La narrativa regionale italiana e la politica subalterna della sinistra

  • Italian Regional Fiction and the Subaltern Politics of the Left

Il saggio si apre con una ricostruzione storico-critica dell’attuale dibattito italiano su regionalismo e nazionalismo a livello linguistico, culturale e politico. In seguito, attraverso l’analisi testuale di alcuni romanzi presi a campione tra la narrativa regionale di Sergio Atzeni, Giulio Angioni, Andrea Camilleri e Silvia Ballestra, il discorso chiarisce la posizione di tali autori nel dibattito in questione. Essi hanno accentuato nelle loro opere elementi locali e regionali, sia culturali sia linguistici. Tuttavia, quanto più le loro narrazioni fanno spiccare i legami con un particolare paese, città, area o regione, tanto più esse mettono in rilievo il bisogno di una unità nazionale. Ciò è solo apparentemente un paradosso: queste opere sono rivolte a un ampio pubblico nazionale e tendono a divulgare elementi culturali e linguistici locali che potranno così essere conosciuti, accettati e diventare parte dell’identità nazionale.

L’article débute par une reconstitution historique et critique du débat qui, actuellement en Italie, s’ouvre tant au niveau linguistique, culturel que politique, sur des questions liées au régionalisme et au nationalisme. Puis, à travers l’analyse textuelle de certains romans choisis dans la production narrative régionale de Sergio Atzeni, Giulio Angioni, Andrea Camilleri et Silvia Ballestra, l’analyse apporte un éclairage sur la position de ces auteurs dans le débat en question. Ces derniers ont mis l’accent sur les éléments locaux et régionaux, aussi bien sur le plan culturel que linguistique. Toutefois, plus ces productions accentuent leur lien avec un pays, une ville ou une région, plus elles mettent en relief le besoin d’une unité nationale. Ceci n’est qu’apparemment un paradoxe : ces œuvres sont destinées à un vaste public national et tendent à divulguer des éléments culturels et linguistiques locaux qui pourront par la suite être identifiés, acceptés, avant de faire partie intégrante de l’identité nationale.

After a critical analysis of the historical background to the current debates in Italy on regionalism and nationalism, particularly those which focus on language, culture and politics, this essay offers an interpretation of the stance taken in these debates by contemporary authors of Italian regional literature such as Sergio Atzeni, Giulio Angioni, Andrea Camilleri and Silvia Ballestra. In their fiction these authors have accentuated local and regional elements, both cultural and linguistic. It is only an apparent paradox that the more the narrations stress their connections with a particular town, city, area, or region, the more they emphasize the need for a national unity. Targeted at a larger national public, these works aim to popularize local linguistic and cultural elements, which can thus be accepted nationally and become part of a national identity.

Plan

Texte

1. Nazionalismo e regionalismo

La tendenza di molta narrativa italiana a sbandierare le proprie origini regionali in funzione però di un discorso che vuole rinforzare l’idea di nazione è accentuata dal dibattito letterario, ma anche e soprattutto politico, su regionalismo, nazionalismo e federalismo, diventato particolarmente intenso con la realizzazione dell’Unità Europea e delle crisi, sociali, economiche e politiche che la stanno accompagnando, dall’Irlanda ai Balcani. Il coacervo di problemi relativi al rapporto tra centro e periferie e al rapporto tra organismi unitari e loro articolazioni locali si propone oggi su un doppio versante: uno interno ai diversi stati nazione (si pensi per esempio, nel caso della Francia, alle relazioni tra Parigi e il resto della nazione e, in quasi tutti i Paesi, a quelle tra il governo centrale e le varie regioni), e un altro interno alla federazione europea in fieri. Negli stati nazione esistono delle tendenze centrifughe verso un federalismo ‘nazionale’; all’interno della nuova federazione europea si fanno sentire in maniera molto forte le frizioni tra i diversi stati nazione nei confronti del centro europeo.

Sembra che al livello della consapevolezza critica delle problematiche conflittuali inerenti all’attuale momento storico, esista un divario tra le classi politiche che tradizionalmente si definiscono progressiste e gli scrittori. In particolare appare chiaro il fatto che la sinistra italiana abbia dimostrato, anche e soprattutto recentemente, una preoccupante subalternità rispetto alle esigenze dell’alta borghesia. Si può parlare, a questo proposito, di una sorta di coazione a ripetere propria della sinistra italiana.

È forse però opportuno fare un piccolo passo indietro e ricordare come già Gramsci abbia sottoposto a una severa critica il comportamento delle classi dirigenti italiane durante il raggiungimento dell’unità d’Italia attorno al 1860 e nel periodo successivo. Al tempo non esistevano in Italia, come d’altronde neppure nel resto d’Europa, dei veri e propri partiti. Ciononostante si era soliti suddividere lo schieramento politico in due versanti: destra e sinistra. Nel corso del Risorgimento, vale a dire del processo che ha portato la penisola da una frammentazione in tanti piccoli staterelli, più o meno sottoposti al controllo dell’impero austro-ungarico, alla costituzione di uno stato unitario e indipendente, è possibile vedere all’opera queste due diverse tendenze. Entrambe si differenziavano dai reazionari, cioè dai difensori dell’ordine costituito, dei vecchi principi che erano sovrani per diritto di sangue, di un assoluto predominio della tradizione cattolica anche nella conduzione degli affari politici. Di là dalla volontà di giungere a un’Italia unita e indipendente, le due parti erano contrapposte da delle idealità e degli interessi che si presentavano come radicalmente diversi.

Una di queste parti, pure al suo interno eterogenea, può essere ricondotta a quella che generalmente viene definita l’idea democratica. Per i democratici la posta in gioco era giungere alla costituzione di un’entità politica, uno stato che realizzasse i principi sanciti dalla rivoluzione francese, egalité, liberté, fraternité. E per fare questo non si doveva indietreggiare neanche di fronte a un’azione coercitiva da parte della collettività, ovvero dello Stato, nei confronti dei singoli che non intendessero rinunciare a antichi quanto ingiustificati privilegi. L’esercizio della sovranità doveva essere posto interamente e immediatamente nelle mani del popolo, perché solo la pratica della politica poteva davvero educare il popolo alla responsabilità politica. Lo Stato era visto come un organismo forte in cui necessariamente si doveva identificare tutto un popolo. Le sue essenziali attribuzioni erano il suffragio universale, la coscrizione obbligatoria, la pubblica istruzione e un’onnipervasiva fiscalità generale, cioè basata principalmente sulle imposte dirette e quindi in grado di pesare più sui ricchi che sui poveri (Rémond 1976).

