Note di ri-lettura di un testo drammatico: Lunga notte di Medea di Corrado Alvaro

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Résumés

Nel 431 a.C. nasce un archetipo del teatro universale: la Medea di Euripide. Il suo successo è dovuto anche alla diversa maniera di trattare il mito e il personaggio di Medea. Se i suoi predecessori avevano presentato una strega benevola, piuttosto una terapeuta salvifica, Euripide impone al pubblico una donna spietata, che per amore e superbia può uccidere anche i più cari. Ma soprattutto propone una discussione sulla società ateniese a lui contemporanea; sul passaggio dalla società matriarcale a quella patriarcale; sul ruolo destinato alla donna ; sui diritti della donna: la sua Medea è quasi scusabile nei suoi atti perché è una donna tradita, a cui il marito ha mancato di rispetto senza mantenere le promesse fatte. E introduce anche un Giasone basso, ingrato, che solo che dell'eroe argonauta ha solo più il nome.
La più nota commedia di Corrado Alvaro La lunga notte di Medea (1949) riprende la storia mitologica ma mette gli accenti sul dramma dell'estraneo, Medea, ma soprattutto su quello di Giasone, l'eroe che, per non diventare un essere comune, si abbassa a tutto.
La feroce eroina antica è cambiata per amore in una casalinga qualsiasi, attenta ai bisogni dei figli e del marito ma soprattutto attenta a non farsi notare o a non dare fastidio nella nuova patria. Soltanto che né il marito né il re di Corinto sono disposti ad accordarle la pace tanto ambita.
Il primo perché, passati gli anni degli slanci avventurosi, non vuole accontentarsi solo del ricordo delle sue gesta e vuole farsi coinvolgere nella storia presente della città. Per questo è disposto a tutto, anche a lasciare la donna ancora amata (elemento di novità rispetto a Euripide) e che ha fortemente contribuito alla sua gloria.
Il secondo perché sa che se lui mantiene tra le mura della città una donna-strega-eroina, la gente non dimenticherà il passato e che la figlia Creusa non ha niente con cui controbilanciare il carisma e la potenza dell'estranea. Medea cacciata via, Giasone diventato genero del re, la città potrà entrare in un'altra era, della tranquillità e della stabilità. Che non fanno parte del passato di Medea.
Invano Medea fa promesse di sottomissione, invano chiede il permesso di rimanere a Corinto. Non invia regali avvelenati, non minaccia nessuno (anzi supplica in ginocchio), vuole andarsene e lasciare i figli vivere accanto al padre e all'interno di una civiltà che lei ammira. È talmente cambiata che la sua ava, la Luna, non le dà più ascolto. Rifiutatole quest'ultimo gesto di pietà, non le resta che conformarsi a quello che la gente crede di lei: ridiventa (sempre per amore, per salvarli dalla furia della folla scatenata) assassina dei figli. Sa che solo così loro - altri elementi allogeni, frutto di due genitori emblematici – potranno essere salvati.
Corrado Alvaro opera quindi non una contemporaneizzazione del mito, ma una sua universalizzazione - in tempo e spazio - e sposta la discussione dalla protagonista (che continua a dare il titolo della tragedia) sul personaggio maschile, proponendo ancora un ritratto di arrampicatore sociale, locus communis della letteratura contemporanea.

