I ‘Contes de la nuit’: dal ‘Maître de la parole’ all’‘écrivain’

  • I ‘Tales of the Night’: From ‘Master of the word’ to ‘Writer’

La cultura della regione che comprende le Piccole Antille francesi è il risultato dell’incontro di successive ondate migratorie di individui arrivati dai quattro angoli del Pianeta e, in particolare, nel corso del processo di colonizzazione : Amerindi, Africani, Europei, Indiani. Il patrimonio culturale della popolazione di questo spazio composito è stato salvaguardato e trasmesso, di generazione in generazione, grazie alla memoria e alla volontà di resistenza che ha condotto allo sviluppo di numerose stratégie di sopravvivenza nei confronti della volontà annientatrice dei coloni. È in questo contesto che nasce il conteur creolo o maître de la parole, un personaggio ritenuto saggio, che ha contribuito a salvaguardare, e soprattutto a fissare – contro il sistema coloniale delle piantagioni – un’altra versione della Storia, contro la storia ufficiale trasmessa dai coloni. Ai tempi della schiavitù, al calar della sera, il maître béké concedeva agli schiavi di riunirsi… il conte poteva, allora, avere inizio. Il momento del conte costituiva, per gli schiavi, una distrazione che, infiltrandosi nelle coscienze, assumeva la funzione di strumento di resistenza all’oppressione ed un modo per esprimere e di affermare i valori antillani.
In seguito all’abolizione della schiavitù la pratica del conte è quasi del tutto scomparsa. Essa è oggi recuperata grazie all’opera di alcuni scrittori che, mettendosi all’ascolto dei conteurs assumono il compito di marqueurs allo scopo di far rivivere la ‘parola’ – sostituita dalla scrittura imposta dai coloni – che rischia di essere cancellata e di far perdere con essa le tracce del caos originale dal quale è nata la cultura creola.

La culture de la région qui comprend les Petites Antilles françaises résulte de la rencontre de vagues humaines successives venues des quatre coins du monde: les Amérindiens, les Africains, les Européen, les Indien. Ce patrimoine culturel a été conservé et transmis de génération en génération grâce à la volonté de résistance qui a conduit au développement de nombreuses stratégies de survie face à la volonté annihilatrice des colons. C’est dans ce contexte qu’est né le conteur créole, ou “maître de la parole”, un personnage emblématique jouissant d’une réputation de sage, qui a contribué à élaborer - en réaction contre le système colonial des plantations - une autre version de l’histoire que celle qui nous a été transmise par l’Histoire officielle.
Au temps de l’esclavage, à la tombée de la nuit, le maître béké laissait les esclaves se réunir : le conte pouvait, alors, commencer… Le conte créole était pour les esclaves une distraction mais aussi, s’infiltrant dans les consciences, un moyen de résistance à l'oppression ainsi qu’une manière de s'exprimer et d’affirmer les valeurs antillaises en formant une contre-culture. Le conteur mettait en scène, en mêlant réalité et merveilleux, des personnages et des animaux qui parodiaient le compotement des humains en rapport avec la société esclavagiste.
Si cette pratique a prospéré durant l'époque coloniale, elle n'a dû sa survivance après la période de l’esclavage qu'à la pratique professionnelle de certains conteurs visant à sauvegarder une tradition, ainsi qu’à la transmission familiale.
Aujourd'hui cette tradition orale est réhabilitée grâce à un certain nombre d’écrivains qui non seulement réécrivent les contes traditionnels mais en composent également de nouveaux et ainsi nous font découvrir cet univers. En tendant la main aux conteurs, en se mettant à leur écoute, ils assument la tâche de devenir des ‘Marqueurs’ afin de retrouver l’esprit de cette ‘parole’, jadis supplantée par l’écriture imposée par les colons, et qui risque de s’effacer définitivement de la mémoire entraînant avec elle les traces du chaos originel dans lequel naquit la culture créole.

The culture of French Antilles is the result of successive waves of migration of people arrived from the four corners of the planet (Amerindians, Africans, Europeans, Indians), especially during the process of colonization.
The cultural heritage of the population of these territories – formed by the intersection of different cultures - was originally safeguarded and transmitted, from generation to generation, thanks to the memory and to the determination to fight against the process of cultural annihilation enacted by the colonizers. It’s in this context that born the Creole conteur or maître de la parole, a wise man who helped to preserve, and especially to set - against the colonial system of plantations - another version of history, diametrically opposite to the official one spread by settlers.
During the period of slavery, at nightfall, the maître beké granted to slaves to meet together … and the tale… could finally begin. The time devoting to the folktale constituted, for slaves, a distraction. The tale seeped into the consciousness assuming the function of an instrument of resistance to oppression and a way to express and to affirm the values of West Indians.
After the abolition of slavery, this practice has almost completely disappeared. Fortunately, nowadays, this tradition has been recovered thanks to the work of certain writers who have decided to assume the task of marqueurs de paroles in order to revive the 'oral word' - replaced by writing imposed by the settlers – which tied in memory the native culture. The disappearance of the ‘oral word’ risked to erase with it the traces of the original chaos that gave birth to the Creole culture.