Alla parte opposta appartengono coloro che in Italia sono stati chiamati i moderati e che possono essere fatti rientrare nell’alveo di quelli che sono generalmente definiti come liberali. Per costoro, delle tre parole d’ordine propugnate dalla rivoluzione francese, l’unica davvero importante era liberté. I liberali respingevano come perniciosa utopia l’idea dell’uguaglianza, giacché essa contraddiceva la comune esperienza, mentre diffidavano di un senso di fraternità che pretendesse di andare oltre un generico richiamo religioso (tutti gli uomini sono figli di Dio e perciò fratelli e con ciò basta). Il considerare la libertà come valore supremo si legava alla volontà di limitare quanto più possibile l’intervento dello stato nella vita economica. Lo stato doveva laissez faire, laissez aller. Poiché l’uguaglianza era solo un’idea priva di realtà, sarebbe stato anche assurdo affidare il governo a chi non sarebbe stato in grado di sostenerne la responsabilità; da qui i vari tipi di suffragio elettorale ridotto. Inoltre, poiché un’eccessiva concentrazione di potere nelle mani di un’unica istanza sarebbe stata molto pericolosa per la conservazione della libertà, assunta come si è detto a valore supremo, i liberali propugnavano la più netta separazione dei poteri e la moltiplicazione dei centri di governo che potessero farsi l’un l’altro da contrappeso. In Italia, in particolare, molti moderati sarebbero stati favorevoli a che il nuovo stato si strutturasse in senso federalistico (Salvadori 1990 : 228-299). Questo avrebbe temperato la forza dell’amministrazione centrale e avrebbe, di fatto, garantito alle vecchie élite locali di perpetuare il proprio potere. Non è un caso che molti moderati fossero strettamente collegati alla chiesa cattolica, in Italia particolarmente influente e presente in maniera capillare in tutto il territorio. Le speciali condizioni in mezzo alle quali si arrivò tra il 1860 e il 1870 all’unità d’Italia, sulle quali è in questa sede impossibile soffermarsi, portarono alla singolare conclusione che il nuovo Stato nacque bensì sotto la guida dei moderati, ma ebbe una struttura centralistica del tipo di quella propugnata dai democratici. Il nuovo Stato unitario, centralistico e non federalistico, non godeva nel paese di un’autentica legittimazione popolare. Voluto dalle élite borghesi, venne subito dalle masse popolari, allora prevalentemente contadine, come un nuovo male, una sorta di catastrofe naturale, una punizione divina dello stesso tipo di una carestia o di una pestilenza, né più né meno che un’ennesima calamità.

La costruzione di una coscienza popolare ‘italiana’ fu lenta, difficile, e mai completamente riuscita. Subito dopo l’unità il governo del paese fu saldamente nelle mani della destra (la cosiddetta Destra storica) che, per raggiungere il pareggio del bilancio, attuò una politica fiscale severa soprattutto nei confronti delle classi popolari (particolarmente nota e famigerata la tassa sul macinato, cioè sulla farina, ossia sull’alimento più diffuso tra la popolazione italiana). Essa si rese in questo modo estremamente impopolare e dovette cedere le leve del comando alla controparte, la cosiddetta Sinistra storica. Se la Destra al potere si era dimostrata centralista e statalista, non da meno fu la Sinistra, che mantenne l’impostazione delle strutture statali già date dalla Destra, limitandosi a correggerne molto parzialmente e in senso quasi esclusivamente demagogico la politica fiscale. In realtà, la Sinistra italiana di fine Ottocento, da De Pretis a Crispi a Giolitti, contribuì in modo determinante al costituirsi di un saldo blocco di potere volto a difendere gli interessi delle classi proprietarie del Nord (industriali e finanzieri) e quelle del Sud (grande proprietà agraria), cementate attorno alla monarchia (simbolo dell’unità del paese) e all’esercito, strumento indispensabile per l’imposizione violenta dell’ordine pubblico.

Questo succedeva alla fine dell’Ottocento. L’evoluzione successiva della politica italiana, dopo la comparsa sulla scena di altri grandi e nuovi protagonisti, partiti moderni come quello socialista e quello popolare, portò, come si sa, al fascismo (Salvadori 1990 : 354-380). È stato Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere a mettere in rilievo, con molta precisione, la responsabilità tanto dei moderati quanto dei cosiddetti democratici, per l’involuzione e l’imbarbarimento patiti dalla politica italiana a cavallo della prima guerra mondiale. In particolare Gramsci ha notato come i moderati siano riusciti a influenzare e a condizionare il patrimonio ideologico proprio dei democratici, tanto da determinarne, di fatto, la concreta azione politica (Gramsci 1975 : 2046-2100; Carpi 1981 : 431-474).

Qualcosa di molto simile sembra essere avvenuto negli ultimi vent’anni con il graduale spostamento verso il centro delle forze della sinistra italiana (chiaramente una sinistra ben diversa da quella ottocentesca, in quanto costituita da partiti moderni di ascendenza marxista, strettamente alleati alle confederazioni sindacali e con un forte radicamento popolare). Sull’onda della stagione degli anni di piombo, vale a dire di un periodo travagliato da attività terroristiche promosse in prima istanza dalla CIA e dai servizi segreti (Galli 1991; Willan 1991; Galli 1996; Flamigni 2003), si è avuto, in nome della difesa dello Stato, il cosiddetto abbraccio mortale tra i partiti di sinistra e il partito cattolico di governo egemonico nell’Italia del dopoguerra, la Democrazia Cristiana, universalmente noto come sentina di vizio e di corruzione. I partiti di sinistra hanno man mano rinunciato a quelle rivendicazioni politiche e sociali che maggiormente li caratterizzavano e che al contempo ne garantivano la forza in quanto legittimi rappresentanti delle classi subordinate. C’è stata una sempre più convinta accettazione delle regole del mercato e una totale identificazione nei valori della società capitalistica occidentale, conformata al modello statunitense. La Sinistra ha perso la capacità di farsi portavoce delle classi popolari nel momento in cui ha perso la capacità di parlare un linguaggio diverso da quello della borghesia egemone. Di fatto chi meglio negli ultimi vent’anni è riuscito a avere il consenso delle classi popolari è stato chi ha saputo sviluppare un linguaggio retoricamente e mediaticamente consono a comunicare non con un popolo di cittadini ma con un pubblico di consumatori. La Sinistra ha, nei suoi settori più rilevanti, tentato di ingaggiare col centro destra una lotta tutta giocata su questo terreno, prevedibilmente destinata alla sconfitta.

In questa dinamica svolge un ruolo essenziale anche il dibattito sul federalismo. Di fronte alle incognite aperte da una globalizzazione vissuta come una minaccia più che come un’opportunità, molti italiani hanno sentito l’esigenza di arroccarsi nella difesa del benessere raggiunto, chiudendosi in una visione egoistica della politica, della storia e della cultura. Nella mentalità comune questo benessere va difeso contro chiunque possa anche lontanamente minacciarlo. I primi a essere guardati con diffidenza sono ovviamente gli immigrati dai paesi del Sud del mondo, gli zingari e in generale i radicalmente diversi. Ma una volta messi in moto, il sospetto e la diffidenza non risparmiano neppure gli stessi connazionali. Solo così è possibile spiegare il nascere e il diffondersi nel Nord dell’Italia di un movimento federalista totalmente privo di radici storiche, la cui unica spinta propulsiva è stata la coscienza del divario esistente tra le ricche regioni del Nord e quelle del Sud, unita alla paura che la nuova fluida situazione internazionale potesse portare a un appiattimento economico verso il basso delle regioni ricche e non piuttosto all’innalzamento delle regioni più povere verso i livelli già raggiunti da quelle settentrionali.

