1. Patria
1.1. Emigrazione
Nel primo paragrafo dell’articolo: “La parola patria”, Erri De Luca afferma:
Nato e cresciuto in un posto del Sud alleggerito da milioni di emigranti, ho sentito ripetere spesso che “ ’a patria è chella ca te dà a mangia’ ”. La riduzione del proprio luogo a dispensatore alimentare era la più amara definizione, ma non così spregiativa. Lavorare e guadagnarsi il pane è diritto elementare ed è quello che produce dignità e radica appartenenza. Patrigna è la patria che lo nega, che discrimina tra figli e figliastri. Il Sud era molto figliastro. Sue patrie furono le Americhe, l’Australia (2006 : 66).
De Luca sviluppa la tradizionale requisitoria contro lo Stato incapace di risolvere la questione meridionale sorta con l’unificazione del paese e, affermando che “lavorare e guadagnarsi il pane è diritto elementare”, egli evidenzia la palese contraddizione esistente tra la solenne affermazione del principio costituzionale (quella italiana è una Repubblica “fondata sul lavoro”) e la storica inefficienza dello Stato democratico nel garantire la sua applicazione.
Sfruttando l’ambivalenza dell’espressione “madre patria”, De Luca definisce l’Italia “patrigna”, dando a questo attributo l’accezione negativa che può assumere il suo corrispettivo femminile, “matrigna”. “A patria è chella ca te dà a magna’” afferma la madre del narratore protagonista di Montedidio (2004b : 20), richiamandosi implicitamente alla figura mitica dell’alma mater.
“Gli emigranti”, prosegue De Luca, “espatriarono senza conoscere il verbo, salutando con un fazzoletto bianco e non tricolore” (2006 : 66). Il fazzoletto bianco, al quale De Luca oppone il tricolore, agitato dal migrante per salutare i suoi, esprime la dimensione esclusivamente privata che riveste la partenza ai suoi occhi. L’affermazione “espatriarono senza conoscere il verbo” lascia intendere che l’emigrante (che si riconosce solo parte della ‘piccola patria’ rappresentata dalla città, dalla provincia o al massimo dalla regione) non si sente membro della comunità nazionale. Ora i diversi popoli non possono formare un popolo finché non si riconoscono come nazione superando le loro divisioni e assumendo soprattutto un progetto politico comune.
1.2. Internazionalismo e universalismo
Militante della sinistra extraparlamentare negli anni settanta, De Luca era convinto che il senso della storia portasse necessariamente al superamento delle frontiere. “Una volta si diceva che gli operai erano gente che non aveva nazione”, ricorda una delle voci narranti di Aceto, Arcobaleno (2004a : 26). Il saggista puntualizza:
Da giovane ho aderito a lungo a una gioventù rivoltosa e comunista che ripeteva il motto: il proletariato non ha nazione. Gli operai, gli sfruttati, secondo quella convinzione, erano compatrioti di altri come loro oltre i confini, ben più che dei loro concittadini di ceto borghese. Perciò patria è un termine fuori del mio dizionario e forse lo sto scrivendo qui per la prima volta (2006 : 67).
De Luca ritiene che il termine ‘patria’ sia stato irrimediabilmente compromesso dall’appropriazione che ne fece il fascismo:
A casa nostra la parola patria era inesorabilmente accoppiata all’esperienza buffa e tragica del fascismo. […] Quella patria con il punto esclamativo si era presa sul serio al punto di credersi guerriera. Napoli ascoltò la sirena di allarme aereo la sera della dichiarazione di guerra, la parola patria presentava in fretta il conto. Ci sono vocaboli che diventano inservibili. Insieme al “lebensraum”, lo spazio vitale, preteso dall’espansionismo tedesco, anche patria finì sotto le macerie e cingoli dei vincitori, insieme a una monarchia lesta a disertare (2006 : 66-67).
