Il paese delle vocali di Laura Pariani. Dialetti e ‘identità’ lombarda.

DOI : 10.58335/individuetnation.213

Analizzando la stratigrafia linguistica del romanzo Il paese delle vocali di Laura Pariani, questo saggio identifica la ‘funzione antropologica’ che l’autrice affida al dialetto lombardo: non uno strumento per definire un’identità letteraria locale, ma il mezzo espressivo per dare voce ai vinti della Storia.

En analysant la stratigraphie linguistique du roman de Laura Pariani Il paese delle vocali, cet essai identifie la ‘fonction anthropologique’ que l’auteur confie au dialecte lombard : non pas tant un instrument pour définir une identité littéraire locale, mais le moyen expressif pour donner une voix aux vaincus de l’Histoire.

By analyzing the linguistic complexity of Laura Pariani’s novel Il paese delle vocali, this essay identifies the ‘anthropological function’ that the author attributes to the Lombardy dialect, not as an instrument for defining a local literary identity, but rather as an expressive means to give voice to History’s defeated.

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Text

Gô ’speciâ ’n ann i niver ciare ’n prâ de margàsc’n mezz a la palta... Ma ’me fö ’dessche l’erba nuèla gigôta bestemm?P. Marelli

1. Premessa

Il paese delle vocali (Pariani 2000) ha un prologo e un epilogo ambientati ai nostri giorni in Argentina. Una bambina e una ragazza giocano in soffitta e, in un vecchio baule, trovano un abbecedario. Legata a questo libro dalla copertina azzurra c’è una storia ‘vera’, e a raccontarla è la nonna delle due ragazzine. La storia è ambientata nel XIX secolo, nelle campagne lombarde a nord di Milano, dove le terre cominciano a sollevarsi in colline per diventare montagne. Tra queste colline c’è un villaggio: Malniscióla. Il nome è inventato, ma l’ambientazione è reale: si tratta di uno dei tanti villaggi dell’Alto Milanese che un secolo e mezzo fa vivevano in un isolamento culturale e economico quasi completo. Una terra molto povera, dove miseria e ignoranza caratterizzavano una vita scandita dalle stagioni e dal lavoro duro e penoso della terra. In questo mondo fuori dal mondo non c’era solo miseria e malattia, ma un’assenza totale di istruzione: i bambini non perdono tempo a imparare l’italiano, perché anche se piccoli li attende il lavoro nei campi. Malniscióla è un “paese delle vocali”, dove si va a scuola solo per il primo anno, quel tanto che basta per imparare le vocali, appunto, e per imparare a scrivere il proprio nome.

È in un luogo come questo che arriva un giorno Sirena Barberis, una giovane maestra che da Milano decide di salire al villaggio tra le colline, dove ha accettato il suo primo incarico professionale. Ma sarà presto delusa: la scuola è diroccata, i bambini fanno fatica a imparare, e c’è da affrontare l’ostilità del villaggio: i notabili, il curato, il sindaco non fanno niente per aiutarla, anzi, le dicono chiaramente che sta perdendo il suo tempo, perché l’istruzione non serve a chi è destinato a lavorare la terra. Ma leggiamo dal primo capitolo, e ascoltiamo la lingua:

La Diudàta, una sgrabèla di nove anni, si ricorda però all’improvviso che própi incö deve arrivare la nuova maestra. Dalla città, da Milano, dove né lei né la Venturina sono mai state. Ché, per tutti i bambini di Malniscióla, Milano è una parola magica: «grandu tame Milàn», «luntàn tame Milàn», «sa te me vöri bén quantu?» «infinu al portu de Milàn»... Il mondo non ha altra fine conosciuta: Forse per la Venturina ancor più che per gli altri, lei che con la sua gobbetta, che le dà quando cammina un’andatura falupìna, non lo vedrà mai quel che sta al di là della brughiera che cinge il paese. (Pariani 2000: 14)

2. Polifonia

Il dialetto lombardo di Laura Pariani non è come ci se lo aspetterebbe: Laura Pariani non si limita a inserire due o tre frasi dialettali nella prosa italiana, non usa alcune parole seminate qua e là per fare colore regionale. Quello che stupisce del suo lavoro espressivo è la vasta gamma di livelli stilistici che ha a disposizione: si va dall’italiano standard all’italiano parlato, dall’italiano elevato a quello “sporcato” nel lessico e nella sintassi. Alcune parole sono italiane ma pronunciate con fonetica lombarda, altre parole sono prese dal dialetto direttamente. La sintassi ha qualche anacoluto, o a volte si rompe del tutto, come per esprimere la difficoltà del contadino a formulare discorsi, a pensare in modo complesso. E poi ci sono sintagmi, frasi, proverbi, filastrocche tutte in dialetto, un dialetto che è quello lombardo del XIX sec., un dialetto che è quello lombardo attuale, e anche un dialetto che non esiste perché è inventato, oppure reinventato con i suoni di quello autentico, per dare alla narrazione un sapore tutto particolare.