Plan

Texte

1. Un’identità in bilico

La regione delle Piccole Antille francesi ospita una popolazione cosmopolita a cui corrisponde un mosaico di culture, il risultato di successive ondate migratorie provenienti dai cinque angoli del pianeta. Il patrimonio culturale di questa popolazione multietnica - salvaguardato dalla memoria - è stato conservato e trasmesso, di generazione in generazione, per via orale. Tale memoria culturale è custodita dall’universo del racconto, dell’oraliture1, della storia vissuta e trasmessa ai bambini (Ludwig 1994: 16-17); essa è particolarmente preziosa perché le Piccole Antille non possiedono ciò che Édouard Glissant definisce come il ‘mito fondatore’2. Gettando uno sguardo alla società delle Antille, si percepisce, infatti, una giustapposizione di comunità all’interno della quale ognuna delle etnie originarie ha cercato di sopravvivere e di mantenere la propria diversità. Il percorso di edificazione della cultura, quindi, è stato qui caratterizzato dalla totale assenza di ogni possibile sintesi dal momento che l’essenza stessa del suo fondamento – e cioè gli individui che la detengono – è il risultato di una molteplicità di termini e di elementi3 che provengono da una precipitazione straordinaria di popolazioni e di culture che, se guardate in un’ottica di schiavitù, sfruttamento, colonia, non sembrano certo poter dare origine a condizioni di sintesi armoniosa. Ciascuno dei ceppi etnici che si sono ritrovati ad interagire in questo spazio geografico ha cercato, al contrario, di conservare e di preservare una pretesa purezza e di coltivare il ricordo della propria origine e della propria cultura. Ecco perché oggi si ritiene più giusto parlare di ‘identità-mosaico’ scartando ogni idea di sintesi; e, utilizzando il termine ‘mosaico’, si è obbligati, viceversa, ad accettare la presenza simultanea delle differenti componenti culturali che coesistono in una sorta di solidarietà conflittuale (Chancé 2005: 107). In questa regione, allora, il tentativo di stabilire un’identità culturale non ha potuto che partire dall’incontro, spesso anche conflittuale, fra culture diverse per impiantare la fucina di una nuova umanità. La specificità della cultura, insomma, è da ricercare proprio nella diversità delle differenti eredità culturali e lingue, ed è nella Storia che va ricercato il denominatore comune tra le componenti4: l’inferno dell’oppressione, della morte sociale, della schiavitù e dello sfruttamento economico delle terre, di centri decisionali esterni al territorio, sono ciò che gli individui che popolano queste terre hanno in comune. Ecco, dunque, ritrovata l’unitarietà del concetto di identità in nome della difesa di una cultura minacciata e nel tentativo di precisare la propria ‘specificità’. Si tratta, allora, di riappropriarsi dello spazio accaparrato dai coloni, della storia occultata dal periodo della schiavitù. La realtà differente, questa grande diversità di tradizioni, di immaginari, di lingue, di razze, è ciò che questi individui possono opporre al processo di uniformazione del mondo. Essi vi oppongono cioè un immaginario della diversità, un immaginario costruito sulle storie contro la Storia, sulle memorie contro la Memoria, sui tempi contro il Tempo5. L’identità deve quindi essere ricercata nella volontà di rimarginare le ferite sociali e di colmare i buchi della memoria collettiva.

2. Il conte créole come fucina della cultura

La memoria orale di questa regione che nasce a partire dal XVII secolo da pochi elementi culturali sparpagliati e poi riassemblati in mosaico attraverso l’esperienza comune di una nuova realtà, è dunque fondamentale per l’identità del popolo. Non è un caso, allora, se il primo genere letterario registrabile nella regione caraibica, nella fase che viene definita della proto-letteratura, sia quello dei contes créoles. Si tratta di racconti fantastici o drammatici che intrecciano realtà e potenza creativa riflettendo l’essenza di una siffatta cultura sincretica6. Durante il periodo coloniale e, soprattutto, prima che fosse abolita la schiavitù, il momento dedicato al racconto costituiva un momento di aggregazione sociale che assumeva la funzione di un vero e proprio rito.

I contes créoles assolvevano, e parzialmente continuano ad assolvere, a numerose funzioni all’interno della società. Così come all’origine del mito di tradizione occidentale divertire ed educare assumono un valore assoluto di valenza atemporale ma, al contempo, esemplificativo e universale, indipendente dalle circostanze narrate e dal quadro immediato del contesto comunicativo. Con la loro valenza assoluta di modello esemplificativo da un lato e di essenza di valori comuni e trasversali dall’altro, i contes assumono, all’interno di una società composita e multietnica, il compito di costruire una cultura identitaria da condividere, divenendo, poi, per tal via, il modo di affermazione e di auto-rappresentazione della cultura.

