafica del cartoon è realizzata da Mattotti, che ha dovuto naturalmente tener conto della fluidità coloristica e solare con cui d’Alò ha tradotto, in linguaggio cinematografico, la sua percezione delle avventure del burattino. Non potendo per ragioni di tempo studiare in questa sede il film, metteremo a confronto i disegni e i pastelli del volume einaudiano del 2008 con le magnifiche pitture di Mattotti, tratte dai fotogrammi del film di d’Alò, riprodotte nel volume Pinocchio pubblicato dalla Rizzoli nel 2012. Il testo del Pinocchio costituisce una riscrittura, da parte di Enzo d’Alò, della sceneggiatura elaborata in origine a quattro mani con Umberto Marino (D’Alò, 2012). Le tavole che corredano il volume, straordinarie per la loro bellezza compositiva e cromatica, non sono il frutto della scelta di Mattotti ma della Rizzoli che, con il nuovo testo del regista, ha voluto proporre un approccio nuovo delle disavventure di Pinocchio.
Avvertiamo che nel dialogo tra testo e immagini escludiamo, per ragioni di spazio testuale, non solo la storicizzazione delle numerose illustrazioni cui ha dato adito il burattino collodiano, ma anche il parallelismo tra le numerose soluzioni artistiche esperite. Ci concentriamo così sui due più recenti esperimenti illustrativi della favola. Il ricorso a mezzi espressivi diversi, e la presa in conto di una ricezione più larga da parte del pubblico cinefilo, spiegherà forse la diversa impostazione grafica da parte di Lorenzo Mattotti e la lettura più avvincentemente positiva proposta da Enzo d’Alò.
1. Volti, sguardi, espressioni dinanzi all’orribile scoperta del mondo
1.1. Il mondo oscuro del primo Pinocchio
Il volume einaudiano presenta una doppia architettura : quella verbale legata alla successione dei trentasei capitoli della storia preceduti ciascuno da un incipit riassuntivo ; quella figurativa incastonata in essi da Mattotti secondo una prospettiva esegetica speculare.
Le illustrazioni sono strutturate secondo un doppio livello. Quattro quaderni di otto pagine ciascuno con tavole a colori scandiscono in modo irregolare il volume : un primo quaderno condensa, nel bel mezzo del capitolo IV, le avventure del burattino in quello che comunemente viene chiamato il Pinocchio I, cioè la parte che Collodi pubblicò nel « Giornale per i bambini » di Ferdinando Martini tra il 7 luglio e il 27 ottobre 1881. La storia terminava nel capitolo XV con l’impiccagione di Pinocchio da parte degli assassini (il Gatto e la Volpe), che volevano rubargli i cinque zecchini d’oro offertigli da Mangiafoco. Altri tre quaderni di illustrazioni a pastelli colorati si dispiegano lungo il Pinocchio II, cioè la parte che comprende i capitoli XVI-XXXVI, che Collodi dovette aggiungere per rispondere alla protesta dei suoi piccoli lettori che rifiutavano di veder morire il loro eroe. Tra il 26 febbraio e il primo giugno 1882 e, dopo un’altra interruzione, il 25 gennaio 1883 (Pezzini, 2002 : 8, 31), l’autore pubblica infatti altre avventure, nelle quali Pinocchio redivivo subisce successive metamorfosi fino alla trasformazione finale in bambino. Disposti alla fine del capitolo XXII, il secondo quaderno, nel mezzo del capitolo XXVII, il terzo, e alla fine del capitolo XXXII, il quarto, i quattro quaderni con le loro pitture instaurano una costante dialettica (verbale e visiva) col testo, ma soprattutto impongono un andirivieni espressivo con l’altro spazio illustrativo del volume : quello composto da schizzi, abbozzi, prove d’autore a matita nera o inchiostro di china che, inseriti ‘dentro’ il tessuto verbale dei capitoli, creano con quest’ultimi un gioco infratestuale euristico in base alla rilettura operata da Mattotti.
Rimandando alla seconda parte di questo studio l’analisi delle tavole colorate a pastelli che metteremo a confronto con quelle realizzate per il film di d’Alò, ci soffermiamo ora sui disegni infratestuali, cercando di individuare le grandi prospettive grafiche e la loro semantica.