En 431 a.c. naît un archétype du théâtre universel: la Médée d’Euripide. Son succès est dû notamment au traitement inédit du mythe et du personnage de Médée. Si ses prédécesseurs l’avaient présentée sous les traits d’une sorcière bienveillante, d’une thérapeute salvatrice, Euripide impose au contraire au public l’image d’une femme sauvage et impitoyable, capable, par amour et par orgueil, de tuer les êtres qui lui sont le plus chers. Mais il propose surtout une réflexion sur la société athénienne contemporaine, sur le passage d’une société matriarcale à une société patriarcale; sur les droits et devoirs de la femme : le comportement de Médée est presque justifié parce que son époux l’a trahie. Euripide nous présente ainsi un Jason vil et ingrat, qui n’a de commun avec le capitaine des Argonautes que le nom.
La plus connue des comédies de Corrado Alvaro: La longue nuit de Médée (1949) s’inspire du récit mythique mais il met l’accent sur le drame de la condition de l’étranger. La féroce héroïne antique se mue par amour en simple ménagère, soucieuse de remplir ses devoirs d’épouse et de mère, mais surtout de se faire accepter dans sa nouvelle patrie. Or, ni son époux ni le roi de Corinthe ne sont disposés à lui accorder la paix à laquelle elle peut légitimement prétendre. Le premier parce que, ne se contentant pas de la gloire qu’il a acquise par ses exploits passés, il aspire à jouer encore un rôle de premier plan dans la cité, et qu’il est prêt pour cela à répudier la femme à laquelle il doit tant et qu’il aime encore (élément original par rapport à Euripide). Le second parce qu’il sait que sa fille Creüse n’a rien qui puisse égaler le charisme et le prestige de Médée et que tant que celle-ci demeurera dans la ville, le peuple ne pourra l’oublier. Ce n’est que lorsque Médée aura été répudiée et bannie et que Jason sera devenu le gendre du roi que la ville pourra entrer dans une nouvelle ère de tranquillité et de stabilité.
En vain, Médée promet de se soumettre. Elle n’envoie aucun présent empoisonné. Non seulement elle ne menace personne, mais elle va jusqu’à supplier à genoux ses bourreaux. Elle accepte de laisser ses enfants vivre avec leur père au sein d’un civilisation qu’elle admire et ne demande pour sa part que la permission de rester à Corinthe. Elle se montre à ce point docile que son aïeule, la Lune, refuse de la secourir. Il ne lui reste qu’à se conformer à l’image terrible que les gens se sont formée d’elle. Toutefois, si elle commet l’infanticide, ce n’est pas par dépit amoureux mais bien par amour et uniquement pour soustraire ses enfants à la fureur de la foule déchaînée.
En revisitant le mythe, Alvaro fait un sort à la figure masculine et il nous livre un portrait d’arriviste, locus communis de la littérature contemporaine.

Texte

È venuto ultimo. Cioè terzo, dopo Euforione e Sofocle. Pubblico e giuria si sono uniti nel bocciare la tragedia presentata da Euripide alle Grandi Dionisie di Atene del 431 a.C. Ma l’autore è stato abbondantemente vendicato dai posteri. Se dei testi presentati dai primi due classificati non se ne ha traccia né titolo, la Medea di Euripide è diventata un invariante universalmente valido –nello spazio e nel tempo– di un mito che già a quella data attirava come pochi altri l’attenzione degli autori.

Infatti nelle versioni preeuripideiche Medea o non è l’assassina dei propri figli, o li uccide per sbaglio, o non si parla di altri crimini (quale l’uccisione del “germano” o di Pelia). Anzi non si vendica di Giasone perché sembra non ne abbia motivo. Anche se la tradizione europea ha trasformato Medea in una fattucchiera dai poteri prevalentemente malefici, nelle fonti antiche lei viene presentata il più delle volte come una strega benefica, dagli intenti salvifici: salva Corinto e/o Colco dalla siccità e dalle epidemie; edifica templi e santuari; istituisce cerimonie religiose; ringiovanisce Giasone, il padre di lei e di lui; risana la mente di Ercole; ridà il trono a dei re cacciati da usurpatori ecc.

Il testo proposto da Euripide opera molteplici innovazioni su questa tradizione. Affronta temi tabù per la società ateniese: il rapporto moglie-marito e i particolari della vita coniugale; la situazione della donna nella società democratica ateniese; il diritto della donna all’amore e alla fedeltà del marito; la vendetta della donna quando questi diritti non vengono rispettati ecc. Tutte modifiche che hanno sorpreso il pubblico del tempo, da una parte abituato all’ossequio della tradizione letteraria, dall’altra non ancora pronto a dibattere problemi apparsi da poco in seno alla propria comunità.

Ma la più notoria innovazione apportata da questa tragedia rimane la desacralizzazione delle figure mitologiche, abbassate a gente qualsiasi. Specialmente nel caso di Medea che – da dea o semi-dea – viene presentata come comune mortale (elemento straordinario rimane solo il carro alato della fine). Lungo tutta la tragedia la protagonista agisce quale donna, quale moglie privata del “talamo”, quale madre disperata, tutto però fondato sull'intelligenza e la ragione1. E – fatto importante per la nostra discussione – è stato sempre Euripide ad aprire una lunga tradizione di denigrazione della figura di Giasone, che presenta come basso, ingrato, egoista e specialmente vigliacco – tratto comune dei protagonisti di quest’autore.