I contes possono essere classificati in due grandi macro-famiglie stabilite in funzione dei tipi di eroe che vengono presentati: da una parte si trova la categoria che presenta come protagonisti animali, mentre nella seconda vengono rappresentati personaggi umani e fittizi. Alcuni dei personaggi-animali, che derivano dalle tradizioni orali asiatica e africana, sono adattati al contesto geografico, mentre altri conservano il loro carattere esotico di derivazione aliena. Tra i personaggi-tipo presentati se ne distinguono alcuni, fra gli altri, per le caratteristiche che sono loro attribuite. Il Coniglio, simpatico, furbo, capace di risolvere velocemente i problemi che si presentano, trova un omologo nella tradizione francese nella Volpe e in quella dell’Africa Occidentale nella Lepre. Il personaggio antagonista al Coniglio è il Compère Tigre, un personaggio grave per caratteristiche fisiche ed intellettuali che trova l’omologo nel Lupo e nella Iena della tradizione orale francese e africana. Pur trattandosi di una tradizione culturale radicata nelle Piccole Antille, e proprio per la multietnicità della composizione sociale, è ben possibile rintracciare corrispondenze e analogie anche nelle trame delle tradizioni di qua dell’Atlantico (Relouzat 1989: 154-156). È proprio in questo contesto, come spiegano Patrick Chamoiseau et Raphaël Confiant, che è nato il conteur: « Admis, toléré par le système esclavagiste et colonial, notre conteur est le délégué à la voix d’un peuple enchaîné, vivant dans la peur et les postures de la vie » (Chamoiseau-Confiant 1991: 76). Il conteur, o Maître de la parole, era colui che trasmetteva la Parole de la nuit. Durante il periodo della colonizzazione, infatti, il giorno era riservato al lavoro, alla cultura e alla lingua ufficiali. La notte al contrario, era il ‘luogo’ della parola creola, era l’universo dello svago, del piacere sensuale e della insubordinazione alle restrizioni imposte durante il giorno7. Al crepuscolo, alla fine della giornata di lavoro, gli schiavi – definiti migrants nus8 perché al momento del loro arrivo non possedevano altro bagaglio se non il ricordo di ciò che erano stati, conservato nella memoria -, che erano di etnie diverse, si riunivano attorno al conteur. Si trattava di colui che parlava al loro posto per colmare il grande silenzio e in qualche modo per ri-umanizzarli (Ludwig 1994 : 18). L’arte del conteur si estrinsecava proprio nella potenza espressiva della parola, in un continuo gioco di inter-relazioni tra il Maître de la parole e il suo pubblico chiamato continuamente a interagire nella costruzione del racconto. La costante presenza di formule ritualizzate che scandivano l’inizio del racconto accrescevano, nell’auditorio, il senso di appartenenza al gruppo e conferivano un’architettura cadenzata al ritmo del racconto per favorirne la memorizzazione (Boulay 1977: 38). Il Maître de la parole può essere definito, allora, come il primo 'scrittore' creolo, l’unico a poter esprimersi in nome di tutti coloro che non potevano farlo: « Et si je ne sais que parler, c’est pour vous que je parlerai […] Ma bouche sera la bouche des malheurs qui n’ont point de bouche, ma voix, la liberté de ceux qui s’affaisent au cachot du désespoir » (Césaire 1983: 66). Il conte créole trae la ricchezza del suo repertorio dalla molteplicità culturale che caratterizza la società in seno alla quale è nato creolizzandosi, dunque, esso stesso. Costruito intorno ad una struttura complessa, il racconto non ha la sola funzione di distrarre e di divertire l’auditorio, ma si fa parola della resistenza all’oppressione schiavista. Per questa ragione, i racconti utilizzano una lingua ambigua; i messaggi, che non devono giungere all’orecchio del padrone, sono dissimulati dietro onomatopee: dialoghi incessanti cadenzati da ritmi rapidi e lunghe digressioni umoristiche. I personaggi che prendono vita dal racconto –quasi tutti, come più sopra accennato, animali antropomorfizzati e caratterizzati, così come avviene anche nelle favole di antica tradizione occidentale – sono adattati al nuovo ambiente perché il messaggio possa assumere un valore riconosciuto da tutto l’auditorio (Relouzat 1989: 158)9. Attraverso il comportamento dei personaggi veniva trasmesso un messaggio morale che – anche mostrando le punizioni inflitte ai trasgressori delle regole – assumeva una funzione educativa nell’intento di garantire un equilibrio all’interno della società. Questo processo di trasmissione orale della cultura è stato minacciato dal processo di alfabetizzazione via via più globale, fino ad assumere un ruolo che oggi sopravvive solo in contesti molto privati della vita della società, come avviene, ad esempio, in occasione delle veglie funebri nel corso delle quali il conteur interviene ancora per captare l’attenzione delle persone venute a sostenere la famiglia del defunto, simbolizzando per tal via la continuazione della vita. Egli propone, a questo scopo, storie divertenti, indovinelli e barzellette. A causa della precipua e composita aggregazione etnico-culturale che contraddistingue la società creola – una società cioè in cui il processo di armonizzazione e di stratificazione multiculturale risulta ancora recente e per questo ‘incompiuto’ –, resta dunque fuor di dubbio che, alla ‘problematica’ di fondo collettiva dell’uomo caraibico (che può essere sintetizzata nelle domande chi siamo?; da dove veniamo?; dove andiamo e per far cosa?) solo la parole de la nuit è capace di fornire ancora le basi di una risposta altrimenti mai del tutto soddisfatta; essa diviene il corollario di un’intimità naturale, informa e forma con l’autorevolezza di una certezza identitaria, favorendo la fissazione di una memoria collettiva: « Le conte antillais repère notre manque historique : c’est le lieu de la parole rentrée. […]Le conte antillais délimite un paysage non-possédé : c’est l’anti-Histoire. […] Le Conte nous a donné le Nous, en exprimant de manière implicite que nous avons à le conquérir. » (Glissant 1997: 263, 264).