Una visione d’insieme dei disegni in bianco e nero, ottenuti con una matita dai tratti forti e pesanti o con l’inchiostro di china, rivela secondo Emilio Varrà – che, in apertura del volume einaudiano riporta un’intervista a Mattotti, fondamentale per i risultati estetici in essa enucleati –, « la tensione espressionistica e la predilezione per la deformazione » (Collodi, 2008 : XXVIII), poiché a questo livello Mattotti sembra più preoccupato dalla definizione fisica dei protagonisti della storia che dal tratteggio dell’architettura paesaggistica. Se è vero che gli studi di architettura compiuti a Venezia gli fanno prendere coscienza dell’importanza dello spazio per raccontare una storia (Ciment, Mercier, 2003 : 47), è vero altresì che l’attenzione ai tratti espressivi, fisici, di un personaggio costituisce l’aspetto precipuo della pratica artistica di Mattotti. Sia in Incidenti (1978) che in Fuochi, egli costruisce una storia a partire dalle immagini (Ciment, Mercier, 2003 : 49), seguendo la logica più del segno grafico lasciato sulla pagina che della storia da illustrare, come nel caso di Pinocchio. Il segno, il colore diventano strumenti per caricare di senso le sue creazioni, per dire i silenzi o il terrore attraverso le espressioni dei volti, il tutto in una prospettiva metafisica. Se il fumetto obbliga alla narrazione, l’illustrazione, ricca com’è di « ricerche estetiche e grafiche » (Ciment, Mercier, 2003 : 54), consente, secondo quanto i due critici evincono da una conversazione con l’artista, una maggiore libertà nella costruzione di una storia. Così, grazie alla sola forza delle immagini decontestualizzate, Mattotti persegue nel ‘suo’ Pinocchio la sfida di far sentire le paure, le meraviglie e le seduzioni del mondo quali sono vissute dal burattino.
Intorno a lui si animano altri personaggi che l’artista disegna a mano a mano che appaiono nella diegesi. Così Mastro Ciliegia e Geppetto sono colti nel loro stupore di fronte al tronco di legno vivente. Ma tralasciando subito questi due padri, Mattotti si concentra, a partire dal capitolo III, in un corpo a corpo col burattino, il quale, straordinario nella sua identità verbale, lo è anche nella resa grafica. Senza tener conto dell’evoluzione narrativa, l’illustratore dice la sua ossessione per questa creatura eccezionale attraverso il tratteggio ostinato dei contorni fisici, e del volto in particolare. Così fino al capitolo VIII si assiste ad una persistente rappresentazione della fenomenologia fisica di Pinocchio (fig. 1 : p. 23). La sua bruttezza, i suoi movimenti sgraziati, il suo adattarsi al mondo sono suggeriti dai contorni accentuati dalla matita. Con i suoi tratteggi ripetuti, Mattotti traduce la difficoltà della creazione grafica corrispondente al lavorìo scrittorio compiuto da Collodi. Tali prove d’autore consentiranno più tardi di far vivere al burattino le situazioni più imbarazzanti, per esempio il primo incontro con la Volpe che, con la sua curva invadenza fisica per sedurlo, obbligherà il corpo ligneo ad un’elasticità che metterà alla prova l’arte plastica di Mattotti. Gli innumerevoli schizzi sulla fisicità di Pinocchio si compenetrano con la pagina scritta, la obbligano a forme tipografiche destrutturate. I disegni sembrano allora uscire, forzandolo, dal foglio bianco, interagire con esso anche quando non c’è corrispondenza con l’episodio narrato.
Nella sperimentazione segnica del corpo eccezionale di Pinocchio, Mattotti testimonia la sua ossessione per la resa grafica dei corpi. In uno studio dal titolo suggestivo, « Mattotti : corps et graphes », Thierry Groensteen riconosce il forte sincretismo dell’arte mattottiana (Groensteen, 2003 : 58), nella quale rivivono alcune delle maggiori tendenze pittoriche europee tra Ottocento e Novecento. Frutto di riscritture sapienti, la marionetta diventa, nella sua fenomenologia física, un esempio di intertestualità plastica, soprattutto nell’episodio in cui essa si guarda i nuovi piedi ricostruiti da Geppetto dopo l’incidente del fuoco (fig. 2 : p. 46). Mattotti riattualizza le cronofotografie in cui Étienne Jules Marey e Eadweard Muybridge sperimentano alla fine dell’Ottocento il dinamismo simultaneo ripreso poi dai futuristi : si pensi alle due opere del 1913 di Anton Giulio Bragaglia, la Fotodinamica o a La sberla (Hulten, 1986 : 136-137).
Malgrado il processo di simultaneità dinamica cui Mattotti lo sottopone, il burattino resta per tutto il Pinocchio I un essere che la legnosità ontologica rende refrattario a qualunque cambiamento e al quale impedisce di progredire, rendendo così ineluttabile la sua morte per impiccagione nel capitolo XV (Pezzini, 2002 : 8-9). Mattotti sembra conoscere le letture critiche sul testo collodiano secondo cui « la corsa alla rovina » (Pezzini, 2002 : 8) sarebbe da rapportarsi alla sua intrinseca essenza di burattino incorreggibile che può « solo continuare a ribellarsi o può morire » (Garroni, 1975 : 68). I tratti distintivi dell’ipseità, cioè dell’irrinunciabile essenza dell’essere (Ricœur, 1990), non sarebbero modificabili in Pinocchio, malgrado la sua disponibilità alle innumerevoli metamorfosi e alla varietà di situazioni narrative. A questo proposito, Paul Ricœur distingue ipséité et mêmeté, cioè la parte fissa e quella resa mobile dalle vicende cui il racconto espone un personaggio.