Insomma il germanista Konrad Kenkel afferma che Euripide ha dato con questa sua versione la media delle possibilità, la norma, dalla quale – coscientemente – gli altri autori si allontanano2.

Lo stesso ha fatto anche questo autore drammatico italiano, avvicinandosi nel ’900 al mito di Medea, Corrado Alvaro. Sarebbe difficile e forse anche azzardato chiamare Alvaro autore drammatico o tragico. Anche se la sua passione per il teatro l’ha tenuto sempre molto vicino alla vita della scena, specialmente in veste di critico (per “Il Popolo” e “Il Mondo”), e l’ha poi anche determinato a scrivere lui stesso letteratura drammatica: i suoi testi teatrali non arrivano al valore raggiunto dai contemporanei Ugo Betti, Eduardo De Filippo oppure Pier Maria Rosso di San Secondo che lui ammira e loda nelle sue cronache teatrali3. Se fosse stato per Il paese e la città (1923), trasformato poi in Il caffè dei naviganti (1939), il nome di Corrado Alvaro non avrebbe trovato posto nemmeno nei pochi lavori che lo ricordano come autore di teatro. È stata invece La lunga notte di Medea (1949) a dargli un posto di rilievo nella vita teatrale italiana della seconda metà del secolo da poco concluso.

La pièce - commissionata da Tatiana Pavlova, che alla prima assoluta aveva un doppio ruolo : protagonista e regista – non cambia quasi niente del testo di Euripide o di quello più caro alla tradizione classica europea di Seneca, ma solo accentua delle caratteristiche già presenti nei testi antichi e, sempre su modello di Euripide, ma trasforma ancora di più i protagonisti in gente normale. Si è a lungo parlato della contemporaneizzazione del mito di Medea, nonché dell’avvicinamento del testo alvariano alla terra natale calabrese ecc. Niente di più errato, a nostro avviso. Il testo di Alvaro, anche forse grazie al lavoro di adattamento di altri testi antichi, è profondamente e solidamente radicato nella più classica tradizione degli autori elleni.

Dove interviene il maggiore e più interessante contributo di Alvaro è nella realizzazione dei personaggi. Già Euripide - dicevamo prima - umanizza Medea e denigra Giasone, ma lo fa dal punto di vista individuale, dello sviluppo individuale dei due coniugi: per amore lei accetta la trasformazione; per egoismo lui sceglie il tradimento. L’autore italiano continua su questa strada sottolineando ancor più la trasformazione dei protagonisti, ma arricchendo tutto ciò di un’analisi molto più approfondita, operando verso una universalizzazione (e non contemporaneizzazione) dello sfondo sociale e storico su cui si consuma la tragedia.

Si è già commentata – a lungo - la differenza che corre nel testo di Euripide tra le civiltà di Colco e quella di Corinto; tra la società matriarcale e quella patriarcale; tra la posizione che ognuna di esse adotta nei confronti degli dei ecc. La lunga notte di Medea viene a collocarsi in un non-tempo, in un non-luogo. La storia raccontata ben si può trasporre dall’antichità al ’600, al ’900 oppure al Quarto millennio se si vuole; a Corinto, in California oppure su un lontanissimo pianeta del nostro sistema solare, perché è la storia antica a dare questa malleabilità. È soltanto un atto di ubbidienza alla tradizione se Alvaro fa svolgere l’azione della sua tragedia sempre in Grecia.

Infatti si tratta della ciclicità dell’instaurazione di un certo tipo di equilibrio sociale e materiale: una data società è riuscita a superare uno stato che considera primitivo e quindi al quale non vuol più ritornare; un certo personaggio – dopo lunghe ed estenuanti prove - è riuscito ad imporsi sugli altri e adesso, invece di conoscere un tempo di tregua della sua vita, non può non temere chiunque possa togliergli il potere; una data popolazione ha raggiunto un equilibrio, segnato dalla pace, dal benessere, dalla tranquillità e considera che qualsiasi intervento allogeno lo possa distruggere.