3. Dall’oralità alla scrittura

A seguito dell’abolizione della schiavitù, sancita con il decreto del 27 aprile 1848, nelle colonie francesi viene concessa ai figli degli ex-schiavi la possibilità di accedere all’istruzione. Questo passo comporterà inevitabilmente anche la voglia di affrancarsi da tutto il pesante fardello costituito dalla dolorosa etichetta di ‘schiavi’: l’individuo cercherà allora di prendere un deciso distacco anche dalla prosecuzione di quel progetto di definizione di un’identità che, non essendo ancora approdato ad un punto di sintesi, rimaneva in bilico. La scrittura dunque prenderà gradualmente il posto della oralità interrompendo, in un primo momento e in modo brutale, la parola del conteur. La popolazione creola delle Antille francesi, però, non tarderà a prendere consapevolezza della necessità di non appiattirsi sul modello occidentale proposto dai francesi e di cambiare rotta. All’inizio, le tracce letterarie di questa regione possono essere seguite quasi esclusivamente per mezzo della voce coloniale (cronisti, funzionari del governo conquistatore, coloni) che ha presunto di offrire una Storia ufficiale soffocando le pur rare voci dei primi scrittori creoli. Nella seconda metà del XIX secolo il ‘discorso letterario’ prosegue ad opera di missionari, viaggiatori, funzionari dell’amministrazione coloniale. Solo a partire dai primi decenni del XX secolo, si assiste all’affermazione di una letteratura più genuinamente autoctona. Se fino alla data di abolizione della schiavitù, allora, la produzione letteraria era decisamente sbilanciata in favore di opere che possono essere definite come ‘metropolitane’, a partire da quel momento, e via via fino ai giorni nostri, la proporzione tra opere metropolitane e opere creole si è decisamente invertita. Questa letteratura contemporanea che si afferma come autenticamente antillese ha tuttavia penato per trovare una propria vena autentica, animando il dibattito intellettuale fino agli albori degli anni Novanta del XX secolo10. Ciò che gli scrittori oggi utilizzano è la totalità degli immaginari e delle culture di cui dispongono, veicolandola in una lingua costruita sull’insieme delle lingue possedute, e su questo immenso patrimonio costruiscono il proprio linguaggio (Glissant 1995: 82-83). Benché questi scrittori siano portatori di istanze diverse, elemento comune della loro produzione letteraria è l’utilizzazione di un linguaggio che trae le proprie risorse tanto dalla cultura occidentalizzata quanto dalla cultura creola, per mezzo di un costante recupero dell’oralità. Per un fenomeno di osmosi, di interrelazione, di costante baratto, si è generato un sistema di valori assolutamente originale nel quale, attraverso la lingua e il modello culturale francese, il mondo occidentale si è trasferito nell’‘altrove’ coloniale per dare vita a nuovi usi e sensi e, in buona sostanza, ad un ‘contro-discorso’ post-coloniale, in cui ciò che era oggetto di osservazione della colonizzazione assurge a soggetto di sé e racconta la propria storia. Al fine di salvaguardare la memoria di questa tradizione sono nate in epoca recente, con lo scopo di preservare e promuovere il prezioso patrimonio culturale, alcune associazioni culturali. Fra le altre iniziative è da ricordare l’“Académie Créole Antillaise” fondata il 27 luglio 1957 da Gilbert de Chambertrand, Bettino Lara e Rémy Nainsouta. L’Accademia – espressione di una borghesia che rifiuta ogni forma di cultura occidentale, mutata presto in una forma di coscienza collettiva che accettava la propria ormai ineluttabile multiculturalità dell’essere creolo – nasce con lo scopo di preservare la cultura locale raccogliendo e catalogando proverbi, leggende e racconti della tradizione orale e di pubblicare nuove raccolte poetiche. Per altri versi, i suoi aderenti si impegnano nel tentativo di elaborare uno statuto ortografico e sintattico della lingua creola. A partire dal 1970, con la nascita della “Révolution créolisante” che definisce il creolo come una lingua e di cui Hector Poullet e Tony Repaire furono tra i massimi fautori, gli scrittori cominciano ad allontanarsi dal modello francese dando vita ad una produzione letteraria del tutto originale che trova proprio nell’oralità le sue fonti di ispirazioni privilegiate. Secondo Delphine Perret, proprio le questioni relative alla creolità e alle scelte linguistiche sono state, per gli scrittori di questa regione, uno stimolo di riflessione che ha contribuito alla costituzione di un nuovo spazio per la creazione letteraria (Perret 2001: 9). Alla fine degli anni Ottanta prende forma un nuovo modo di espressione identitaria che trova il proprio statuto nel movimento della Créolité. Si tratta di un movimento ideologico e letterario il cui fondamento concettuale riposa sul manifesto Éloge de la Créolité, vergato nel 1989 da Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau e Raphaël Confiant. Nell’ottica dei tre intellettuali, la creolità è la confluenza di diverse culture, di diverse lingue e di diverse religioni che danno origine ad un mosaico composto da una moltitudine di tessere disposte in modo complesso. L’immaginario creolo, a loro dire, riposa proprio su questa sistemazione caotica. La creolità, rifiutando i concetti di unicità, di purezza e di trasparenza, pone l’accento sulla diversità e sul multilinguismo. La creolizzazione, in quest’ottica, è allora un processo di sedimentazione di tutte le civiltà che, più o meno volontariamente, si sono trovate ad approdare in uno stesso luogo. I tre intellettuali mettono in evidenza come per affermare la propria cultura creola sia necessario rivalutare la cultura e la lingua indigene. In un costante gioco di introspezione, gli scrittori vogliono adesso spiegare, e soprattutto chiarire, la loro storia. È proprio nel riconoscimento di una storia comune e convergente, di problemi e interrogativi identici, di una trasversalità che accomuna una struttura poliedrica e complessa, che essi uniscono le loro voci in un coro per denunciare necessità comuni: la lotta di classe, la costruzione di una nazione, la quête di un’identità collettiva. Tale complessità è rappresentata da ciò che Bernabé, Chamoiseau e Confiant chiamano « le rougeoiement de ce magma. » (Bernabé-Chamoiseau-Confiant 1989: 27). Essi sostengono che i popoli caraibici dovrebbero sviluppare una visione diversa di loro stessi che rifiuti l’auto-denigrazione causata dall’egemonia della cultura francese (Bernabé-Chamoiseau-Confiant 1989: 26-27). Affinché ciò accada, è necessario sfruttare il potere creativo dell’arte, privilegiando l’oralità che permette di accedere ad una storia sconosciuta perché ignorata dalle convenzionali opere storiografiche. Ma la pratica della creolità non è certo semplice neppure per un creolo. Molto inchiostro è stato versato per cercare di definire un metodo da seguire per raggiungere un’espressione rispettosa della vera essenza creola. Il recupero dell’oralità nella letteratura delle Antille ha quindi una doppia funzione: è innanzi tutto il piacere estetico di ritrovare il ritmo della narrazione e un linguaggio nuovo, sintetico che si ispiri a tutti i registri del francese e del creolo senza sottomettersi alle regole del bon usage tradizionale; ma è anche l’esperienza della ricchezza antropologica della società creola che, forte del suo essere mosaico, rifiuta la dominazione contrapponendole un ‘insieme-plurale’ non costituito da un’unica etnia, da una sola lingua e da una sola visione del mondo: « Le lieu en ce qui nous concerne n’est pas seulement la terre où notre peuple fut déporté, c’est aussi l’histoire qu’il a partagée (la vivant comme non histoire) avec d’autres communautés, dont la convergence apparaît aujourd’hui. » (Glissant 1997: 249).

La produzione letteraria vera e propria di questa regione, e cioè quella che si è sviluppata nella seconda metà del Novecento, resta il luogo di contatto e di confronto tra il mondo europeo della scrittura, dell’alfabetizzazione e delle tradizioni letterarie da un lato, e il mondo dell’oralità, della lingua creola, dei conteurs e delle feste e dei riti popolari dall’altro. La forza motrice della letteratura contemporanea è alimentata proprio dall’analisi di questo aspetto particolare della situazione culturale che trova nella memoria – difesa a fatica, perché privata di ogni forma di patrimonio archivistico e dunque continuamente minacciata - il proprio fondamento e il proprio “pivot”. Se il processo di generale alfabetizzazione e l’accesso ai mezzi di comunicazione a stampa sono fenomeni relativamente giovani, l’oralità, al contrario della scrittura, segue un processo di memoria culturale del tutto diverso. La trasmissione orale, infatti, non tiene conto degli avvenimenti relativi alla vita sociale: gli avvenimenti del passato da cui una società non possa trarre conclusioni istruttive nel presente, sono rapidamente dimenticati e non hanno ragione di entrare nel repertorio delle tematiche affrontate dai conteurs. In questo senso la memoria culturale orale ha un legame molto stretto con gli uomini che essa unisce in una società, in seno alla quale l’individuo – nel senso moderno del termine – non esiste. La scrittura, al contrario, permette di estendere la memoria di un popolo all’infinito; ma il rapporto tra la memoria e la società si perde, perché nessun individuo può avere accesso alla totalità della memoria scritta da un popolo. Contrariamente alla tradizione orale, inoltre, la scrittura non è fondata sul modello della comprensione e dell’identificazione diretta, ma su quello dell’analisi. È proprio in quest’atto di analisi culturale che nasce il fenomeno dell’individualità che porta all’identificazione dell’uomo cosciente di ciò che lo rende simile o diverso dai suoi simili. Alcuni scrittori hanno voluto fortemente, quindi, assumersi il compito di fare da trait-d’union proprio tra l’oralità e la scrittura per rendere al lettore un quadro reale dell’esistenza. Decidendo di assumere il ruolo degli antichi conteurs, questi scrittori ricercano, attraverso l'esercizio della memoria, la propria intima essenza, per riscoprirsi davvero ‘creoli’. Gli odierni conteurs, allora, trasferiscono nei loro scritti, intrecciandola con gli statuti della nuova realtà-mosaico, tutta la valenza e la forza espressiva dell’oralità: l’oralità è una ricchezza insostituibile, l’elemento fondamentale della cultura, la memoria della memoria che diventa la tela di fondo dei loro scritti.