La preoccupante subalternità alle istanze dei ceti alto borghesi manifestata dalla sinistra italiana, per lo meno da quella al governo nell’ultima legislatura, fa pensare a una sorta di coazione a ripetere (Cavallaro 2001). Antonio Gramsci ha fatto notare come i ‘moderati’ siano riusciti a ‘dirigere’ il Partito d'Azione dei mazziniani e dei garibaldini anche dopo l'avvento della Sinistra al potere negli anni 70 dell’Ottocento. Le prove che di sé aveva dato il nuovo Stato unitario nel Mezzogiorno non erano brillanti: dall'aumento della pressione fiscale alla sostituzione in blocco del personale amministrativo, dall'introduzione della leva obbligatoria alla liquidazione, in uno con gli ordini religiosi, della fitta rete di attività caritative in favore dei più poveri che questi gestivano, la politica della Destra storica si era contraddistinta per l'imposizione di una ‘modernizzazione forzata’ (dittatura senza egemonia, avrebbe detto Gramsci), che aveva prodotto nei territori meridionali un vasto malcontento.

Il punto è che - come ha messo egregiamente in luce lo storico della mafia Giuseppe Carlo Marino - a tirare le fila di questo malcontento e a esercitare una concreta ‘direzione intellettuale e morale’ sui ceti subalterni non era certo il Partito d'Azione: erano piuttosto i baroni che, soprattutto in Sicilia, avevano maturato nei confronti del potere centrale una fortissima avversione a seguito del ‘tradimento’ delle loro attese di nuova legittimazione sorte dopo l'appoggio esplicito da loro dato all'avventura garibaldina (Marino 1993; 1996). La rivolta di Palermo del 1866, evocata dal garibaldino Francesco Ingrao nel proemio al suo pamphlet del 1876, La bandiera degli elettori italiani (Ingrao 2001), come coraggioso tentativo del popolo siciliano di "farsi giustizia colle proprie mani" (e contraddistinta, in effetti, dalla singolare confluenza sul medesimo fronte di garibaldini, mazziniani, crispini, socialisti, borbonici, clericali e aristocratici), non era stata altro - in realtà -, che una manifestazione dell'egemonia esercitata dai baroni nei confronti dei ceti subalterni, e in primo luogo di una borghesia allora in rapida quanto violenta ascesa.

Il fatto che oggi molti intellettuali progressisti abbiano impugnato l'insulsa bandiera del federalismo - in nome del quale si sta compiendo fondamentalmente (se non esclusivamente) lo smantellamento delle funzioni progressive dello Stato sociale - sembra essere una chiara indicazione della concreta subordinazione degli intellettuali e uomini politici ‘progressisti’ alle esigenze proprie dell’alta borghesia, la quale è riuscita a tirare le fila del malcontento popolare per la cattiva burocrazia e la corruzione.

Il problema non è costituito tanto dalla Lega Nord, cioè dal partito politico che in prima persona ha gestito in maniera scopertamente opportunistica questa sindrome da insicurezza di cui abbiamo parlato, quanto dal fatto che quel tipo di atteggiamento politico è diventato senso comune condiviso anche dai partiti di sinistra, così come è diventato senso comune l’idea di uno stacco netto tra società politica e società civile, l’idea della fine di ogni ideologia, l’idea del tramonto della lotta di classe, la visione dello stato come di un’azienda e soprattutto l’idea che l’unico valore realmente perseguibile sia quello dell’arricchimento e del successo individuale. Non mancano certamente richiami ai valori tradizionali, in specie a quelli cristiani, ma la loro pretestuosità è evidente a tutti, e tutti lascia indifferenti, così come pochi italiani ignorano il modo truffaldino con cui Silvio Berlusconi, l’attuale presidente del consiglio, ha accumulato il suo ingente patrimonio e ciononostante molti di loro continuano a ritenerlo adatto a governare il paese.

È in questo quadro che va visto il dibattito degli ultimi anni sulla necessità da una parte di ‘ammodernare’ la costituzione, dall’altra di trasformare lo stato di impronta centralistica in stato federale. In realtà già la costituzione del 1948, finora vigente, aveva recepito le migliori istanze della tradizione federalistica già viva nel corso del Risorgimento e negli anni successivi all’unificazione. Era previsto il costituirsi di Regioni dotate di larghissima autonomia, rispetto alle quali lo Stato centrale si sarebbe dovuto gradualmente evolvere fino a costituire una cornice funzionale di raccordo, un campo comune al cui interno ogni parte del paese avrebbe avuto la possibilità di sviluppare le proprie peculiarità e di seguire le proprie vocazioni storiche, giovandosi dell’aiuto solidale delle altre. Questa parte della costituzione non è mai stata davvero messa in pratica, e dove le autonomie regionali si sono comunque realizzate esse hanno spesso portato, vedi il caso Sicilia, a situazioni di mal governo e di corruzione, senza nessun vantaggio per la popolazione e per il territorio.

Prima di perdere le elezioni il governo di centro sinistra ha proposto una legge, poi approvata dal parlamento l’8 marzo 2001, nota come legge sul federalismo. In quanto prevedeva dei cambiamenti alla costituzione, tale legge doveva essere ratificata da un referendum. Questo ha avuto luogo e ha ratificato la riforma dello stato in senso federalista proposta dal centro sinistra. Ma il nuovo governo di centro destra ha già annunciato l’intenzione di apportare ulteriori e sostanziali modifiche. Data la presenza all’interno del governo di forze tanto diverse come gli indipendentisti del Nord e i nazionalisti neofascisti di Alleanza Nazionale, è attualmente impossibile prevedere che direzione assumerà questo processo di modifica. La legge sul federalismo propone dei grossi cambiamenti al quinto titolo della seconda parte della costituzione. Quello più significativo è incluso nel nuovo articolo 117, dove si afferma che tra le materie su cui le regioni hanno il potere legislativo c’è anche “la tutela e sicurezza del lavoro”. Gli stessi portavoce delle classi imprenditoriali si sono chiesti, meravigliati, se non si trattasse di un refuso e se il testo dovesse in realtà stabilire che le regioni avevano potestà legislativa sulla “tutela della sicurezza del lavoro”. Tuttavia non si trattava di uno sbaglio e infatti Il Sole 24 Ore del 4 marzo 2001 notava che:

In materia di lavoro la riforma costituzionale sul federalismo potrà ingenerare una autentica rivoluzione. È l'intero scenario delle relazioni industriali che è destinato a cambiare. La ‘regionalizzazione’ della contrattazione collettiva appare una logica conseguenza. Legiferare, negoziare e, perché no, concertare a livello regionale sarà la regola, non l'eccezione. (Il Sole 24Ore 2001 : 7)

L’approvazione parlamentare di questa legge è stata salutata con entusiasmo dalla coalizione governativa di centro sinistra e con rabbia dall’opposizione. Queste reazioni tuttavia mistificano il pernicioso contenuto di tale legge. Con il pretesto che Berlusconi e il centro destra avrebbe tentato di stravolgere molto più radicalmente anche la prima parte della Costituzione (quella dedicata ai principi generali, tra cui la democrazia e l’antifascismo) il centro sinistra ha chiesto ai suoi elettori di accettare una legge dalla quale i lavoratori avevano tutto da perdere. È significativo che di fronte a un attacco così grave all’universalità del diritto e alla tutela del lavoro la Cgil si sia limitata a una noterella critica della segreteria nella quale esprimeva le sue preoccupazioni.