Gli schizzi che occupano i capitoli iniziali della fiaba evidenziano un progetto grafico mirante non solo a denarrativizzare l’illustrazione, a essenzializzare i tratti per cogliere l’umanità del burattino malgrado la sua natura lignea, ma sopratutto a « mettere il corpo umano in rappresentazione » (Groensteen, 2003 : 58). Le illustrazioni interrogano le virtualità delle forme per far vedere l’universo inferico e orroroso che Pinocchio scopre nel suo errare. Rifiutando il flusso che diluirebbe in modo naturalistico gli episodi del testo collodiano, Mattotti si concentra su epifanie rese possibili da personaggi simbolici e antropomorfi quali il Gatto, la Volpe, Mangiafoco, il Pescatore verde, l’Omino di burro e infine il Pesce-cane. Evitando il realismo mimetico a favore di scene che, pur nella loro intermittenza, assicurano una lettura coerente della fiaba, Mattotti mira alla pregnanza di un mondo la cui percezione grafica è carica di soggettività interiorizzata (Svdl, 2012). Rappresenta, condividendoli graficamente, il dolore e lo straniamento di Pinocchio a contatto con una realtà fatta di mostri da addomesticare. Oscillando tra rappresentazione figurativa e astrazione grafica, punta allora a reinventare il linguaggio dei segni e a suggerire un nuovo senso attraverso la funzione del corpo e dello sguardo.
I personaggi chiave del racconto, benché riflettano la portata simbolica della favola, ammiccano al reale. Nei capitoli X e XI, ben sei illustrazioni di Mangiafoco a tutta pagina dicono l’ossessione dello sguardo di Pinocchio e la sua interiorizzazione del mostruoso. In tal senso, Mattotti integra la percezione di tanta critica che ha visto nel Pinocchio I un mondo notturno ed ostile con cui il burattino si misura nel suo viaggio iniziatico di crescita. L’artista ne afferrerebbe la strutturale inquietudine attraverso la costruzione di un « sistema di corpi viventi fermati nelle loro attitudini » (Groensteen, 2003 : 59), che dicono la quintessenza espressiva del volto e del corpo quale è sottolineata dallo stesso Collodi : « il burattinaio, un omone così brutto che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro […]. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso col lume acceso dietro » (Collodi, 2008 : 56). Il Mangiafoco di Mattotti è essenzializzato nella metonimia delle sue grosse labbra, nello sguardo infuocato e nella mole gigantesca (fig. 3 : p. 64). Tra pitturale, grottesco e caricaturale, questo personaggio mostra, come tanti altri, il dialogo tra le varie sotto-forme dell’arte plastica di Mattotti che, seppur essenzializzata, si muove in un linguaggio coreografico allusivo.
La Volpe e il Gatto sono in questo senso i due personaggi antropomorfi più rappresentativi della poetica, messa in luce da Groensteen, affidata al corpo, al viso e allo sguardo. Percepiti come « criminali sventurati, figure poeticamente di grande prestigio » dalla penna prestigiosa di Manganelli (1977 : 85), essi sono legati per destino a Pinocchio. Soprattutto la Volpe, « eloquente, fantasiosa, svelta di riflessi mentali » (Manganelli, 1977 : 86), occupa la maggior attenzione di Mattotti in quanto essa esprime « il labirinto delle parole », secondo ancora la bella formula di Manganelli, la seduzione fallace della ricchezza menzognera, della felicità materiale al costo della perdizione affettiva. La Volpe-Tartufo è stigmatizzata nel suo sguardo e nella sua gestualità assoluta. Nella scelta grafica adottata per la Volpe e il Gatto, Mattotti sembra perseguire il lavoro iniziato con le illustrazioni di Anonymes (Seuil, 2000), dove, secondo la suggestiva interpretazione di Groensteen, gli sguardi di persone anonime « portano nel cuore dell’artista un’interrogazione muta ; noi decifriamo in essi un carattere, un modo d’essere al mondo, una nostalgia, un destino » (Groensteen, 2003 : 59). Piatte o inserite in una profondità prospettica, queste figure mattottiane sono icone e segmenti narrativi. Esse richiedono al lettore un ruolo attivo per reinventare lo sguardo e creare un nuovo senso. A partire da frammenti e scorci indiziari, si può e si deve ricostruire l’immagine-sequenza intera. L’osservatore-lettore rifà il quadro secondo una delle strategie di collaborazione tra opera d’arte e spettatore più innovative del XX secolo. Secondo Vincent Baudoux e Roland Jadinon (2003 : 65), che hanno studiato la funzione narrativa del colore nei disegni di Mattotti, questi susciterebbe nell’osservatore la pulsione a terminare l’opera grazie alla forza del suo sguardo.