4. Il conte si rinnova

Mi limiterò a trarre, da un ricco e variegato panorama, l’esempio di un solo scrittore: Patrick Chamoiseau. In Écrire en pays dominé (Chamoiseau 1997) l’autore martinicano indica allo scrittore creolo la traiettoria da percorrere; una traiettoria lungo la quale egli individua alcune tappe fondamentali e successive: lo scrittore creolo deve innanzi tutto mettersi all’ascolto dei conteurs; deve poi recuperare la lingua creola non solo per conservarne il lessico ma soprattutto per assorbirne il ritmo; dovrà quindi inquadrare tutto nel contesto storico delle negazioni in cui è nata l’oralità creola (Chamoiseau 1997: 248-280). Si tratta di un contesto di negazioni assolute, ma anche di una multietnicità, di uno spazio culturale caotico nel quale si sono trovati a confrontarsi valori venuti dall’Europa, dall’Africa, dall’India, dall’Asia, dall’America, creando fragili equilibri che sono stati e continuano ad essere provvisori e instabili. Lo scrittore dovrà allora cercare di interiorizzare tutto questo patrimonio e – come il conteur originale – dovrà trasformarlo nel suo essere un solo uomo, unico mosaico formato da molte tessere. È a questo punto che interviene il mistero della creazione, perché non si tratterà di scrivere la parola, bensì di elaborare una creazione artistica capace di mobilitare la totalità degli immaginari, delle lingue, delle culture a disposizione. Si tratta di trovare il luogo di convergenza tra il genio della parola e il genio della scrittura. Lo scrittore deve dunque raggiungere una totalità aperta dell’espressione, che si alimenta della forma orale così come della forma scritta, ma che non dovrà essere la semplice addizione dei due elementi. Egli dovrà, in breve, farsi Poeta. Chamoiseau racconta, attraverso l'immaginario della memoria, di una esperienza che lo sostanzia, nel modo in cui parla, pensa, scrive. La creolità di cui narra è una lezione all'antropologia che crede ancora che esistano società ‘fredde’ e ‘calde’, società non penetrate da contatti e società complesse. È una lezione ai cantori del vittimismo e della vittoria bieca dell'Occidente su tutto il mondo. Così il suo farsi conteur fornisce la risposta degli ex-schiavi, deportati e indigeni, colonizzati o ex colonizzati, che fa sì che non sia così facile credere in ‘culture egemoni’ e ‘culture subalterne’. In Chronique des sept misères (Chamoiseau, 1988a), primo dei suoi romanzi, Patrick Chamoiseau indica chiaramente come il conte può avere un effetto determinante persino sul capovolgimento del destino di chi ascolta. Il destino di Kouli, danzatore di laghia, ad esempio, è determinato da un racconto tradizionale sul colibrì: « C’est ce soir-là, dit Man Goul, qu’un vieux nègre, ancien marron, lui modifia son destin » (Chamoiseau, 1988a: 105). Kouli è presentato come l’unico tra gli ascoltatori a cogliere il senso delle parole del conteur e l’unico, quindi, su cui le parole potessero fare effetto. La potenza della parole è rappresentata a più riprese all’interno del testo, soprattutto nella seconda parte del romanzo intitolata Expiration, all’interno della quale il racconto è spesso il motore dell’agire dei personaggi (Chancé 2003: 887). Si tratta di narrazioni che provengono dal passato - dalla storia non ufficiale ma reale – e che possono anche assumere la funzione di stimolo alla presa di coscienza di una verità rimossa. È così che il discorso di Afoukal, il cui fantasma è incontrato in sogno dal protagonista Pipi, condurrà quest’ultimo alla presa di coscienza di un passato: quello del periodo della schiavitù e dello sfruttamento nelle piantagioni (« C’est par là que Pipi remonta sa propre mémoire fendue d’oubli comme une calebasse et enterrée au plus loin de lui-même » (Chamoiseau, 1988a: 151). La memoria del tempo passato, di una Storia rimossa, riaffiora in Pipi con la valenza di un’autentica presa di coscienza, per mezzo del racconto di un individuo che, come quella storia, non è più. Il conte, allora, si palesa con tutta la sua forza di ‘parola utile’ al fine di prendere consapevolezza di una nuova versione della storia che, al contrario di quella trasmessa dalla voce della colonizzazione, si invera non più staticamente univoca ma molteplice, essendo affidata alla dimensione individuale del narratore e per questo mutevole. A conferma della volontà precisa da parte dell’autore di trasferire al lettore questa dimensione del racconto, si fanno eco le parole affidate al narratore in apertura e in chiusura del testo:

En vous confiant qui nous étions, aucune vanité n’imprégnera nos voix: l’histoire des anonymes n’ayant qu’une douceur, celle de la parole, nous y goûterons à peine. (Chamoiseau, 1988 a: 15)
[…]
Vous en donner cette version nous a fait un peu de bien, si vous venez demain vous en aurez une autre, plus optimiste, peut-être, quelle importance? (Chamoiseau 1988a: 240).

La parole è ancora il “pivot” intorno al quale ruota la poetica del secondo romanzo di Chamoiseau: Solibo Magnifique (1988b). Il romanzo ripercorre le vicende della strana morte di uno degli ultimi Maître de la parole della Martinica. Solibo, come spiega il personaggio Congo, muore infatti, in una sera di carnevale, strozzato da un rigurgito di parole. Congo è un anziano che conosce cose ormai dimenticate, ma la sua ricostruzione dei fatti non convince affatto la polizia. In realtà Solibo sembra essere morto per l’impossibilità di sopravvivere alla fine di un mondo in cui la parola, legata allo sfruttamento della canna da zucchero, prendeva vita intorno alle abitazioni o alle piantagioni. Il narratore però non si limita a raccontare la fabula del romanzo ma pretende di offrire anche la ‘parola’. Proprio per questa caratteristica il testo può essere considerato come l’atto di battesimo di una nuova letteratura che trae ispirazione nella parola del conteur, sottolineando il passaggio di testimone in continuum tra il conteur e lo scrittore:

Je pars [dice Solibo], mais toi tu restes. Je parlais, mais toi tu écris en annonçant que je viens de la parole. Tu me donnes la main par-dessus la distance. C'est bien, mais tu touches la distance » (Chamoiseau 1988b : 51).