Potrebbe sembrare paradossale che una riforma di questo tipo sia stata messa in campo da un governo di centro sinistra appoggiato dai sindacati, ma non lo è poi tanto se si considera la situazione di complessiva subalternità della sinistra alla dominante ideologia capitalista e globalizzante di cui si è parlato. Il problema non è tanto politico ma di ordine culturale, con la complessità che il particolare intreccio tra coscienza politica e consapevolezza culturale comporta. Infatti per molto tempo l’Italia non è stata che “un’espressione geografica”, come diceva il principe di Metternich, divisa in tanti staterelli dotati di scarsa autonomia e con pochissimo in comune. Quel che almeno potenzialmente faceva di questa espressione geografica una entità politica era la tradizione culturale basata in primo luogo sulla diffusione in tutta la penisola di un’unica lingua letteraria. Ciò significa che a definire l’idea di Italia sono sempre stati chiamati in primo luogo gli scrittori. Questo ha comportato anche dal punto di vista della letteratura il pagamento di uno scotto assai pesante e cioè il fatto che gli scrittori italiani si sono sempre sentiti spinti, forse più del necessario, a fare da mosche cocchiere allo sviluppo storico e politico. Nella seconda metà del Novecento si è verificata una trasformazione radicale del rapporto tra intellettuale e società; per quanto ci interessa qui, tra scrittore e scena politica. Non possiamo certo qui soffermarci sul dibattito relativo al primato della politica o a quello della cultura, che vide tra i suoi protagonisti figure di primo piano quali Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista da un lato, e Elio Vittorini, romanziere di successo e intellettuale di sinistra dall’altro. È però importante ricordare come gli stessi sviluppi delle correnti artistiche prevalenti in questo periodo abbiano spinto gli scrittori a assumere nei confronti dell’impegno politico un atteggiamento distaccato quando non diffidente. Del resto l’evoluzione della società delle comunicazioni ha avuto sul rapporto tra intellettuale e società un impatto fortissimo e determinante. Gli intellettuali che oggi hanno una forma di influenza sulla società sono principalmente quelli che hanno accettato le regole del gioco e cioè quelli che si sono omologati alla cultura televisiva dominante. È in effetti improprio dire che essi esercitano una loro influenza. Piuttosto, essi usano il prestigio ancora riconosciuto alla loro funzione di intellettuali per corroborare e diffondere gli imperativi delle élite economiche che si sono nel frattempo affermate.

Tra cultura e società si è stabilito un circolo vizioso, che ha assunto come modello quello del sondaggio di opinione e delle tecniche di vendita. Gli scrittori che non accettano questo tipo di omologazione sono inesorabilmente tagliati fuori da ogni forma di influenza sulla realtà. Alcuni tuttavia cercano di adottare delle posizioni di compromesso, vale a dire essi tentano di inserirsi nei circuiti produttivi e distributivi (senza i quali non avrebbero un pubblico), restando al contempo ancorati a una visione critica del mondo non del tutto plasmata sulle fantomatiche leggi del mercato. Così avviene anche a proposito del tanto discusso problema del federalismo. Negli ultimi anni è diventato molto di moda nella pubblicistica giornalistica, e nel dibattito politico è diventato quasi un assioma, esaltare la peculiarità di ogni singola regione italiana e dichiararsi a favore di una politica volta a ‘liberare’ le energie proprie in ognuna di queste realtà locali. Come abbiamo accennato in precedenza, spesso questo spinge a perdere di vista come lo spezzettamento del potere politico e delle strutture amministrative comporti il rischio di una abdicazione di fatto delle prerogative egemoniche dell’autorità pubblica rispetto ai cosiddetti ‘poteri forti’ di taglio nazionale e transnazionale. E anche da un punto di vista squisitamente culturale è evidente il rischio che delle tradizioni linguistiche e culturali del tutto parcellizzate trovino la loro affermazione soltanto nella costituzione di nuove unità fasulle e conformi a esigenze di tipo commerciale del tutto aliene alla tradizione. Diversi studiosi hanno osservato che, già nel passato, in Italia la cosiddetta questione della lingua è stata agitata con particolare vigore soprattutto in occasione di periodi di crisi dovute a varie cause, di cui il problema linguistico-culturale era in pratica un efficace mascheramento. In Italia, come ci ricorda uno dei nostri più illustri storici della letteratura, Carlo Dionisotti (Dionisotti 1973), la questione regionale, che ha come suo fondamento la storia linguistica e letteraria, non ha mai avuto carattere d’urgenza. Sulla scorta di autorevoli studi linguistici, dai quali pure risulta un precipitoso e irreversibile processo di scadimento dei dialetti italiani e l’esistenza di una serie di italiani regionali, frutto di compromesso tra diverse esigenze, piuttosto che di una lingua comune basata sul tipo linguistico fiorentino moderno (Stussi 1973), Dionisotti può concludere che la storia linguistica, letteraria e politica escludono “l’ipotesi che l’attuale struttura regionale abbia mai avuto una esistenza autonoma e diritto di precedenza nei confronti di altre strutture, e di quella unitaria in specie” (Dionisotti 1973 : 1378). Tuttavia Dionisotti riconosce che la questione regionale esiste e insorge solo in particolari momenti di crisi, insieme a altre e maggiori questioni, prestandosi a illazioni ingiustificate. Vale la pena di ricordare le osservazioni di Gramsci a proposito del dibattito sulla questione della lingua, che era accesissimo nell’800. L’Italia storicamente era stata da secoli caratterizzata dall’esistenza di una forte differenza fra la lingua letteraria, scritta da pochi e parlata da pochissimi, e i dialetti locali, parlati dalla maggioranza e scritti da pochissimi esclusivamente per fini artistici. Molti intellettuali interessati al processo di unificazione risorgimentale vollero dare alla lingua un compito unificante. Non era però possibile risolvere con un’omogeneizzazione linguistica i problemi derivanti da differenze di strutture politiche e di situazioni sociali. Gramsci rilevò come il dibattito mettesse in luce altri problemi:

Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale. (Gramsci 1975 : 2346)

Oggi in Italia l’incoraggiamento dato dalle classi dirigenti alla “tutela e alla valorizzazione di culture e lingue locali”, anche attraverso l’approvazione di leggi specifiche (come è stato il caso per esempio nel 1997 della legge regionale sulla lingua sarda), può essere visto come parte del tentativo di isolare i ceti sociali più deboli all’interno delle singole regioni, in modo da indebolirne la forza di contrattazione.