Questa tesi è in sostanza quella che Ernesto Galli Della Loggia sviluppa nel suo saggio del 1998, La morte della patria:
L’immagine complessiva che diede di sé l’Italia nella guerra 1940-43 fu tale che, se anche in cerchie ristrette suscitò un sentimento di umiliazione cocente ed un’ansia di verità e di impegno, […] nei più, invece, quell’immagine produsse ben altri effetti. Nell’esperienza vissuta di costoro, di un gran numero di uomini o di donne, essa attestò e racchiuse semplicemente la crisi della nazione, la sua inettitudine a reggere le prove, la gracilità insospettata del vincolo di appartenenza comunitario, la forza irreprimibile di egoismi e viltà individuali (Galli Della Loggia 2008: 12).
Dopo la tragica esperienza del fascismo, ogni riferimento alla patria appare un penoso rigurgito dell’assunto nazionalista, una regressione alle premesse della catastrofe. Per questo De Luca si definisce “uno senza la parola patria”, alla quale dice di preferire “delle varianti come: matria, fratria, tanto per dare un cambio ai padri, monete fuori corso” (2006 : 68). La demonetizzazione della figura paterna svuotata di ogni valore fiduciario è compensata dalla rivalutazione della figura materna e l’orizzontalità dei rapporti di fratellanza soppianta la verticalità dell’ordine patriarcale: la “matria” e la “fratria” vanno sostituite alla “patria” ormai esaurita. “Ho conosciuto la fraternità, io che non avevo fratelli” scrive De Luca in Altre prove di risposta (2000a : 53). Solo nell’ambito della militanza politica De Luca è riuscito a dare un contenuto al concetto di appartenenza (2002b : 27) fino agli anni del famigerato riflusso. Finché i compagni di lotta incarcerati non saranno condonati per suggellare la riconciliazione dei due schieramenti, De Luca si manterrà “in disparte della comunità nazionale” (2002b : 28).
Lo scrittore rimasto fedele ai principi ispiratori del suo impegno rivoluzionario è oggi vicino alle posizioni del movimento altermondialista; e la sua partecipazione a tante missioni umanitarie è anch’essa coerente rispetto agli assunti fondamentali della sua fede internazionalista.
1.3. L’onore della patria
Mia madre dice che patria è una parola che ti è cara solo se stai all’estero e senti qualcuno che parla male del tuo paese. Allora scatta la molla di difenderlo. Sono d’accordo con lei, anche a me è successo e mi sono trovato a ricacciare indietro l’offesa (2006 : 67-68).
De Luca descrive il noto meccanismo dell’affermazione identitaria reattiva: l’immedesimarsi del soggetto nella propria comunità non è un dato incondizionato ma un atto di difesa contro l’aggressione esterna. Questo fattore negativo (la minaccia – reale o immaginaria – che fa pesare l’altro) fonda – e consolida e fortifica nei momenti di crisi – l’identità collettiva. Trovandosi fuori del suo ambiente familiare, il soggetto è particolarmente esposto e vulnerabile; saranno quindi i pregiudizi negativi diffusi nel paese ospitante sul conto della sua terra e l’ostilità di cui è conseguentemente vittima a riattivare in lui il senso di appartenenza alla propria comunità di origine, per cui l’offesa che colpisce l’onore della patria – per usare un’espressione classica che riacquisisce in questo contesto tutta la sua forza – è necessariamente avvertita come un’offesa personale che va “ricacciata indietro”:
Proteggevo così il mio luogo d’origine, la lingua che ho imparato a parlare e ad amare dopo il napoletano, il piatto in cui ho mangiato e le ricette imparate, la geografia, il nome dei miei, l’olio, le arance, Vittorio De Sica e Fabrizio De Andrè, il sangue visto spargere, un bacio sul marciapiede di un binario. Queste cose mi hanno messo impronta, non una maglia azzurra, una coccarda, un’istituzione. Allora sì, lontano, mi è scattato il riassunto dell’italiano che sono, uno senza la parola patria, alla quale preferisco delle varianti come: matria, fratria, tanto per dare un cambio ai padri, monete finite fuori corso. (2006 : 67-68)
De Luca esordisce accennando al suo “luogo d’origine”. L’espressione altre volte usata −come vedremo− per designare Napoli, assume qui un significato generico e indica l’intera penisola; ovvero si riferisce sì alla città nativa ma in quanto parte inscindibile dal tutto, e questo perché le distinzioni evidenti all’interno del paese e gli storici contrasti tra Nord, Centro e Sud, tra regioni, tra province o città, non solo sfuggono a chi non conosce l’Italia ma vengono meno anche agli occhi dello stesso cittadino in esilio, come se il paese visto da lontano subisse una radicale semplificazione e chi si trova fuori esposto alle critiche potesse solo opporre al clichè cui gli stranieri riducono il suo paese una visione di esso drasticamente condensata.