Come nella migliore tradizione del conte créole, la parola si invera nel corso della notte. Alla piantagione si è sostituita la città, ma la scena si svolge in un giardino pubblico e, come nel rito tradizionale, sotto un albero. Ad ascoltare la storia sono riuniti i diversi personaggi che, come gli schiavi di un tempo, si assemblano in cerchio sotto un albero intorno al conteur. Il narratore si propone dunque come marqueur de paroles (Glissant 1988: 3-6) con il compito di fissare quella tradizione orale che va ormai scomparendo (Perret 1994: 829). Inutile sottolineare, però, che lo scrittore non può, per quanti sforzi di fedeltà cerchi di compiere, riproporre nel testo la piena valenza espressiva del conteur. Nel testo letterario la parola scritta prende coscienza della sua distanza dall’oralità, come è facile evincere dalla sua stessa bipartizione. Nell’Avant-propos, intitolato Avant la parole. L’écrit du malheur, è presentato il processo verbale del ‘caso’ Solibo, che si palesa doppiamente simbolico nella sua essenza di lingua francese e di discorso del potere costituito (polizia); in quello che viene presentato dall’autore come post-scriptum, e intitolato Après la parole. L’écrit du souvenir, viene offerto il presunto ‘resoconto’ dell’ultimo ‘racconto’ tenuto da Solibo poco prima di morire. Si tratta di una versione « reduite, organisée, écrite, sorte d'ersatz de ce qu'avait dit le Maître cette nuit-là » (Chamoiseau 1988b: 226), avverte l’autore, proprio per sottolineare l’impossibilità di marquer la parole (Moudileno 1997: 83-111). Nella struttura del testo, tuttavia – e con l’intenzione dichiarata del rispetto delle regole enunciative dell’oralità –, si intrecciano e si intessono continue interlocuzioni tra il narratore e il suo presunto auditorio/lettore(/i), così come vuole la tradizione del conte créole (Seifert 2002: passim). Le due parti in cui è bipartito il testo, nella continua opposizione della lingua francese e della lingua creola, sottolineano il conflitto fra le due culture attestato dalla morte dell’oralità (del conteur) che cede il testimone alla cultura della scrittura e della lingua francese in cui è redatto il verbale di Évariste Pilon, l’ispettore che conduce l’indagine sulla morte di Solibo, che apre il volume. In questo testo, ancora più che nel precedente, la riflessione sulla funzione della parola affiora palese. La parola è, allora, « le soufflé, le souffle est la force, la force est l’idée du corps sur la vie » (Chamoiseau 1988b: 219). La parola è dunque essa stessa vita e lo strumento a servizio della collettività per raggiungere la sua più intima essenza (Tarica 2010: 52). È con questo testo che, nella letteratura antillese, si sigla il passaggio di testimone tra la parola del conteur e la sua prosecuzione nel testo dello scritto del marqueur:

Non, pas écrivain : marqueur de paroles, ça change tout, inspectère, l’écrivain est d’un autre monde, il rumine, élabore ou prospecte, le marqueur refuse une agonie : celle de l’oraliture, il recueille et transmet. (Chamoiseau 1988b: 169-170).

Si tratta, tuttavia, di una parola che lo scrittore può solo tentare di fissare: Solibo muore perché non riesce a sopravvivere alla modernità che tutto appiattisce e allora « il était clair désormais que sa parole, sa vraie parole, toute sa parole, était perdue, pour tous – et à jamais » (Chamoiseau 1988b: 226).

La parola è ‘verbo’ anche nel terzo romanzo di Chamoiseau, Texaco (1992). I titoli delle tre parti che compongono il testo tradiscono, senza tema di smentita, questa valenza: Annonciation, Le Sermon de Marie-Sophie Laborieuz, Résurrection (Ménager 1994: passim). Il riferimento biblico, benché sia svuotato nel testo di ogni valore sacrale, rimanda comunque esplicitamente alla funzione della parola (del ‘verbo’). La fabula su cui è costruito l’intreccio prende le mosse dall’arrivo di un urbanista che ‘annuncia’ la volontà dell’amministrazione di radere al suolo il quartiere Texaco e di ricostruirlo su modello dei colonizzatori. Il malcapitato troverà ad affrontarlo Marie-Sophie11, la fondatrice del quartiere, che gli opporrà il suo ‘sermone’. La donna userà la memoria come arma per irretire l’urbanista (nuovo ‘nunzio’) che arriva nel quartiere per raderlo al suolo. Davanti a un bicchiere di rhum invecchiato Marie-Sophie stordisce il malcapitato nelle maglie del suo racconto nel tentativo di convincerlo ad abbandonare la missione. Rivivono così nel testo centocinquant’anni di storia della Martinica: il lettore è condotto per mano dal mondo chiuso delle piantagioni schiaviste di canna da zucchero a quell’universo che per i creoli è l’En-ville, la città (Chivallon 1996: 92). Davanti al giovane ‘inviato’, Marie-Sophie scorge nella parola l’unica arma per impedire la distruzione del quartiere:

Alors, j’inspirais profond : j’avais soudain compris que c’était moi, autour de cette table et d’un pauvre rhum vieux, avec pour seule arme la persuasion de ma parole, qui devrais mener seule – à mon âge – la décisive bataille pour la survie de Texaco (Chamoiseau 1992: 41).

La vittoria di Marie-Sophie dimostra tutta la potenza della parola: una parola che vince perché è costruita sulla Storia, che presenta perché ‘autorappresenta’ chi la possiede. Ed è allora, nelle parole conclusive del romanzo, che è racchiuso il vero messaggio di Chamoiseau:

Je voulais qu’il soit chanté quelque part, dans l’écoute des générations à venir, que nous nous étions battus avec l’En-ville, non pour le conquérir (lui qui en fait nous gobait), mais pour nous conquérir nous-mêmes dans l’inédit créole qu’il nous fallait nommer – en nous-mêmes pour nous-mêmes – jusqu’à notre pleine autorité. (Chamoiseau 1992: 497-8).