2. Narrativa regionale

Questo incoraggiamento della differenza è cosa ben diversa dal discorso sulla differenza fatto da romanzieri che enfatizzano la loro provenienza regionale tramite l’utilizzo di elementi sia semplicemente linguistici sia più generalmente culturali. Proprio quegli scrittori italiani che più seriamente si sono posti e si pongono il problema delle radici regionali o comunque locali delle culture tradizionali e dei dialetti sono anche quelli che con più forza e con maggior convinzione sottolineano come ormai storicamente queste differenze regionali abbiano trovato una peculiare forma di composizione nell’unità culturale nazionale, italiana. Ciò diventa evidente se si prendono in considerazione alcuni casi specifici tra i più significativi della narrativa italiana degli ultimi decenni. Ci occuperemo in particolare delle opere a forte impronta sarda di Sergio Atzeni e Giulio Angioni, dei romanzi siciliani di Andrea Camilleri e di quelli di caratterizzazione abruzzese di Silvia Ballestra. Tuttavia discorsi analoghi possono essere fatti per le opere di molti altri scrittori, per esempio quelle ambientate in Sardegna di Marcello Fois (Fois 1992; 1997a; 1997b; 1998; 1999a; 1999b; 1999c; 2000; 2001; 2002a; 2002b; 2003; 2004; 2006a; 2006b; 2008a; 2008b), in Sicilia di Vincenzo Consolo (Consolo 1985; 1987; 1988; 1992; 1993; 1994a; 1994b; 1997; 1998; 1999a; 1999b; Consolo and Nicolao 1999; Consolo 2000; 2004) e di Santo Piazzese (Piazzese 1996; 1999; 2002), a Napoli di Giuseppe Montesano (Montesano 1998; 2001; 2003; Montesano and Vincenzo 2007), Salvatore Piscicelli (Piscicelli 1992; 1996) e Giuseppe Ferrandino (Ferrandino 1999; 2001; 2007), o nella Valle del Po di Gianni Celati (Celati 1987; 1993), o a Bologna di Loriano Machiavelli e Francesco Guccini (Macchiavelli 1974; 1975; 1976; 1979; 1980; 1987; 1991; 1995; 1997; 1998; Macchiavelli and Guccini 1998; Macchiavelli and Guccini 2001).

2.1. Sergio Atzeni

Sergio Atzeni1 può essere definito uno scrittore etnico (Marci 1999; Marci and Sulis 2001), nel senso che le sue opere hanno sempre al loro centro la rappresentazione del posto, della lingua, della cultura, della storia, del popolo di quella che lui considerava la sua patria, la Sardegna. Atzeni aveva un’idea precisa dell’identità etnica e la rappresentava in modo quasi ossessivo nelle sue opere. Tre parole caratterizzano questa idea: mobilità, varietà e miscuglio. La scelta del tema dell’identità come centro di riflessione e rappresentazione è in sintonia con l’ambiente culturale sardo, che ha sempre sentito la necessità di definire e difendere la propria fisionomia, spesso in paragone o in contrasto con i popoli che, in diverse epoche, hanno dominato l’isola, introducendo e imponendo la loro forma di cultura, la loro lingua e la loro visione del mondo. In Sardegna è ancora diffuso un modo tradizionale di concepire l’identità, quello di vedere la storia in una prospettiva statica, come una sequenza di eventi che scorrono su una base iniziale e immodificabile, la sardità, che resterebbe invariata nonostante le invasioni, le guerre, le dominazioni e tutto ciò che è successo nell’isola dall’età nuragica di 3000 anni fa. Tuttavia la maggior parte degli studiosi oggi è d’accordo nel vedere nel tempo un fattore di modificazioni inevitabili e ritiene che una entità non si possa conservare uguale a se stessa, nemmeno per un breve periodo. Atzeni non solo era d’accordo con tale concetto dinamico dell’identità, ma vi aggiungeva la sua idea di miscuglio etnico. Egli non credeva proponibile l’immagine di un’identità omogenea, fosse essa psicologica, etnica, individuale o collettiva. La struttura stessa delle sue opere si fonda su questo concetto. Si pensi per esempio al romanzo Il figlio di Bakunin, formato da una serie di interviste fatte da un anonimo personaggio che cerca di scoprire l’identità di un uomo, Tullio Saba, che abitava in un piccolo paese della Sardegna e che era noto appunto come ‘il figlio di Bakunin’. La ricerca non giunge alla verità su Tullio Saba – o meglio, arriva a tante verità quanti sono i personaggi intervistati. Appare evidente l’impossibilità di dare una definizione unica di un individuo e quindi a fortiori l’assurdità di qualunque pretesa di definire univocamente l’identità etnica di un popolo, specialmente di un popolo composto da etnie così diverse come quello sardo. Naturalmente non è solo a livello strutturale che Atzeni affronta la questione dell’identità. Nel suo romanzo più maturo, Passavamo sulla terra leggeri, l’identità etnica degli abitanti di Karale (nome che ovviamente richiama quello romano dell’odierna Cagliari, Karalis) è quella di un’umanità multiforme, composta di persone dalla più svariata provenienza, (Persia, Egitto, Grecia, Spagna) e comprendente razze e culture le più disparate (numida, etrusca, bulgara, fenicia etc.), e soprattutto “una plebe di migliaia di esseri umani cenciosi e ladri, dedita a ogni commercio, rimasuglio di tutte le dominazioni e priva d’altra stirpe che non fosse Karale” (Atzeni 1996 : 133-134). Si tratta di un’identità simile a quella della gente di Arbaré (così nel romanzo si chiama l’odierna Oristano, antica capitale del giudicato d’Arborea), la quale si ritrova simbolicamente rappresentata nell’altare della cattedrale, opera di un artigiano locale:

Barisone regalò alla cattedrale un altare di quercia scolpito da mastro Arsoco. Più che opera di falegnameria era arte di composizione: usando legni diversi uno dall’altro per specie e misura, da lui stesso incollati e incisi, Arsoco aveva creato un altare che suscitava ammirazione. Nel lato rivolto ai fedeli una lunga linea curva su cui saliva Iesus piegato sotto un albero tanto grande che l’altare non riusciva a contenerlo tutto. Davanti a Iesus nessuno. Alle sue spalle otto figure che ridevano, otto romani con denti enormi. Un dente di romano era otto volte più grande di un piede di Iesus. Il che non mancava di sorprendere gli attenti osservatori, durante la messa. (Atzeni 1996 : 134).

Una rappresentazione come questa non è certo apprezzata dai difensori dell’idea di un’identità sarda nobile e pura. Tuttavia Atzeni recupera il carattere positivo del miscuglio, dell’ambiguità delle origini. Egli costruisce un’immagine della sardità, dell’essere sardi, dell’identità sarda che è non solo forte e sicura come quella che si rifà a un’unica discendenza di sangue, ma soprattutto di questa molto più ricca e capace di entrare in rapporto dialettico con la realtà.