Si è tanto insistito nell’analisi del testo alvariano sulla diversità apportata da Medea, sull’influenza nociva che lei potrebbe avere sulla comunità che la ospita, quando l’autore ci sembra abbia voluto insistere piuttosto sulla figura di Giasone che su quella della moglie. Sì, Medea viene da terre lontane e si trascina dietro un passato terribile, fatto di crimini e storie di orrende barbarie da lei riconosciute e che scusa con l’amore per Giasone. In nome dello stesso amore Medea comincia volontariamente a cambiare, si fa “ammaestrare” per potersi integrare nella nuova patria: “Ti ricordi come ero disordinata una volta: poi mi ha preso la mania dell’ordine […] Ho fatto il mio dovere fino all’ultimo”; “Io cercai di imparare diligente tutto quanto può piacere a un greco. L’amore delle piccole cose delicate e gentili. E la pietà, e il sorriso, e il rispetto degli altri. E il culto delle ore, dei giorni, delle feste […] Amai te. Desiderai il tuo popolo, la tua patria” (secondo atto, scena VI). La serva Layalé (che non è greca, è probabile che sia di Colco, venuta a seguito della padrona e che quindi la conosce da tanto tempo) non la riconosce più e si stupisce della pazienza e della padronanza di sé che Medea dimostra nel dialogo con Creonte. Medea è ormai cosciente che i suoi poteri diminuiscono continuamente e non fa niente per fermare il declino, anzi pacata aspetta il giorno in cui non potrà “operare altro che il bene e il male di cui tutti sono capaci” (primo tempo, scena VIII). E tutto questo perché lei ha fatto il suo “incontro” esistenziale, ha compiuto il suo destino incontrando Giasone.

Allora perché tutti la “temono giustamente” ancora? Lei stessa sa che ciò è inutile: “Chi temerà ancora Medea madre?” (primo tempo, scene VI-VII) e è lei ha aver paura. Ma ciò non basta alla nuova patria che ha appena raggiunto lo stato di equilibrio di cui parlavamo prima, che crede di aver toccato un altro livello di civiltà che le consente di scacciare chi viene da un’altra; in una società patriarcale ciò non può bastare a Creonte che, discendente dell’umile Sisifo, teme che qualcuno gli possa prendere il posto sul trono. Medea identifica correttamente la paura di Creonte: “Tu hai paura di lui (di Giasone), perché parla troppo alta la sua fama. Vuoi fartene un alleato” (primo tempo, scena X). Da solo, senza eredi di parte maschile, Creonte non può non temere la presenza di un campione della Grecia com’è Giasone, cantato (insieme a Medea) dalle labbra di tutti. Non lo vuole riconosce in principio e dà la colpa al popolo, che vuole vivere lontano dalle preoccupazioni del passato: “La gente teme. Il mondo sta diventando troppo grande. Ci sono troppi audaci che bramano i regni altrui. E ora il popolo vuole vivere in pace, col suo lavoro, tra le mura domestiche e il muricciolo del suo campo […] la gente vuole starsene tranquilla. E più si aprono le vie del mondo, più la gente si chiude. Più grande è la terra, più limitata la gente” (parte prima, scena X).

Ma – paradossalmente – è questo che vuole anche la nuova, “ammaestrata” Medea. Nella preghiera rivolta alla sua ava, la “celeste vagabonda”, parla di cose banali, inconsuete per il suo destino; tanto che la Luna non le dà ascolto: “Fiamma onnipotente, io non ti chiedo più cose tremende. Ti chiedo una patria lontana dagli uomini, dalle contese dei re, dalle gelosie delle città, dall’invidia degli uomini. Una casa in cui io sia padrona di me e dei miei figli, e accanto un fiumicello per confine. […] Fiamma portentosa, dammi un focolare” (primo tempo, scena III).