Quando Mattotti cede alla tentazione di narrativizzare alcune scene è per dire col medium grafico un’ossessione del testo collodiano. Nei capitoli finali del Pinocchio I, quelli dell’inseguimento del burattino da parte del Gatto e della Volpe travestiti da assassini, dell’incendio del pino sul quale si è arrampicato e infine della sua impiccagione sulla Quercia grande, la ripetizione ossessiva delle parole indicanti la corsa, la fuga di Pinocchio per campi, sentieri e fossati trova un corrispettivo nella riscritttura delle illustrazioni con cui Enrico Mazzanti accompagnò la pubblicazione in volume del Pinocchio nel 1883. Pensate come « espansioni visive » (Pezzini, 2002 : 19) che impongono una durata percettiva alle azioni descritte – durata imposta dal gioco dialettico con le immagini e dalla riattivazione del ricordo di queste –, le illustrazioni di Mazzanti erano piuttosto delle « espressionistiche silhouette nere » (Pezzini, 2002 : 22), la cui funzione consisteva nel tradurre simbolicamente un’azione. Mattotti sembra ispirarsi a questa tecnica in alcuni disegni in cui l’essenzializzazione del nero a scapito della chiarezza dei tratti evoca l’angoscia, l’incommensurabile piccolezza e la fragilità del burattino di fronte ad un mondo ostile. Mattotti tradurrà con la stessa tecnica l’orrore dei capitoli XIV et XV del Pinocchio I inferico: nell’illustrazione finale (fig. 4 : p. 103) la morte trasuda dall’oscurità cromatica della pagina, dall’ostilità di una natura matrigna e di un tempo cupo e tempestoso che sbatacchia il corpicino di Pinocchio come foglia al vento. I disegni dicono altrimenti l’orrore della vita e della morte del burattino, quale era voluta in un primo tempo da Collodi.
1.2. I mostri, le metamorfosi e la lotta per la sopravvivenza
Nel Pinocchio II, malgrado la spazializzazione di situazioni narrative (la scena dello sciroppo amaro che la Fata non riesce a fargli bere o quella in cui il burattino è a letto circondato da Corvo, Civetta e Grillo), Mattotti persegue il suo progetto di visualizzare l’orrore attraverso il corpo e gli occhi di alcuni mostri. Il Giudice-scimmione è il primo nella seconda serie di avventure a deludere Pinocchio quanto alla sua richiesta di giustizia contro il Gatto e la Volpe. L’orrore per tale perversione si traduce in una figura dagli occhi spiritati, le fauci dentate, le grinfie uncinate e un corpo nero come inchiostro che protende sulla pagina ombre raccapriccianti. Nel Pinocchio II, l’organizzazione tra testo e illustrazioni segue uno scopo diverso. Troppo spesso quest’ultime fungono da passerella tra un capitolo e l’altro. Nel rapporto testo-immagine, la pagina finale di ogni capitolo, pagina bianca dispari, presenta uno schizzo che si riferisce a quanto sarà detto nelle pagine seguenti. Le illustrazioni possiedono così una forza narrativa autonoma e costringono il lettore ad espandere, mantenendolo nella memoria, il valore attanziale del disegno. In altri casi, un abbozzo illustra un punctum nella diegesi, una frase, un sintagma preciso. Così Pinocchio che cade con la testa conficcata al suolo per la paura del Serpente-mostro è l’oggetto di una illustrazione specifica. La solitudine di Pinocchio durante le sue peregrinazioni alla ricerca del padre e della felicità impossibile trova un corrispettivo nell’indifferenza di alcuni paesaggi, spesso assenti nel Pinocchio I. Lasciata la Fata, vissuta l’esperienza dell’inganno nel paese dei Barbagianni, fatto prigioniero dal contadino cui voleva rubare l’uva, il burattino si ritrova sull’isola delle Api Industriose, deserta ed ostile come il villaggio nel quale approda. Paesaggi simbolici e metafisici nei quali rivive il ricordo delle architetture vuote di De Chirico.
Altri mostri sono i carabinieri le cui figure spaventose e gigantesche segnano la perdita delle illusioni. È in questa progressione dolorosa verso la crescita di sé, che Pinocchio vede la morte con gli occhi a causa dell’ennesimo mostro collodiano, il Pescatore verde. Capitolo tra i più fantastici della fiaba, il XXVIII segna un momento chiave in quanto, nel processo di metamorfosi già subite e da subire, il burattino rischia il trapasso dalla natura lignea del suo corpo al regno acquatico, scambiato com’è per pesce-burattino destinato alla morte in una frittura succulenta. Il carattere straordinario dell’evento e l’incontro con un essere inimmaginabile giustifica l’eccezionale dispiegamento plastico da parte di Mattotti : sette illustrazioni del Pescatore verde nello spazio di un solo capitolo. Tutte fanno eco a quelle di Mangiafoco : siano esse contestualizzate o schizzi assoluti, a matita o ad inchiostro di china, tutte sottolineano la mostruosità fisica del Pescatore (fig. 5 : p. 202) attraverso anche la riscrittura del mostro King Kong nella famosa posa in cui tiene tra le mani enormi la vittima che invano si divincola.