La lingua di Atzeni riflette questa concezione dell’identità nel suo impasto di italiano standard e espressioni del sardo. Egli era convinto che un popolo potesse esprimere la propria concezione del mondo anche usando un linguaggio d’importazione e portava come esempi Elias Canetti, l’ebreo bulgaro che scrisse in tedesco, o lo scrittore della Martinica, Patrick Chamoiseau, di cui Atzeni tradusse il romanzo Texaco per Einaudi (Chamoiseau 1994). Chamoiseau cerca di utilizzare tutte le potenzialità della lingua: mischia il linguaggio alto con i registri popolari, la lingua antica con quella contemporanea e nel suo francese inserisce tranquillamente parole e intere frasi creole. Atzeni pensava che la letteratura fosse il mondo del linguaggio, un mondo contraddistinto, proprio come quello umano, dal confronto di diversi gruppi etnici, dagli incontri e scontri tra le diversità. Letteratura quindi come universo la cui più importante e più bella caratteristica è la mescolanza, quella che permette ai diversi linguaggi di dialogare e arricchirsi fra loro. Ecco perché egli metteva nell’italiano standard quanto più sardo poteva, ma si accertava anche che la sua lingua potesse essere capita da tutto il pubblico italiano. Parole, espressioni e costruzioni del sardo sono strettamente legate a quelle italiane a formare un linguaggio personalissimo e nuovo ma pur sempre interno alla tradizione letteraria italiana. È facile vedere come la concezione dell’etnicità e dell’identità proposta da Atzeni tenda a eliminare piuttosto che a innalzare barriere tra la Sardegna e le altre regioni italiane.

2.2. Giulio Angioni

Anche nelle opere di un altro scrittore sardo, Giulio Angioni,2 si nota una simile tendenza verso l’unità attraverso il riconoscimento della diversità, nonostante gli esiti testuali siano alquanto differenti rispetto a quelli che si riscontrano in Atzeni.

Anche Angioni scrive in un italiano che contiene espressioni e parole derivanti dal sardo o sarde tout court. Tuttavia, se nelle opere di Atzeni, dalle prime alle più recenti, si nota col passare del tempo un aumento della componente sarda inclusa nel suo italiano (e questo proprio quando la sua concezione della letteratura si modifica e passa da un momento, se si vuole, di relativa chiusura e difesa, come nell’Apologo del giudice bandito, in cui forti sono le influenze della teoria della costante resistenziale (Lilliu 2002), a uno di apertura, rappresentato pienamente nelle ultime opere, Passavamo sulla terra leggeri e Bellas mariposas, in cui viene applicata la sua personale teoria del misturo linguistico), in Angioni risulta vero il contrario.

All’inizio della sua carriera di scrittore Angioni scrisse un racconto tutto in sardo, A fogu aintru, ma nei suoi romanzi più recenti, dallo Sprofondo, a Millant’anni a La casa della palma, gli elementi sardi del linguaggio non sono molto più importanti di altre influenze regionali e nazionali. Nello Sprofondo l’autore tematizza le differenze regionali che caratterizzano l’Italia. All’inizio del romanzo i carabinieri fermano il protagonista, il professor Lampis, un sardo che insegna antropologia all’università di Trieste, e lo chiamano Lambisse, con un forte accento meridionale. Più avanti nella storia il Capitano Mascolo invita il collega Manca a “sfrocoliarsene”, verbo in dialetto napoletano che in genere è reso in italiano con “fregarsene”. In un altro punto del racconto la provenienza napoletana di un magistrato è messa in rilievo dalla sua prontezza all’accettare il proprio destino con una rassegnazione presentata come una caratteristica tipica dell’anima napoletana. C’è anche un personaggio piemontese, l’ufficiale Carlo Savio, con tutte le caratteristiche che vengono di solito attribuite agli abitanti della sua regione. Nonostante non venga esplicitamente definito ‘falso e cortese’, certamente viene presentato come vuole il detto.

L’impasto linguistico-stilistico adottato da Angioni ha comunque una portata più ampia rispetto alla semplice presenza di questi riferimenti espliciti alle differenze regionali. In questo romanzo si ha il punto di arrivo di un percorso narrativo che Angioni ha incominciato con le sue prime opere, nelle quali la lingua era sostanzialmente un italiano regionale, molto simile all’italiano colto adoperato in Sardegna, con tutte le variazioni di registro dovute a esigenze mimetiche. Ma già in Una ignota Compagnia, del 1992, gli elementi sardi erano meno numerosi rispetto alle opere precedenti, mentre era notevole la presenza di componenti linguistiche provenienti da una grande varietà di lingue e dialetti, italiani e stranieri. Sembra che Angioni stia cercando di dare il suo contributo alla creazione di un linguaggio che abbia la plasticità della lingua letteraria, con l’intera gamma di ambiguità e tutta la profondità che questa è in grado di produrre, ma senza perdere la potenzialità comunicativa della lingua parlata. Anche in questa sperimentazione è possibile vedere all’opera il tentativo di costruire una sorta di italiano regionale nazionale.

2.3. Andrea Camilleri

Andrea Camilleri è stato uno dei casi editoriali più interessanti di questi ultimi anni. È diventato famosissimo quasi all’improvviso grazie ai suoi racconti gialli di ambiente siciliano che hanno come protagonista il commissario Montalbano (Camilleri 1994; 1996a; 1996b; 1997; 1999; 2000; 2001; 2002; 2003; 2004a; 2004b; 2005; 2006a; 2006b; 2007; 2008). Nel febbraio del 2003 il Presidente della Repubblica italiana ha addirittura conferito all’autore siciliano il titolo di Grande Ufficiale, una sorta di consacrazione ufficiale del suo successo letterario: si tratta di oltre cinque milioni di copie vendute in Italia. Un consenso al quale va aggiunto l’enorme pubblico televisivo che ha seguito con interesse e passione gli adattamenti delle avventure del commissario Montalbano trasmesse dalla Rai.3 C’è in Camilleri una forte insistenza sulla sicilianità. Montalbano può essere visto come il prototipo di un nuovo siciliano che mette a profitto tutti i dettami della modernità, ma senza dimenticare le radici: non vuole avere promozioni per non essere costretto a trasferirsi, si interessa di storia e di tradizioni patrie, combatte la sua battaglia quotidiana con i criminali per costruire una Sicilia migliore, più ordinata e meno mafiosa, mangia siciliano, parla, come tutti gli altri personaggi siciliani del resto, una lingua italiana sì, ma fortemente sicilianizzata, un miscuglio raffinato di italiano regionale siciliano e di italiano nazionale che senz’altro è uno degli elementi di più forte richiamo e dei motivi dell’affetto del pubblico. Montalbano è un siciliano a tutti gli effetti, tuttavia è aperto verso il mondo. Per esempio, ha una relazione amorosa con una donna genovese, un rapporto di amicizia con una disinibita svedese. Il caso di Camilleri è tanto più interessante in quanto la questione dell’identità non viene problematizzata esplicitamente come in Angioni, ma emerge quasi spontaneamente dalle pagine dei suoi racconti.

Camilleri non è un antropologo di professione, ma non è certo privo di interessi in questa direzione, come mostrano i suoi molti romanzi storici di ambiente siciliano (Camilleri 1993; 1995a; 1995b; 1997a; 1997b; 1998a; 1998b; 1998c; 1999; 2000; 2001; 2003). Nelle sue storie ci sono molti personaggi di diverse regioni, dai piemontesi ai romani, dai fiorentini ai napoletani, ecc. Non sono di solito personaggi principali, ma servono a sottolineare le differenze che tra le diverse regioni esistono nella lingua, nei costumi, nelle tradizioni. Un esempio di come Camilleri tratti il tema delle differenze regionali può trovarsi nel romanzo La concessione del telefono. Il questore di Bergamo dice al siciliano Commendator Parrinello: “[…]lei avrà capito che io sono uno che dorme con la serva" e si sente rispondere "No, non l'avevo capito. Ad ogni modo, fatti suoi, lei è padronissimo" (Camilleri 1998c : 35). Laddove è evidente la totale incomprensione da parte del siciliano dell’espressione idiomatica lombarda.