Chiamando l’italiano “la lingua” che ha “imparato a parlare e ad amare dopo il napoletano”, lo scrittore pone idioma nazionale e dialetto sullo stesso piano, sebbene questo preceda quello nell’ordine della scoperta (un punto sul quale torneremo).
L’accenno al “piatto in cui ha mangiato” riallaccia il discorso all’identificazione preliminare della patria con la terra atta a soddisfare i bisogni primordiali.
Sebbene il quadro tracciato da De Luca voglia essere generale ed inglobare tratti dell’intera penisola, domina l’elemento meridionale in questa rapsodica enumerazione. Se le espressioni: “il piatto in cui ho mangiato e le ricette imparate, la geografia” sono generiche, i termini: “l’olio, le arance” rimandano inequivocabilmente al Sud. Il cognome De Luca, al quale accenna lo scrittore, è essenzialmente diffuso nel centro-sud ed è comunissimo in Campania. Invece, delle due figure di artisti citate, solo il primo, De Sica, è un mezzo napoletano (per parte di madre), mentre il secondo è genovese. Il “settentrionale” De Andrè è stato evidentemente scelto per l’impegno a sinistra e la vicinanza ideologica ma lo scrittore e il popolare cantautore condividono anche lo stesso mare, appartengono allo stesso litorale tirreno. L’Italia di De Luca non è quella dell’entroterra ma quella dei porti, non è un paese rinchiuso nelle sue frontiere ma aperto sul mare. Lo scrittore si definisce più mediterraneo che europeo e dichiara di sentirsi più vicino (il termine andrebbe anche inteso ad litteram) ad un Tunisino che a un Piemontese (Intervista 2007).
L’accenno al “sangue visto spargere” richiama senz’altro gli anni di quella che De Luca considera insieme a tanti altri intellettuali di sinistra una guerra civile, guerra particolarmente efferata nella quale è stato anche lui direttamente coinvolto e che quelli della sua parte hanno perso. Si tratta di un sangue versato da alcuni suoi concittadini non per il loro paese ma per quell’altra patria ideale che rappresenta ancora ai suoi occhi un orizzonte insuperabile. Il tenore di questo sintagma contrasta con quello dell’enunciato successivo: “un bacio sul marciapiede di un binario”, che chiude l’elenco, come se lo scrittore volesse suggerire attraverso questo accostamento lo stretto legame che unisce amore e morte. Ci ricorda inoltre che gli affetti nell’opera di De Luca sono sempre posti sotto il segno malinconico del distacco e della separazione.
De Luca si compiace nel sottolineare che l’inno nazionale, che dovrebbe toccare in ogni cittadino il tasto patriottico, lo lascia del tutto indifferente. Egli giudica l’inno di Mameli con distacco, da un punto di vista puramente estetico, senza il minimo coinvolgimento affettivo, asserendo che non ha deciso ancora “se è più scadente il testo o la musica” (2006 : 67). I simboli della nazione sono presentati in una prospettiva degradante dallo scrittore che identifica le manifestazioni dell’amor patrio con l’espressione del più volgare sciovinismo. Egli mette il culto delle istituzioni sullo stesso piano del tifo calcistico e non si sa se la coccarda alla quale accenna sia quella della repubblica o della squadra nazionale. Agli emblemi della patria svuotati di ogni contenuto lo scrittore contrappone quelli che, per parafrasare un suo componimento in versi liberi, egli “considera valori” (2002a : 98): “Queste cose mi hanno messo impronta, non una maglia azzurra, una coccarda, un’istituzione”. Scrivendo: “Allora sì, lontano, mi è scattato il riassunto dell’italiano che sono”, De Luca evidenzia che l’identità non è oggetto di una libera scelta ma che l’essere nati e cresciuti in un determinato ambiente culturale condiziona in profondità la costituzione di sé.