Dopo l’Omino di burro, l’ultimo grande mostro sul quale si imbatte Pinocchio è naturalmente il Pesce-cane le cui tre magistrali illustrazioni occupano il capitolo XXXIV, a guisa di anticipazione del racconto, di accompagnamento e memoria di esso. Siano essi frontali o laterali, gli schizzi a matita esagerano con le sottolineature del carboncino la pericolosità delle fauci spalancate, mostrando la fila di denti entro i quali Pinocchio si perde nell’ennesima ma non finale metamorfosi animale (fig. 6 : p. 268-269). Mattotti illustra la descrizione di Collodi : « un’orribile testa di mostro marino, con la bocca spalancata come una voragine, e tre filari di zanne che avrebbero fatto paura anche a vederle dipinte » (Collodi, 2008 : 272). Dopo esser stato divorato dal mostro e averne risalito l’interno buio – in un attraversamento simbolico che allude all’alveo sconosciuto della madre assente (« Intorno a sé c’era un gran buio ; ma un buio così nero e profondo, che gli pareva di essere entrato col capo in un calamaio pieno d’inchiostro », Collodi, 2008 : 277) – da quegli stessi denti mostruosi e da quella « tombale maternità » (Manganelli, 1977 : 158) che gli ha fatto ritrovare il padre smarrito, egli riuscirà a fuggire, riconciliando le figure materna e paterna e ritrovando la libertà nella fusione con un benevolo universo notturno.
Nell’illustrare il percorso di crescita di Pinocchio attraverso la scoperta di sé nel mondo, Mattotti risente ancora una volta delle letture critiche più riconosciute. Nel Pinocchio II, le similitudini che costantemente associano il burattino all’agilità degli animali tendono a negare quella rigidità lignea che gli impediva di evolvere, condannandolo alla morte nel capitolo XV. Le numerose similitudini della seconda parte della fiaba attesterebbero invece una duttilità consentita da metamorfosi che talvolta prendono il carattere di degradazioni animali. È il caso dell’episodio in cui Pinocchio diventa cane da guardia contro le faine, rendendo servizio al contadino che alla fine lo libererà. Ma tali animalizzazioni sarebbero anche l’espressione di una elasticità, una sorta di « reimmersione nel mondo organico » (Garroni, 1975 : 117) che prelude alla transvalutazione finale, cioè la metamorfosi in bambino, che Mattotti rifiuterà di disegnare nel volume einaudiano.
La metamorfosi, intesa anche come cambiamento di sé e adattamento al mondo, è uno dei pilastri estetici che Mattotti articola col tema del viaggio così presente anche nelle altre sue opere : « il viaggio – afferma – è una buona struttura di sviluppo di una storia. […] Tutti i miei personaggi […] sono alla ricerca di un cambiamento interiore, portano questa speranza di una trasformazione possibile. Ma anch’io cercavo il cambiamento » (Ciment, Mercier, 2003 : 50). Tuttavia in Pinocchio il viaggio e le metamorfosi sono legati alla disubbidienza strutturale del burattino, e costituiscono la condizione stessa della fiaba. Per Manganelli la storia di Pinocchio è sempre « storia di una disubbidienza, presuppone un errore, una diserzione dalla norma, una condizione patologica » (Manganelli, 1977 : 128). Così, per realizzare la sua essenza, o per scontarla, gli occorre « viaggiare, percorrere spazi, pellegrinare, fuggire, perdersi, smarrire il nome » (Manganelli, 1977 : 128-129). Le metamorfosi sono legate dunque alla disponibilità di Pinocchio a ogni tipo d’avventura e ad un’esigenza di espiazione. Mattotti dedica due pagine alla metamorfosi più famosa, quella dell’allungarsi del naso, e alla trasformazione di Pinocchio e Lucignolo in asini. A questo proposito, se Collodi descrive l’orribile degradazione fisica con poche frasi nel capitolo XXXII :
« si piegarono tutti e due carponi a terra e, camminando con le mani e coi piedi, cominciarono a girare e a correre per la stanza. E intanto che correvano, i loro bracci diventarono zampe, i loro visi si allungarono e diventarono musi e le loro schiene si coprirono di un pelame grigiolino chiaro, brizzolato di nero […] sentirono spuntarsi di dietro la coda […] mandavano fuori dei ragli asinini » (Collodi, 2008 : 249),
Mattotti riorganizza lo spazio testuale e figurativo in funzione di un avvicinamento progressivo ma violento alla metamorfosi ciuchina. Contraddicendo l’ordine della narrazione, inserisce un’illustrazione quando ancora tale esito è inimmaginabile nel racconto. Crea così tra i capitoli XXX e XXXII una dialettica antifrastica tra testo e illustrazioni, anche se alla fine le due strade si ricongiungono grazie alla forza premonitrice e implacabile dei disegni che, aggiungendo particolari sempre più orribili, culminano nella deiezione finale dei due amici che si rotolano a terra. La doppia metamorfosi di Pinocchio in pelle di tamburo e da questa di nuovo in burattino segna l’acme di un percorso che lo vedrà trasformarsi in bambino, dopo aver attraversato mondi e spazi in un tormentato viaggio di formazione. Questa fine è rifiutata da Mattotti che preferisce terminare i suoi disegni in bianco e nero sul ricordo di un burattino testardo ma attratto dal cambiamento e dalle avventure.