Leggendo il libro si ha come l’impressione che il dialetto accompagni, o addirittura segua con insistenza le persone. Quello che stupisce del testo è come l’autrice riesca a costruire un mondo con i suoni, prima che con le parole, una specie di paesaggio sonoro che diventa una funzione narrativa, perché crea uno spazio di azione, di interazione, di dialogo. Il paese delle vocali, infatti, non ha una visibilità in senso tradizionale, non si è portati a vedere volti, abiti, interni, paesaggi. Il paesaggio è un paesaggio solo umano, che cresce come un flusso di voci, una polifonia affidata a tanti personaggi che parlano lingue diverse, che oscillano tra l’italiano da un lato e il dialetto dall’altro, con in mezzo tutte le possibili gradazioni e sfumature:

Tutt’a un tratto il postino del paese appare sulla porta. «Sacranôn! Che burdéll ca gh’é chichinscì?» vusa, sputando per terra. Sarà per il suo vocione baritonale, o per la sua corpulenza, che è un faraone d’uomo, comunque tutti i centoventitré ragazzini la piantano di indiavolare e, in on esüssi, si rimettono seduti e zitti al loro posto. L’uomo scuote il capo con aria di rimprovero, mentre posa sulla cattedra una lettera e un pacchettino avvolto in carta spessa e marroncina. «Chesti fiö-chì col maèstar ca gh’éa primma a faséan nó ’stu baccanéri. Chi non sa fare, lasci stare: se voi non riuscite mica a tenere la classe e farvi rispettare, è meglio che cambiate lavoro». (Pariani 2000: 54-55)

Si notino sfumature e dislivelli del dialetto: ovviamente è riservato al discorso diretto quando a parlare è un paesano, ma si tratta di un dialetto che può slittare nell’italiano parlato quando il discorso diventa sentenzioso, o può invadere la lingua nazionale, scavalcando i limiti delle virgolette, per prolungare l’atmosfera sonora e quasi corporea della voce. Si notino poi le sfumature dell’italiano, da quello proverbiale a quello aulico, fino a un’oraliture variabile a seconda del personaggio e del contesto. In questo modo la voce, le voci, diventano azione, creano l’azione. Il dialetto più che una narrazione visibile costruisce un ambiente sonoro, tattile, corposo, fatto di una grana diversa da quella dell’italiano standard. A volte si ha la sensazione che la prosa sia come la registrazione etnografica su nastro magnetico di un gruppo di persone: alcuni parlano da soli, alcuni dialogano, alcuni sono più istruiti, altri meno, e il continuo passaggio dall’italiano al dialetto, dal dialetto all’italiano, e ancora da un livello linguistico a un altro livello linguistico creano qualcosa di molto dinamico, che definisce l’identità dei personaggi ma al tempo stesso la lascia incerta, in progress. È come se l’autrice fosse scesa sul campo dell’indagine antropologica e spostasse il microfono, o muovesse una telecamera linguistica sui personaggi, una specie di soggettiva sonora che trasforma le identità in un flusso identitario vischioso e corale. Seguendo queste variazioni si passa allora da un personaggio all’altro, da una storia all’altra, e la narrazione procede. Ma leggiamo ancora. Adesso la maestra, la signorina Sirena Barberis, cerca di prender sonno. È la prima notte a Malniscióla.

Uno squarcio di luna attraverso le inferriate. La ragazza si rigira nervosamente nello stretto lettino, ascoltando i rumori sconosciuti del paese, finché si fanno sempre più remoti, diventano un suono di voci familiari dentro di lei. [...] Sirena è piccola piccola e la sua balia le canta una filastrocca per addormentarla in un sonno sicuro: Trenta quaranta / la piva canta / la canta in sul suré /la domanda ’l prestiné... Fuori, il cielo di Malniscióla mostra le sue stelle como il lupo i só denci. (Pariani 2000: 24-25)

3. La voce dei morti

È interessante questo scivolare nel sonno che è anche uno scivolare nell’infanzia, e in un’infanzia in cui, ancora una volta, l’italiano appreso dalla maestrina regredisce, o si decanta e svanisce, nel dialetto della balia. La coordinata è importante, perché è un primo elemento che ci aiuta a sondare lo strato profondo, personale e intellettuale, che sta alla base dell’uso del lombardo nel testo. Perché il lavoro sullo stile, il plurilinguismo narrativo e polifonico, l’impasto fonosimbolico che caratterizzano questa prosa è solo l’aspetto scopertamente tecnico di qualcosa che ha radici più profonde. Nell’epilogo del libro la nonna dice in spagnolo qualcosa di molto saggio e molto bello. Parlando di una donna italiana emigrata in Argentina molto tempo prima, la nonna dice:

Lo que recuerdo con dificultad es su voz. Es lo más difficil reproducir una voz en la memoria. Y no sirve a nada empeñarse a evocarla; te asalta de improviso la voz de los muertos, viene a ráfagas, cuando quiere... (Pariani 2000: 116)