Ma la fragile coesione nazionale è anche minacciata dall’interno, dai crescenti fermenti secessionisti. In un’intervista del 1997, De Luca afferma:
Forse non siamo tanto attaccati a questa bandiera. Però, quando arriva qualcuno che vuole tagliarla a fettine, magari diciamo: “No, ma lasciamola così com’è. Ormai è tanto bella cucita, ha quelle belle cuciture. No non ci mettiamo a fare lavori di sartoria, non dividiamola. Lasciamola così, ma insomma”. Non ne parliamo probabilmente perché, in fondo, dentro di noi non la sentiamo minacciata. Ma l’attaccamento cresce quando qualcosa ci viene sottratta; diamo per scontato che abbiamo una nazione, che abbiamo la pace, che abbiamo la possibilità di andare a scuola, avere degli ospedali, eccetera. Lo diamo per scontato. Quando improvvisamente questa cosa ci viene sottratta, la lotta per conquistarla diventa formidabile. (De Luca, intervista 1997)
Il ‘riflesso di difesa’ della bandiera, il volerla riparare dagli attacchi questa volta non più esterni ma interni alla nazione, partecipa della stessa logica reattiva che spinge il cittadino espatriato a identificarsi colla patria bersagliata per “ricacciare l’offesa” inflittale dai suoi detrattori. Il secessionismo leghista catalizza la presa di coscienza della fragilità della costruzione nazionale che torna così a costituire un valore da tutelare.
2. Napoli
2.1. L’origine e l’erranza
Se De Luca tende a diffidare di ogni riferimento alla patria alla quale si dimostra tuttavia profondamente legato, intrattiene rapporti non meno complessi ed ambivalenti con la città di nascita. Come sottolinea Attilio Scuderi, se Napoli costituisce lo sfondo della maggior parte dei racconti deluchiani, questo sfondo “viene declinato tramite una tecnica di descrizione allusiva e reticente, che dice e non dice, evoca ma non pronuncia espressamente il nome della città” (2002 : 13). I romanzi deluchiani sono quasi tutti ambientati a Napoli o nel napoletano: Non ora non qui e Montedidio rievocano la città del dopoguerra. L’azione di Tu, Mio si svolge nello stesso periodo ma nello scenario di un’innominata isola del Tirreno in cui è facile ravvisare Ischia. Aceto, Arcobaleno è ambientato in una località meridionale imprecisata ma la casa che ospita il protagonista è abitata dalle voci degli amici napoletani che ci hanno soggiornato. La Napoli rievocata in questi racconti è quella degli anni cinquanta e sessanta, quella cioè degli anni d’infanzia e d’adolescenza dell’autore.
Rifiutando di essere ricondotto alla propria origine, lo scrittore, che afferma di “risentire dei luoghi d’origine” (2004c : 86), non si definisce “di” ma “da” Napoli:
Napoli è il mio posto d’origine. Me ne sono andato a diciotto anni, ci sono poi tornato dopo il terremoto, lavorando per un anno in un cantiere della ricostruzione. Me ne partii la prima volta sapendo che il moto che mi staccava da quel luogo aveva caricato la sua molla in quei vicoli. Ne schizzai via nell’autunno del ’68, come la palla del flipper che si catapulta da un cunicolo di lancio. Sono rimbalzato qua e là, salvato qualche volta da un buon colpo di sponda, ho suonato qualche campanello e prima o poi inforcherò, imprendibile, l’uscita, come una palla persa, come tutti. Ma quel luogo d’origine spiega a me stesso molto del percorso spezzato, del tragitto a volo di pipistrello e del fatto che non ho attecchito in nessun altro luogo. Non vorrei essere partito da nessun’altra parte. Napoli è la mia fortuna d’origine (2000 : 18-19).