2.4. Silvia Ballestra

Diverso è il caso di Silvia Ballestra,4 non fosse altro per il gap generazionale che la separa dagli scrittori di cui si è parlato, ma anche a causa della sua particolare estrazione regionale. Mentre con i due sardi e il siciliano ci si trova in presenza di uno specialismo regionale esasperato da una lunga tradizione di autonomia o di aspirazione a essa, con la Balestra il particolarismo regionale si fa più sfumato. Intanto si tratta di una scrittrice nata nella regione delle Marche, che pone al centro del romanzo La guerra degli Antò dei giovani provenienti dagli Abruzzi, una regione vicina sì alle Marche, ma diversa. È come se per la Balestra non sia tanto importante il rappresentare in tutte le sue sfumature, in tutta la sua verità la realtà regionale che più le è propria, quella con cui maggiormente si identifica, quanto piuttosto usare un qualsiasi particolarismo regionale, anche se realisticamente connotato, per farlo reagire all’interno di un contesto sovraregionale, sostanzialmente italiano. Protagonisti del romanzo sono quattro giovani, stranamente tutti di nome Antonio, che cercano di reagire a uno status di piatta normalità attraverso la ricerca di vie di fuga di vario tipo, unificate forse soltanto dal loro presentarsi come punk. I capelli a cresta colorati di azzurro e di verde, le borchie di ferro sono forse l’unico contrassegno di una diversità più sbandierata che reale. Di fatto sono quattro giovani che vivono di televisione, spinelli e musica ‘alternativa’, fanno l’uno il postino, un altro l’infermiere, un altro il giornalista di provincia, un altro lo studente disoccupato, come un infinità di altri loro coetanei. La vicenda prende corpo con lo scoppiare della prima guerra del golfo, per sfuggire alla quale uno di loro si trova a fuggire a Amsterdam dove uno dei compari è già arrivato in una delle tipiche fughe giovanili, inquiete e senza meta . Ciò che evidentemente interessa la Ballestra, che pone se stessa nel gioco comparendo come uno dei personaggi del romanzo, non è la coerenza narrativa di una trama che rimane comunque volutamente sconclusionata (dopo vari disastri gli Antò si ritroveranno tutti al paesello di partenza, senza aver minimamente cambiato la situazione iniziale). Al centro dell’attenzione piuttosto vi è la dinamica che proietta le vicende di questi ragazzetti di provincia (di una provincia ben determinata, l’Abruzzo) prima nella realtà interregionale di Bologna, città universitaria, industriale e centro finanziario, dove si incrocia gente proveniente da tutta Italia, poi addirittura in un contesto europeo, rappresentato simbolicamente da Berlino e Amsterdam, metropoli per eccellenza cosmopolite. Proprio dei quattro Antò è una sorta di gergo giovanile dalla forte impronta regionale, sia per costrutti e per parole forzatamente italianizzate, sia per usi propriamente dialettali. Così, per esempio, Antò Lu Zorru spiega agli amici come non abbiano funzionato le raccomandazioni di un’amica della madre, tramite le quali sperava di non dover partire militare:

uno briga, gira, se dà da fa’, arriva persino, toh, a leccà ‘l culo, e dopo se la prende sempre nel derrière!”
“Cioè?”
“Su ppe’ lu culu, cumpa’. Su ppe’ lu culu. La chiavica amica di mamma aveva giurato in tutte le lingue che il nominativo mio era stato escluso dai computer dell’esercito, che in subordine avrei potuto esibire un certificato medico da cui risultavo affetto da angina spèctori fulminante e pure un casino d’allergie che mi rendevano inadatto al servizio di leva. E dopo tutte ‘ste stronzate, ecco il risultato: me devo imbarcare sull’incrociatore E. Duse. Io, che nun zo manco nuota’.(Ballestra 1992 : 104)

Si notino le espressioni come se dà da fa’ - su ppe’ lu culu, che sono direttamente dialettali, mentre altre come leccà ‘l culo, la chiavica amica di mamma, un casino d’allergie, ste stronzate, appartengono a un linguaggio familiare diffuso in larga parte d’Italia. Il linguaggio dell’ambiente degli Antò è spesso di greve volgarità. In particolare abbondano i riferimenti a sesso e escrementi, sia nudi e crudi, sia messi ancor più in risalto da apparenti eufemismi. La Ballestra in realtà riprende in questo una delle caratteristiche più diffuse in tutta Italia dell’uso quotidiano e non solo giovanile. Ma lo fa, occorre sottolineare, da un punto di vista prettamente femminile. Non c’è acrimonia, non c’è amarezza nello sguardo che registra il turpiloquio corrente sulla bocca degli Antò, nonché la loro cieca adesione, a dispetto dell’esibito punkismo, ai più vieti cliché del maschilismo tradizionale. Il fatto è che l’equanimità esibita di questa rappresentazione è resa possibile da un estremo distacco ironico rispetto al mondo narrato. E questo sguardo distaccato è a sua volta reso possibile dal fatto che esso supera, in una prospettiva nazionale e sopranazionale, l’ambito ristretto di una visione municipale. Siamo in presenza di una coscienza di sé femminile, tanto sicura e forte da non aver bisogno di esibizioni e strepiti. Se la rappresentazione di tanto in tanto suona sarcastica, ciò sembra più che altro dovuto a un effetto inevitabile del fenomeno in sé, non certo a una precisa intenzione di chi narra.

Nella narrativa degli autori che abbiamo passato in rassegna si delinea una sorta di nuovo verismo. I letterati di fine Ottocento, come Verga, Capuana e De Roberto, sulla scorta del naturalismo francese intendevano dare una rappresentazione veritiera dell’Italia del loro tempo. Nel rappresentare con fedeltà ‘fotografica’ le realtà regionali che meglio conoscevano, essi non intendevano certo costruire attorno a queste realtà regionali delle barriere e dei recinti di protezione. Al contrario intendevano, in quanto intellettuali, mediare per un pubblico ormai nazionale le tante realtà differenti che costituivano il paese che si stava formando. Così questi autori dello scorcio del Novecento, nel momento in cui rappresentano delle realtà fortemente caratterizzate in senso regionale, continuamente ne mettono in risalto il necessario inserimento all’interno di un panorama nazionale, e in prospettiva europeo, che non comporta il loro appiattimento in un impossibile tutto omogeneo, ma viceversa ne permette, più che la mera sopravvivenza, uno sviluppo armonioso e al passo con i tempi, ben lontano dalla sterile difesa di particolarismi protetti da barriere doganali e da confini che imitano quelli degli stati di un tempo ormai trascorso. Essi sono coscienti che la frammentazione a altro non potrebbe giovare se non a accentuare quelle spinte verso la globalizzazione, nel senso che questo termine ha nella politica economica e militare degli Stati Uniti (Hardt and Negri 2000), reale e tragica omologazione del tutto prona ai meccanismi consumistici e mediatici, subalterni all’interesse dei pochi.