La voz de los muertos, la voce dei morti... Laura Pariani è lombarda, come Manzoni, ma all’opposto del Manzoni ha “sciacquato i panni in Adda”. Esiste un mondo di povera gente che non ha lasciato traccia nella storia, perché la loro esistenza è stata tutta orale, mai scritta. Manzoni, dal suo punto di vista, cioè quello di un romanticismo reazionario, ha voluto restituire corpo, sentimento e umanità a questa gente. Per Laura Pariani l’uso del dialetto è un po’ questo, anche se da prospettiva completamente diversa: dare voce a “la voz de los muertos”. E non solo ai morti del passato, ma anche a quelli che la società, una certa società conservatrice e bigotta, vuole morti dentro. Perché Il paese delle vocali parla proprio di un mondo in cui l’arretratezza culturale non è data dal sistema di vita tradizionale, ma da persone come il parroco, il sindaco o il procaccia, che gestiscono ai propri fini la miseria del villaggio.

Siamo cioè a mille miglia da una scelta linguistica regionale all’insegna del particolarismo o di un’asseverazione identitaria locale. Siamo anche lontani da una ricerca stilistica che mira a lardellare di “esotismi” lombardi un racconto di denuncia sociale. Il dialetto è invece in risonanza con la voce profonda di quegli umili a cui tutta una tradizione lombarda ha dato parole perché parole non avevano. Quasi evocando a ipotesto Mistero buffo di Dario Fo, la piccola Luisina racconta alla maestra la storia del Ricco e del Povero, creati tali ab origine da Dio. Ricco e Povero si assomigliano in tutto: due occhi, due orecchie, due narici, ma la bocca, si accorgono i due, è una sola:

Cercan da-chì, cercan da-là, ga n’éa vüna sula. E com’è che facevano a trovarci posto nello stesso tempo il Parlare e il Mangiare insieme?... Alùra il Ricco e ul Puarâsciu a van dinanzi al Signùr, a dumandàghi contu. E lü al resta là. “Urca!” al dis; e al ga fa ségn ca s’éa dasmantagâ. Dopu trì dì ca sa gratéa ul cô, l’ha tirâ ul fiâ e l’ha dî: “Alla bocca del Ricco ci darò il Parlare, che tanto il mangiare ce l’ha già assicurato, parché l’è ricco... Alla bocca del Puarasciû ci darò invece il Mangiare e riempire il piatto sarà l’unico pensiero della sua vita. Tanto più che i poveri meno parlano e meglio a l’é...

La maestra sgrana gli occhi. Le mani, inerti sulle ginocchia, hanno un tremito. Malgrado il senso magico che incombe sulla scena della storia che la Luisina le ha raccontato, prova una strana pressione alla bocca dello stomaco. È un’irrefrenabile compassione per il destino del Puarasciû, uomo-bestia condannato all’abisso oscuro del silenzio. (Pariani 2000: 63-64)

In un discorso che tenta di studiare particolarismi e identità regionali nella letteratura italiana contemporanea, il libro di Laura Pariani non si riduce a un tassello locale inscritto in una più ampia tassonomia nazionale, ma aiuta il critico letterario a riorientare in senso antropologico la propria ricerca. Non si tratta cioè di recensire modalità individuali o tendenze plurali emergenti per disegnare la mappa dell’Italia dei nuovi razzismi e dei nuovi anti-razzismi interni, dei cripto-regionalismi o di categorie molto problematiche e molto poco omogenee come ad esempio “Padania” o “insulare” o “sicilianità”. Si tratta piuttosto di tener presente, in fase di analisi, che ogni dislivello di cultura, rappresentato letterariamente o evocato inconsciamente, denunciato socialmente o rivendicato in base a ragioni creative, etniche, nostalgiche, deve per forza passare attraverso il doppio setaccio critico della pluralità identitaria di uno stesso individuo, e della dialettica mai inattuale tra classi egemoniche e classi subalterne. Perché le derive di etnocentrismo, che percorrono spesso i gruppi sociali svantaggiati, non sono il frutto di un’ignoranza atavica, corrispondono invece a un disegno politico e intellettuale venuto dall’alto, a un esclusivismo culturale che ripone interessi enormi proprio nei “paesi delle vocali” del nostro tempo.

Bibliography

Pariani, Laura (2000). Il paese delle vocali, Casagrande : Bellinzona Edizioni.

References

Electronic reference

Matteo Meschiari, « Il paese delle vocali di Laura Pariani. Dialetti e ‘identità’ lombarda. », Individu & nation [Online], vol. 4 | 2011, 28 June 2011 and connection on 19 April 2024. DOI : 10.58335/individuetnation.213. URL : http://preo.u-bourgogne.fr/individuetnation/index.php?id=213

Author

Matteo Meschiari

Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, Viale delle Scienze – I-90128 Palermo – meschiari [at] unipa.it