2. La forza cromatica dei pastelli e il ritorno alle architetture spaziali
2.1. I pastelli al servizio di un universo metafisico
Le tavole colorate raccolte nei quattro quaderni del volume einaudiano offrono, rispetto ai disegni in bianco e nero, prospettive diversamente suggestive. Alla base della nuova percezione, che tuttavia coesiste con quella degli schizzi a matita, ci sono i colori che favoriscono un rapporto visivo e un’empatia più distesi. La scelta del pastello condiziona il risultato estetico: questo richiama, nella percezione, più che la fissità dell’olio su tela, le tonalità chiaroscurate degli acquerelli che producono effetti carezzevoli e poetici.
Secondo Daniele Barbieri, la « grana materica del pastello a cera » (Barbieri, 2002 : 120) permette l’articolazione plastica di « una materia pastosa e densa » con « l’idea di una materia leggera e diafana » (Barbieri, 2002 : 121). In altre parole, la matericità quasi tattile del pastello sulla pagina non contrasta, soprattutto nei disegni chiari, con la leggerezza suggerita da Mattotti. L’apparente contrasto, attenuato dall’equilibrio cromatico, è evidente nella tavola in cui, pur situati in un paesaggio solare, i carabinieri cercano Pinocchio per punirlo (fig. 7 : I q). I tenui contorni grigio, giallo, celeste e verde inquadrano in modo armonico il blu delle loro uniformi e il cipiglio minaccioso. Inoltre la costruzione architettonica classica fa convergere verso il triangolo centrale (il potere repressivo) l’attenzione visiva e il senso morale della rappresentazione.
L’organizzazione narrativa per episodi consente di isolare alcune scene fondatrici della fiaba. Nel primo quaderno la sorpresa di Mastro Ciliegia di fronte ad un pezzo di legno vivente contrasta con la tranquilla serenità di Geppetto di fronte ad un Pinocchio che ha già preso forma. Se nelle prime due tavole l’interno della casa è ricco di particolari, in altre il bianco dello sfondo protende la scena all’infinito. La tavola del pino che brucia, per esempio, è decontestualizzata rispetto al paesaggio, il che conferisce alla scena una dimensione metafisica assoluta : è il rogo sacrificale di Pinocchio sull’altare dell’ingenuità.
Le tavole del secondo quaderno testimoniano, rispetto a quelle del primo, la ricerca di « volumetrie forti e cupe » (Prìncipi e Princìpi, 2012) rispondenti alle disavventure di Pinocchio e all’ostilità degli elementi e degli esseri incontrati. In esso tutto è notturno, desolante : situazioni narrative e risultati plastici danno corpo alla lettura inferica del Pinocchio I da parte di Mattotti. Il secondo quaderno è inserito in una cornice di solitudine e morte. La prima tavola rimanda ossessiva alla tragica fine del capitolo XV. L’impiccagione, momento culminante della disfatta del burattino di fronte al cinismo degli uomini, ha dato adito a disegni a matita e, qui, ad una tavola notturna tutta risolta in pennellate nere e blu dell’albero squassato dalla tempesta. Riscrittura probabile de L’arbre dans le vent (1939) di Soutine, anche l’albero di Mattotti sprigiona l’energia della massa vegetale che, con le sue ondulazioni vigorose, sposa le forze del vento e l’impeto della natura. La figurina di Pinocchio sbatacchiato e gli elementi inclinati dal vento ridicono plasticamente lo scacco dell’inquieta ricerca della felicità impossibile (fig. 8 : II q).