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Marci, Giiuseppe. (1999). Sergio Atzeni: a Lonely Man, Cagliari: Cuec.

Marci, Giuseppe / Sulis, Gigliola, Eds. (2001). Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia, Cagliari: Cuec.

Marino, Giuseppe Carlo. (1993). Storia del separatismo siciliano, Palermo: Flaccovio.

Marino, Giuseppe. (1996). L’opposizione mafiosa, Palermo: Flaccovio.

Montesano, Giuseppe. (1998). Nel corpo di Napoli, Milano: Mondadori.

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Montesano, Giuseppe. (2003). Di questa vita menzognera, Milano: Feltrinelli.

Montesano, Giuseppe/ Trione, Vincenzo, (2007). Napoli assediata, Napoli: Pironti.

Piazzese, Santo. (1996). I delitti di via Medina-Sidonia, Palermo: Sellerio.

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Notes

1 Sergio Atzeni (Capoterra 1952, Carloforte 1995). Ha iniziato la sua carriera come giornalista e a metà degli anni ’70 ha pubblicato il dramma Quel maggio 1906, Ballata per una rivolta cagliaritana (Atzeni 1977). In questo libro, apparso un anno dopo la prima rappresentazione, appare uno dei temi ricorrenti dell’opera di Atzeni, la rappresentazione della città di Cagliari e dei suoi abitanti. Nel 1981 il giallo Gli amori, le avventure e la morte di un elefante bianco si qualificò al Mystfest e fu pubblicato l’anno successivo nei Gialli Mondadori (Atzeni 1982). Nel 1984 pubblicò la fiaba Araj Dimoniu. Antica leggenda sarda (Atzeni 1984), ma è solo col romanzo Apologo del giudice bandito (Atzeni 1986) che ha cominciato a essere noto in Italia. Nel 1991 la Sellerio pubblica Il figlio di Bakunin (Atzeni 1991) in seguito adattato a film da Gianfranco Cabiddu. Nel 1995 Mondadori pubblica il suo terzo romanzo Il quinto passo è l’addio (Atzeni 1995). Postume sono state pubblicate diverse opere, tra le quali, nel 1996: Passavamo sulla terra leggeri (Atzeni 1996), Bellas mariposas (Atzeni 1996) e Sì…otto! (Atzeni 1996). Retour au texte

2 Angioni ha esordito come narratore nel 1978 con una raccolta di racconti che conteneva anche testi in sardo: A fuoco dentro A fogu aintru (Angioni 1978). Del 1983 è la seconda raccolta Sardonica (Angioni 1983). Il primo romanzo L’oro di Fraus è del 1988 (Angioni 1988), seguito da Il sale sulla ferita (Angioni 1990), Una ignota compagnia (Angioni 1992). Nel 1993 ha pubblicato un’altra raccolta di novelle, Lune di Stagno (Angioni 1993) e la commedia La visita (Angioni 1993). Il quarto romanzo è del 1995, Se ti è cara la vita (Angioni 1995), seguito da Lo sprofondo (Angioni 2000), Il gioco del mondo (Angioni 1999), Millantanni (Angioni 2002), La casa della palma (Angioni 2002), Il mare intorno (Angioni 2003), Assandira (Angioni 2004), Alba dei giorni bui (Angioni 2005), Le fiamme di Toledo (Angioni 2006), La pelle intera (Angioni 2007), Afa (Angioni 2008). Oltre a numerosi saggi e articoli apparsi in giornali e riviste sarde, alcuni dei quali sono stati raccolti nel volume Tutti dicono Sardegna (Angioni 1990), Angioni ha anche pubblicato numerosi saggi di antropologia, disciplina di cui è docente presso l’Università di Cagliari. Tra questi si possono menzionare Tre saggi sull’antropologia dell’età coloniale (Angioni 1973); Rapporti di produzione e cultura subalterna. Contadini in Sardegna (Angioni 1982); Sa laurera: il lavoro contadino in Sardegna (Angioni 1976); Il sapere della mano: saggi di antropologia del lavoro (Angioni 1986); I pascoli erranti. Antropologia del pastore in Sardegna (Angioni 1989); Non è bello ciò che è bello. Estetica e antropologia (Angioni 1992); Pane e formaggio (Angioni 2000). Si farà riferimento a queste edizioni dando solo il numero di pagina. Retour au texte

3 Si tratta di una decina di episodi, anche replicati, che hanno avuto una media di oltre sette milioni di ascoltatori. Il presidente della Repubblica ha attribuito all’attore Luca Zingaretti, che ricopriva il ruolo del protagonista, il titolo di Cavaliere al Merito della Repubblica, un riconoscimento ulteriore al personaggio di Camilleri, amato dal Nord al Sud d’Italia. Retour au texte

4 Nata nel 1969 a Porto San Giorgio (Ascoli Piceno), ha pubblicato il suo primo racconto nel 1990 in un’antologia curata da Pier Vittorio Tondelli, Papergang, Under 25, III (Tondelli 2002). Nel 1991 è uscito il suo primo libro, Il compleanno dell'iguana pubblicato da Transeuropa e da Mondadori tradotto in Francia, Germania e Portogallo (Ballestra 1991). Nel 1992 il suo primo romanzo La guerra degli Antò, anche questo pubblicato sia da Transeuropa che da Mondatori (Ballestra 1992), è diventato un best seller e nel 1996 Riccardo Milano ne ha tratto un film con lo stesso titolo. Nel 1994 ha pubblicato la raccolta di storie Gli Orsi (Ballestra 1994) e nel 1996 la biografia in forma di intervista Joyce L. una vita contro (Ballestra 1996). Nel 1999 le Edizioni Teoria hanno pubblicato una raccolta della narrativa della Ballestra, Romanzi e racconti di Silvia Ballestra, che contiene anche alcune storie inedite (Ballestra 1999). Nel 1998 il romanzo, La giovinezza della signorina N.N., una storia d'amore era il primo della trilogia che è stata completata da Nina e Il compagno di mezzanotte (Ballestra 1998; 2001; 2002) I volumi più recenti della Ballestra, tutti orientati al femminile, sono Tutto su mia nonna; La seconda Dora; Contro le donne nei secoli; Piove sul nostro amore. Una storia di donne, medici, aborti, predicatori e apprendisti stregoni (Ballestra 2005; 2006a; 2006b; 2008). Retour au texte

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Référence électronique

Franco Manai, « La narrativa regionale italiana e la politica subalterna della sinistra », Textes et contextes [En ligne], 2 | 2008, publié le 01 décembre 2008 et consulté le 23 avril 2024. Droits d'auteur : Licence CC BY 4.0. URL : http://preo.u-bourgogne.fr/textesetcontextes/index.php?id=139

Auteur

Franco Manai

Head of Italian Department, University of Auckland, School of European Languages and Literatures, Arts 1 Building, 14A Symonds Street, Auckland, Private Bag 92119, Auckland 1142, New Zealand

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