Le conclusioni insistono dunque su due componenti essenziali: sull’affermazione della nozione di Créolité e, d’altro canto, sul Nous soggetto collettivo che spettava alla letteratura fondare (Glissant 1969: 49-50). Attraverso le ricostruzioni della memoria, scopriamo qui che la creolità ‘malmescola’ le popolazioni, finendo persino per inglobare ed inghiottire le popolazioni che all'origine erano dominanti. Il ricorso alla parola mira alla ricostituzione del proprio Io e alla sua definizione, nell'inconscio timore di scoprirsi essenza di pericolose mescolanze per cui si viene rifiutati da entrambe le zone che hanno dato luogo al miscuglio. La creolità sembra dunque essere il contraddittorio risultato di incontri coraggiosi, ma pericolosi, di curiosità che possono condurre a conflitti, ad esclusioni. Il sincretismo consente di mantenere un’identità che l'Altro vorrebbe estinguere: un'identità di frontiera, un borderline che sconfina, di qua e di là del limite - non tuttavia fino a diventare una patria, ma piuttosto una ‘contro-patria’, una ‘patria-frontiera’. Si tratta di un’identità in bilico, squilibrata, che dichiara nel suo colore, nella sua lingua, nella sua parola, un mescolamento che è ancora in corso, un meticciato ‘imperfetto’. Appunto per questo, la parola rappresenta il deterrente contro ogni pretesa di purezza proponendosi come apertura al mondo e, insieme, come recupero e rivalutazione dei più intimi valori di chi su queste terre è nato e vissuto.

La parola è, dunque, in un certo qual modo, il ponte per il superamento del malinteso di confine, un superamento del diritto all'eccezione e al proprio spazio separato. Ma fin quando questa identità rimarrà un laboratorio di ibridazione, il ribollire di un misto non conciliato, essa continuerà a dimostrare che non esistono identità fisse, che l'identità non è un limite, ma una risorsa di vita, e che essa può essere innestata, trasformata, trasfigurata per resistere agli sconquassi del mondo, alle diaspore, alle emigrazioni, ai reinsediamenti, alla perdita di un passato e di una terra. In Texaco la narrazione è veicolata da un narratore, personaggio fittizio, che porta lo stesso nome dell’autore. Il testo che viene affidato al lettore sarebbe stato affidato a Chamoiseau dalla stessa Marie-Sophie, a cui il narratore cede spesso la parola. Ecco come l’autore/narratore presenta la genesi del testo:

Je découvris Texaco en cherchant le vieux‐nègre de la Doum. On m'avait parlé de lui comme d'un ultime Mentô. Je voulais le rencontrer pour recueillir ses confidences (sans trop d'espoir : le Mentô ne parle pas, et, s'il parle, c'est dans trop de devenir pour être intelligible) mais surtout afin qu’il m’aide (même en silences) à me sortir d'un drame : la mort du conteur Solibo Magnifique; je tentais de reconstituer les paroles de la nuit de sa mort, et butais sur l'infranchissable barrière qui sépare la parole dite de l'écriture à faire, qui distingue l’écriture faite de la parole perdue. Mes pauvres brouillons ne donnaient rien qui vaille. Refusant cette pauvreté, je me disais qu’un Mentô confronté à cette exigence aurait sans doute pu m’indiquer l’essentiel du travail que devait effectuer un Marqueur de paroles précipité dans une exigence telle (Chamoiseau 1992: 491-2).

Lo scrittore nasce dunque dall’esigenza di trascrivere e fissare parola del conteur che muore12. Ed è per questo che egli si reca a Texaco in cerca di qualcuno che possa aiutarlo a realizzare il progetto, trovando in Marie-Sophie una condivisione di interessi:

J’obtins la totalité de sa confiance quand je lui racontais la mort de Solibo, et l’associai à mon travail de reconstruction de la parole du Maître. Cela me rapprocha d’elle qui, toute sa vie, avait poursuivi la parole de son père, et les mots rares de Papa Totone, et les bribes de nos histoires que le vent emportait comme ça, au fil des terres. C’est pourquoi elle me confia ses innombrables cahiers, couverts d’une écriture extraordinaire, fine, vivante de ses gestes, de ses rages, ses tremblades, ses tâches, ses larmes, de toute une vie accordée en plein vol (Chamoiseau 1992: 494).

I due personaggi decideranno allora di collaborare al progetto di marquage, ma della storia, stavolta, di Texaco: la scrittura diventa allora eternatrice della parola, l’epitaffio della vita.

Nei testi di Chamoiseau oralità e scrittura intessono dunque un fitto dialogo. Si tratta di un dialogo che in verità lo scrittore intrattiene con se stesso per scoprire le proprie radici. La domanda, allora, non è « chercher qui a tué Solibo […] La vraie question est : Qui est Solibo ?… » (Chamoiseau 1988b: 185). Si tratta, in definitiva, di

Plonger donc le regard dans le chaos de cette humanité nouvelle que nous sommes. Comprendre ce qu’est l’Antillanité […] Décomposer ce que nous sommes tout en purifiant ce que nous sommes par l’exposé en plein soleil de la conscience des mécanismes caché de notre aliénation. Plonger dans notre singularité, l’investir de manière projective, rejoindre à fond ce que nous sommes… (Bernabé-Chaimoiseau-Confiant 1989: 22).

In quest’ottica, allora, la scrittura non sarà la tomba del conte ma una sua nuova forma di vita. L’obiettivo non è più quello di fissare parola orale in forma scritta – un obiettivo, questo, che non avrebbe mai potuto trovare alcuna valenza nella società moderna –, ma quello di coinvolgere, per un processo di contaminazione reciproca, l’oralità nella scrittura. Si tratta insomma, per il nuovo conteur, di lavorare sul significante, di integrare i due poli, di stabilire un continuum fra di essi, nell’intento di modificare l’immaginario della lingua. Così, rivitalizzando il conte, fonte ancestrale delle culture plurali in cui la società antillana ha saputo riconoscersi come un unicum, questa nuova forma narrativa è riuscita a trovare una risposta ai bisogni di una modernità in crisi, ad un’Europa colonizzatrice che continua ad esitare tra la tolleranza multietnica e la nostalgia nazionalista, e questo proprio nel momento in cui le grandi ideologie si rivelano incapaci di fornire un modello per l’avvenire.

Bibliographie

1.Testi critici di riferimento

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Chancé, Dominique (2005). Histoire des littératures antillaises, Paris : Ellipses.

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2. Testi letterari

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3. Sull’opera di Patrick Chamoiseau

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Lagarde, François (2001). « Chamoiseau: L’Écriture merveilleuse », in : Études Françaises; 37/2, 159-179.

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Tarica, Estelle (2010). « Patrick Chamoiseau's Creole Conteur and the Ethics of Survival ». International Journal of Francophone Studies ; 13/1 (June), 39-56.