La tavola che chiude il secondo quaderno rimanda ad un altro momento funebre : la disperazione di Pinocchio dinanzi alla tomba della Fata turchina (fig. 9 : II q). I pastelli in apparenza tenui nascondono uno spessore materico stratificato che contribuisce al dramma contenuto in questo quadro. Anche qui Mattotti recupera, rispetto ai disegni, una costruzione architettonica e una spazializzazione paesaggistica essenziale, frutto dell’intersecarsi di linee verticali e orizzontali. La roccia immensa, statuaria, che sovrasta, chiudendolo, il paesaggio, sottolinea, per contrasto, l’umanità del burattino che finalmente si piega col suo corpo sulla lapide della Fata. L’essenzialità della tavola colorata nulla toglie al dolore che Mattotti affida ai segni e alle tinte.
La duttilità dei colori e delle forme consente a Mattotti di articolare dramma e mostruosità. Nel pastello sul Pescatore verde (fig. 10 : III q), il carattere orrendo del corpo sembra stemperarsi grazie all’apertura prospettica, alla gestualità quasi umana e all’armonia coloristica in cui predomina un verde mostruoso. L’articolazione tra spazio chiuso e aperto sottolinea la ripresa del mito della caverna con il rifiuto della razionalità che verrebbe dall’esterno.
Nell’ultimo quaderno, l’attenzione di Mattotti si concentra dapprima sulla scena del feroce inghiottimento del burattino da parte del Pesce-cane e poi su quella della riconquistata libertà dalle sue fauci. In una notte lunare finalmente propizia, Pinocchio-padre prende sulle sue spalle il padre-bambino e lo porta in salvo sulla spiaggia (fig. 11 : IV q).
Mattotti fissa questa ennesima metamorfosi del burattino al quale non resta, una volta tornato a casa, che abbandonare la spoglia lignea posata su una sedia per assumere le vesti di bambino. « Larva svuotata d’insetto privato del suo soffio vitale originario » (Asor Rosa, 1997 : 607), essa testimonia le trasformazioni che fanno del Pinocchio un libro di formazione-trasformazione continua verso l’assunzione delle contraddizioni della vita. Asor Rosa ha colto con intelligenza il carattere terreno e laico di questo racconto estraneo a qualunque ragione trascendente. Se Pinocchio riesce a salvarsi in un mondo ostile, lo fa con mezzi di sopravvivenza che riposano su un’immensa libertà, di cui le metamorfosi rappresentano l’aspetto più problematico e avvincente. Il Pinocchio sventurato che cerca la vita fuggendola è anche per Mattotti un essere complesso, oscillante tra « ironia e umor nero » (Asor Rosa, 1997 : 618), energia e malinconia.
2.2. L’architettura degli spazi e il dialogo tra le arti
L’adattamento narrativo compiuto da Enzo d’Alò per il volume Pinocchio (D’Alò, 2012), a partire dalla sceneggiatura del film scritta in origine con Umberto Marino, si rivolge ad un pubblico vario, e si presta ad uno studio comparativo delle illustrazioni realizzate da Mattotti in un contesto di fruizione diverso da quello del volume einaudiano. Creazioni italiane tra le più originali degli ultimi tempi, il cartoon e la riscrittura della sceneggiatura si prefiggono di rimettere nel cuore della narrazione l’italianità della storia di Pinocchio, prendendo le distanze dalle versioni precedenti, dal cartoon della Walt Disney ai film di Luigi Comencini e di Roberto Benigni. Enzo d’Alò ha inteso trovare un punto di vista nuovo, quello del padre Geppetto che “si costruisce” un figlio e rivive in lui le avventure e i sogni della propria infanzia. Il cromatismo caldo delle illustrazioni di Mattotti all’origine dei fotogrammi coincide con la visione estetica di d’Alò che affida ai colori la capacità di esprimere gli stati d’animo dei personaggi (Che tempo che fa, 2013). Ripartendo dunque da Collodi, d’Alò ha messo l’accento sulla riconoscibilità del territorio italiano, attraverso la scelta dell’atmosfera toscana che permeava già il testo di Collodi. Il paesaggio collinare, dalle prospettive larghe e sinuose, le città e i paesi colorati, contestualizzando i viaggi del burattino, lo radicano in una dimensione artistica e storica.
Grazie alla loro impostazione teatrale e pittorica, le sequenze eccellono per l’impatto visivo e fiabesco che il testo riflette fedelmente. La sua iscrizione nello spazio geografico e culturale della Toscana, il rispetto dei dialoghi collodiani, dalla cui tessitura d’Alò riparte per reinventare questa storia universale, e la forza classica della fiaba (in virtù di un dialogo intertestuale con le versioni precedenti) sono all’origine della scelta di d’Alò e di Mattotti, scelta degnamente ricompensata col Movie Comics & Games Award nell’estate 2012.