Tutt’altra è la posizione di Giasone. Passati gli anni della giovinezza (“ma può ancora fingere4 lo slancio della giovinezza”; parte prima, scena III), rilegato alla sua fama di grande condottiero, schiacciato dal suo stesso nome, pietrificato nel ricordo degli altri ma ancora in vita (“Quando uno è stato Giasone sarebbe dovuto morire in tempo. Un eroe deve anche morire al momento giusto […] E ora il tempo delle grandi imprese è terminato”; secondo tempo, scena VI) egli deve decidere se restare tale o adattarsi alla nuova era: proprio quel tempo di pace difficilmente instaurata anche da lui. Se vuole andare avanti “Giasone è costretto a piegarsi alla misera politica” (idem).

Giasone è greco, è a casa; quindi dovrebbe avere gli stessi ideali del suo popolo e che - abbiamo visto - corrispondono a quelli di Medea. Invece no: “Seguitare a vivere poveramente. Con due ragazzi senza avvenire. Questo era il mio tormento” (idem). La strada più facile e più rapida che trova per risolvere questo stato di cose è appunto sposare la figlia di Creonte: ciò soddisfarebbe tutti – Creonte avrebbe tanto l’alleato quanto l’erede; Giasone - più che raggiungere la soluzione ai problemi di natura materiale - farebbe il suo “incontro”, non con una donna, ma con il suo destino di grandezza. Se il Giasone euripidico fa una dichiarazione e una promessa di amicizia a Medea esule, quello alvariano fa una vera e propria dichiarazione d’amore (“Te sola ho amato”; “Tutto quello che avevo di meglio è rappresentato da te. Il mio passato è la tua terra. Il mio ricordo è il nostro primo incontro”; secondo tempo, scena VI).

Prima Medea aveva scusato con l’amore tutte le cose orrende del suo tetro passato. Sempre con l’amore Giasone scusa il suo tradimento: gli sembra di non aver adempiuto all’amore per la moglie, alla quale aveva promesso un regno. Adesso lo potrà avere, ma da solo: “Io e te, insieme, dovunque destiamo preoccupazioni. Il mio nome è grande. La tua potenza è temuta. Il solo rimedio è separarci, per il bene di tutti e due” (idem).

E Giasone si dimostra una seconda volta incoerente. Prima abbiamo visto che i suoi ideali non corrispondono a quelli della sua gente, rendendo così lui più straniero e “barbaro” di Medea. Poi lamenta il comportamento della folla, che non vuole abbandonare il suo eroe alla vita banale: “La potenza è come il male […] Ti spingono in alto, per forza. Per forza devi salire, fino alla vertigine […] E non sai bene dove ti crocifiggeranno. Ho paura Medea, ma non di te. Ho paura di questa forza che mi spinge, contro me stesso. Esito. Ma vado avanti. Ho paura. Ma salgo”. E ciò che nell’intento di Giasone avrebbe dovuto apparire un sacrificio fatto al suo passato, si trasforma in breve in sogno megalomane: “Ma regnerò. Sarò potente. Non sarò più il ricordo di un eroe. Ma un re. Non dovrò farmi perdonare la mia presenza. Il mio passato non sarà sospetto. Sarà la gloria mia e del mio regno. Regnare, comandare sugli altri, è una voluttà grande come l’amore. È possedere tutti. Essere nel pensiero di tutti. Nel timore e nell’amore di tutti […] Non posso essere un grande destino fallito. Non voglio” (idem).