Notes

1 « Dans les cases à Nègres, en vertu d’une tolérance, un groupe d'esclaves s'est assemblé l'en-bas d'un gros arbre. Ils attendent. Arrive un autre Nègre de cannes, d'âge mûr, d'allure discrète, aussi insignifiant, sinon plus, que plus d'un. Sous sa paupière, nulle insolence. Le jour, il vit dans la crainte, la révolte avalée, le détour appliqué. Mais la nuit, une force obscure l'habite. Une levée atavique brise la carapace sous laquelle il s'embusque. D'insignifiant il s'érige mitan des cases à Nègres, papa-langue de l'oralité d'une culture naissante, maître-pièce de la mécanique des contes, des titimes, des proverbes, des chansons qu'il élève en littérature, ou plus exactement en oraliture. » (Chamoiseau-Confiant 1999: 72-73). Retour au texte

2 Secondo quanto affermato da Édouard Glissant il ruolo del mito fondatore è quello di « consacrer la présence d’une communauté sur un territoire, en rattachant par filiation légitime cette présence, ce présent à une Genèse, à une création du monde. » (Glissant 1995: 48); « En effet, le peuple antillais en quête d’identité ne peut s’appuyer sur le mythe d’une lointaine prise de possession de terres, comme par exemple le peuple d’Israël ou, comme certains peuples africains, sur celui d’ancêtres royaux. La traite des esclaves, qui a donné naissance à la société antillaise, a non seulement arraché des Africains à leur terre natale, mais elle a détruit en même temps leurs attaches culturelles. » (Glissant 1981: 84). Retour au texte

3 « Ce qui se passe dans la Caraïbe pendant trois siècles, c’est littéralement ceci : une rencontre d’éléments culturels venus d’horizons absolument divers et qui réellement se créolisent, qui réellement s’imbriquent et se confondent l’un dans l’autre pour donner quelque chose d’absolument imprévisible, d’absolument nouveau et qui est la réalité créole. » (Glissant, 1995: 15). Retour au texte

4 « L’Histoire est donc réellement fille du mythe fondateur. Sur le chemin qui mène à elle le mythe fondateur sera accompagné, puis occulté, puis remplacé d’abord par les mythes d’élucidation, d’explication ou de mise en abîme des processus sociaux et des conditions d’environnement d’une communauté, ensuite par les contes et récits qui préfigurent l’Histoire et enfin par les romans, poèmes et textes de réflexion qui disent, chantent ou méditent celle-ci. […] Pour ce qui est des sociétés où ne fonctionne pas de mythe fondateur, sinon par un emprunt — et je veux ainsi parler des sociétés composites, des sociétés de créolisation —, la notion d’identité se réalise autour des trames de la Relation qui comprend l’autre comme inférant. Ces cultures commencent directement par le conte qui, par paradoxe, est déjà une pratique du détour. Ce que le conte ainsi détourne, c’est la propension à se rattacher à une Genèse, c’est l’inflexibilité de la filiation, c’est l’ombre portée des légitimités fondatrices. Et quand l’oralité du conte se continuera dans la fixation de l’écriture, comme chez les écrivains de la Caraïbe et de l’Amérique latine, elle maintiendra ce détour étoilé qui déterminera une autre configuration de l’écrit, d’où l’absolu ontologique sera évacué. » (Glissant 1995: 62-63). Retour au texte

5 « Car la créolisation suppose que les éléments culturels mis en présence doivent obligatoirement être “équivalents en valeur” pour que cette créolisation s’effectue réellement. C’est-à-dire que si dans des éléments culturels mis en relation certains sont infériorisés par rapport à d’autres, la créolisation ne se fait pas vraiment. » (Glissant 1995: 17). Retour au texte

6 « Réciter un mythe est un acte religieux qui ne s’accomplit que dans certaines conditions» (Mauss 1947: 91). Retour au texte

7 Per impedire distrazioni durante le ore destinate al lavoro, la tradizione voleva che fosse vietato recitare contes alla luce del sole. È possibile che questa usanza derivi dalla tradizione africana che, accompagnata da superstizioni che predicono maledizioni a chi osi infrangere la regola, vieta, ai conteurs di esibirsi alla luce del sole (Condé 2000: 34) Retour au texte

8 « Et enfin celui que j’appelle le “migrant nu”, c’est-à-dire celui que l’on a transporté de force sur le continent et qui constitue la base de peuplement de cette espèce de circularité fondamentale qu’est pour moi la Caraïbe. » (Glissant 1995: 14). Retour au texte

9 A titolo di esempio, l’aquila viene sostituita dal pellicano. Retour au texte

10 In questo senso è utile richiamare qui alcune affermazioni dei maggiori teorici sull’argomento: « […] Je ne crois pas qu'il existe encore une littérature antillaise au sens où une littérature suppose un mouvement d'action et de réaction entre un public et des œuvres produites. Une littérature suppose un projet commun dont je pense pouvoir dire qu'il n'existe pas encore pour les Antilles; une littérature suppose un consensus, des accords ou des désaccords. » (Degras-Magnier 1984: 15). Lo stesso Glissant, quattro anni più tardi, affermerà invece che « La littérature antillaise de langue française qui avait beaucoup d’éclat prend désormais corps. » (Glissant 1988: 3). Alle parole di Glissant fanno eco quelle di Jean Bernabé, Patrick Chaimoiseau e Raphaël Confiant : « La littérature antillaise n’existe pas encore. Nous sommes encore dans un état de pré-littérature: celui d’une production écrite sans audience chez elle, méconnaissant l’interaction auteurs/lecteurs où s’élabore une littérature. » (Bernabé-Chaimoiseau-Confiant 1989: 14) Retour au texte

11 Il sottotitolo di questa prima parte è esemplificativo della distanza presa dalla fonte evangelica: (ou l’urbaniste qui vient pour raser l’insalubre quartier Texaco tombe dans un cirque créole et affronte la parole d’une femme-matador). Retour au texte

12 Il titolo del capitolo è, anche in questo caso, esemplificativo: «Résurrection (pas en splendeur de Pâques, mais dans l’angoisse honteuse du Marquer de paroles qui tente d’écrire la vie). Retour au texte

Citer cet article

Référence électronique

Laura Restuccia, « I ‘Contes de la nuit’: dal ‘Maître de la parole’ all’‘écrivain’ », Textes et contextes [En ligne], 8 | 2013, publié le 01 décembre 2013 et consulté le 21 novembre 2024. Droits d'auteur : Licence CC BY 4.0. URL : http://preo.u-bourgogne.fr/textesetcontextes/index.php?id=416

Auteur

Laura Restuccia

Ricercatore in Critica letteraria e Letterature comparate, Dipartimento di Scienze umanistiche (+390912398922), Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, ed. 12 – viale delle Scienze, 90128 Palermo

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