Rispetto al carattere cupo, inferico, dei disegni e dei pastelli del volume einaudiano, il tono generale delle illustrazioni pubblicate dalla Rizzoli acquista luce e brio, mentre il cromatismo, i segni e le atmosfere risentono di una surrealtà mirante a sedurre il pubblico. Anche il testo di d’Alò testimonia un’orchestrazione tipografica che mette in risalto il dialogo tra testo e immagini : quando un’illustrazione occupa una sola pagina, questa è rigorosamente quella dispari, mentre il testo occupa quella pari. In occasioni importanti per l’economia del racconto, la responsabile del coordinamneto artistico, accompagnando la visione solare di d’Alò, non esita a proporre le tavole di Mattotti che ritraggono grandi vedute paesaggistiche o scene narrative di largo respiro.
I tratti morbidi e la resa poetica dei pastelli caratterizzano la struttura di molte immagini. Tutta la storia è organizzata in una cornice di rimandi sapientemente gestiti. L’illustrazione che segna l’inizio delle fughe di Pinocchio (fig. 12 : p. 8-9) fa eco a quella finale (fig. 13 : p. 180) in cui il bambino corre alla conquista del mondo insieme al padre. Il paesaggio toscano con i suoi cipressi di carducciana memoria, i colori caldi e i villaggi arroccati sui poggi sono la grande novità del disegno mattottiano. Lo stile generale delle illustrazioni dialoga, pur distaccandosene, con quello dei cartoni animati tradizionali (si pensi al cartoon diretto nel 1940 da Ben Sharpsteen e Hamilton Luske per la Walt Disney, e uscito in Italia nel 1947), mentre il radicamento nel territorio toscano costituisce la grande novità delle illustrazioni in sintonia con una lettura più ridente delle aventure di Pinocchio.
Vengono scelti i momenti più importanti del percorso formativo del burattino : in quel caso le avventure dei personaggi si svolgono in un paesaggio grandioso che occupa due pagine, caratterizzato da contorni morbidi e tonalità tenui. La campagna toscana vive in tutto il suo incanto coloristico e visionario (fig. 14 : p. 28-29) ed è messa in rapporto con una città maestosa ma metafísicamente deserta come quelle di De Chirico (fig. 15 : p. 94-95). Essa conserva la memoria dell’architettura rinascimentale, degli « schemi spaziali, grafici, volumetrici tutti italiani », secondo quanto Mattotti già confidava ad Emilio Varrà nell’intervista pubblicata nell’edizione Einaudi (Collodi, 2008 : XXXIII).
Persino i dialoghi più emblematici, quello ad esempio tra Pinocchio, la Volpe e il Gatto (fig. 16 : p. 46-47), hanno come sfondo i villaggi toscani, le cui forme misteriosamente spoglie evocano gli scorci immobili di Morandi o i paesi arroccati di Cezanne.
Ma questo è il mondo di sopra, armonico e rassicurante. Anche quando Pinocchio è ingannato, il paesaggio resta accogliente, estraneo alle sue disavventure. Le meraviglie del paese dei Balocchi nascondono invece una città sotterranea dove lo sfruttamento dei bambini-ciuchi è eretto a sistema. L’illustrazione sulla città infernale che si regge sul lavoro straniante dei giovani ospiti rinvia a Metropolis di Fritz Lang (fig. 17 : p. 152-153).
Il divertimento ha il risvolto amaro dell’alienazione prodotta dalla logica del rendimento industriale che il regista tedesco aveva colto nel turbinio della massa degli operai prostrati nella loro disumanizzazione.
Le illustrazioni riguardanti la liberazione di padre e figlio dal ventre del Pesce-cane ritrovano, al contrario, la tipica scenografia spettacolare voluta da d’Alò. La visione del cielo stellato da dentro le fauci del mostro (fig. 18 : p. 168) ha come perimetro la fila dei denti usata come un merletto che inquadra teatralmente la coppia mentre si prepara ad affrontare l’immensità dell’universo stellato. È su questa nota positiva nonché sull’ultima metamorfosi del burattino in bambino lanciato alla conquista del mondo insieme a Geppetto, che sembra rivivere col figliolo l’ebbrezza della propria infanzia, che si conclude il Pinocchio di d’Alò.
Oscillando nella loro rappresentazione tra mondo notturno e dimensione corrusca, secondo la migliore tradizione critica della fiaba, il lavoro grafico di Mattotti e la riscrittura di d’Alò illustrata da alcune tavole mattottiane mostrano come, sulla scia dell’interpretazione di Manganelli, il libro « cubico » di Carlo Collodi non smetta di offrire spazi paralleli per l’illusione e il sogno. L’aspetto novatore del lavoro grafico di Mattotti e di quello fílmico di d’Alò risiede nell’aver messo in luce virtualità espressive ancora nascoste e fertili, che si aggiungono alla già ricca messe di rivisitazioni del testo collodiano : alternando tra manifestazioni orrorose, esperienze oniriche e liberazioni fantastiche l’universo di Pinocchio non smette di favorire un dialogo intertestuale suggestivo con la cultura plastica, letteraria e cinematografica del XX secolo.