In un solo punto Giasone è all’unisono con il suo popolo: il passato agitato, violento dev’essere cancellato e dimenticato. Mentre il suo passato deve partecipare alla gloria del regno che fonderà, quello di Medea non può che dare fastidio a lui e alla gente, non può che ricordare tempi di gloria ormai finita in sangue e aggressione. Per la paura che quei tempi possano tornare, Medea deve lasciare la città e portare con sé anche i frutti dell’amore di due uomini violenti. Ancora una volta i desideri di Medea e quelli dei corinzi coincidono; anche lei vuole lasciare la città così poco ospitale e andare a vivere persino in un deserto. A differenza della Medea di Euripide, questa non rimpiange il talamo, non prova a ricordare a Giasone i momenti di dolcezza che hanno condiviso e umilmente vuole uscire di scena. La prima Medea è passionale; la seconda è “placata”. Stavolta la passione viene suscitata non dal gusto di vendetta della donna tradita nella sua femminilità, ma dal senso di insofferenza della folla per quello che Medea rappresenta all’interno della loro città. Ne La lunga notte… Medea non minaccia Creonte, anzi gli abbraccia le ginocchia in preghiera, quindi l’ira della folla non si spiega se non per la volontà di cacciare via ed eventualmente annientare l’elemento alieno. Questa Medea non invia regali avvelenati: la follia di una vecchia della reggia scatena la pazzia collettiva che porta all’aggressione sui figli di Medea (che le donne ammantellate e persino Creonte stesso avevano presagito) e alla morte di Creusa (che è sospettata di essersi “rifiutata di diventare donna”; secondo tempo, scena XII). Questa Medea non aveva neanche la minima intenzione di uccidere i figli, anzi si preparava ad andarsene a loro insaputa e ad affidarli alla cura della nuova sposa del padre: è stata la situazione creata dalla ferocia della folla a spingerla a ucciderli, non potendoli “ringoiare nell’utero materno” (secondo tempo, scena XI). Lo fa per evitargli le paure future, lo fa per pietà. Chiede a Giasone, corso troppo tardi in aiuto dei figli perseguiti dalla folla: “Abbi pietà di me come io l’ho avuto dei miei figli” (idem). A ragione il regista Giancarlo Cateruccio che l'interpreta come “una Medea umana, umanamente maga e persino umanamente assassina”5.

Corrado Alvaro mette quindi al centro del suo lavoro non più la figura femminile, la nuova Medea, diventata poco interessante dopo che si è piegata alle leggi della civiltà e si è imposta una trasformazione quasi totale, ma quella maschile per la quale sviluppa - nell'intento di spiegare il tradimento - un intero sistema di motivi. Il Giasone euripideo sembra voler cambiare la non più giovane Medea, la “barbara” Medea con la giovane e mite Creusa per il semplice gusto di regnare. Tutto qui, senza tante spiegazioni. Alvaro però prova ad inquadrare lo sviluppo del suo protagonista in una serie molto più ampia della letteratura moderna e contemporanea, facendo di Giasone un arrampicatore sociale per eccellenza, non incapace di sentimenti ma capace di calpestarli per raggiungere lo scopo propostosi.

Bibliographie

Bibliografia generale

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Antonucci, Giovanni (1986/19963). Storia del teatro italiano del Novecento. Roma: Edizioni Studium.

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Ariani, Marco / Taffon, Giorgio (2001). Scritture per la scena. La letteratura drammatica del Novecento italiano. Roma: Carocci.

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Walker, Barbara G. (1983). The Women’s Encyclopaedia of Myths and Secrets. New York: HarperCollins.

Notes

1 Il nome di Medea proviene dal verbo greco “Mηδoμαι”, “meditare; consigliare”, un verbo che – a sua volta – viene dal sanscrito “madha”: “saggezza”. Quindi, se dovessimo affidarci alle considerazioni di Moreau (“comme souvent dans la mythogie, c'est le nom qui révèle ou trahit” Moreau 1994: 1280) la portatrice di un nome tratto da questa radice, come è anche il caso di “Medea”, avrebbe come ovvia prerogativa la saggezza. Retour au texte

2 Kenkel (1979: 32). Retour au texte

3 V. anche Alvaro (1976). Retour au texte

4 Infatti accanto al verbo “temere”, che domina il testo, regna “fingere”: Medea sa che Giasone finge la giovinezza e che Creusa finge l’indifferenza nei confronti di Giasone; Creonte crede che Medea finga di non sapere perché è venuto; il Nunzio crede che Medea finga nella sua ubbidienza agli ordini di Creonte ecc., tutto per nascondere appunto il timore che governa tutti i personaggi. Retour au texte

5 Canteruccio G., Note di regia, in “Sipario”, n. 694, 2007, p.45. Retour au texte

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Roxana Utale, « Note di ri-lettura di un testo drammatico: Lunga notte di Medea di Corrado Alvaro », Textes et contextes [En ligne], 4 | 2009, publié le 01 novembre 2009 et consulté le 28 mars 2024. Droits d'auteur : Licence CC BY 4.0. URL : http://preo.u-bourgogne.fr/textesetcontextes/index.php?id=199

Auteur

Roxana Utale

Facultatea de Limbi şi Literaturi Straine Università di Bucarest

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