La metafora del flipper ravviva quella topica del gioco della fortuna, suggerendo che il soggetto non è padrone del suo destino, che il suo percorso, lungi dall’essere già tracciato in partenza, è sostanzialmente aleatorio, che egli è condannato ad andare a sbattere qua e là in maniera sconclusionata. De Luca afferma che “quel luogo d’origine” gli spiega la propria erranza. Tuttavia non chiarisce né la natura della molla che è scattata in lui, l’origine dell’impulso che lo ha spinto come una palla nel mondo (nel suo caso non si è trattato di una necessità di ordine materiale bensì morale), né l’impossibilità per lo sradicato che è diventato di “attecchire” in un altro luogo.
In diversi racconti di ispirazione autobiografica – segnatamente quelli della raccolta intitolata Il contrario di uno del 2003 – il romanziere torna sull’esperienza del distacco dalla città nativa. Questo allontanamento è presentato dal narratore de La camicia al muro come una fuga: “evasi dal mio luogo di fondamento e sud” (2005b : 41). Si pensa alla metafora della mosca prigioniera della bottiglia che Raffaele La Capria prende in prestito a Wittgenstein applicandola alla condizione esistenziale del soggetto partenopeo rinchiuso nell’asfittico ambiente provinciale (La Capria 2003 : 1459-60).
Ora lo staccarsi dai vischiosi affetti familiari comporta costi pesanti. Se, da un lato, l’allontanamento è vissuto come una mossa liberatrice, dall’altro, esso desta in chi compie il passo un sordo senso di colpa. Così, il protagonista de Il conto definisce la sua partenza un tradimento: “Partii tradendo tutti, padre, madre, sorella, casa, studi, i pochi amici e le mille settimane di residenza, tante servono a fare diciott’anni.” (2005b : 86). Come se il soggetto dovesse scontare questa imperdonabile mancanza nei confronti del suo mondo, l’allontanamento liberamente scelto si trasforma in esilio coatto e nessun rimpatrio è più concesso al profugo:
La città bandiva i suoi assenti. Chi non l’abitava veniva iscritto nel registro segreto degli espulsi. Napoletano è titolo solo per residenti, la nascita non basta. Conta chi resta, ogni altro è forestiero (2005b: 86).
Questo giudizio ricorda il radicalismo di Luigi Compagnone per il quale l’essere napoletani richiede la permanenza in città ed esclude una residenza intermittente (La Capria 2003 : 1118).
Allontanandosi dalla città, il napoletano perde definitivamente la cittadinanza originaria. Questa irreversibilità è ribadita ma non è mai veramente analizzata. Il narratore tende a presentarla come un dato di fatto. Così il protagonista de Il vino rievoca la mancata rimpatriata:
Allora una sera di dicembre dell’anno d’impazienza millenovecentosessantanove andai a Napoli a rimettermi nel cerchio delle facce. Ero già un intruso. Guardavo sforzato il posto da cui mi ero staccato (2005b : 113-4).
Anche il protagonista de La città non rispose si accorge al suo ritorno di essere diventato estraneo alla città:
In altre città ero stato uno di Napoli, bastava agli altri e a me quella provenienza. A Napoli non mi era accreditata. Tra gli operai della mia lingua ero accolto come un forestiero. Ero per loro uno di altre città, su di me la fatica aveva lasciato altre pose, altre usanze (2005a : 41).
Tornato a Napoli dopo il terremoto dell’81, il protagonista de Il conto si accorge di aver subito una radicale trasformazione: “Io non ero più io, trent’anni, dodici lontano, un estraneo passato ad altre usanze, un operaio del nord” (2005b : 86).
Accanto alla spiegazione razionale del cambiamento: il processo di maturazione, gli anni trascorsi “fuori” e l’influenza di un altro ambiente che impediscono al soggetto di riambientarsi, il narratore accenna ad una causa di natura quasi metafisica dell’impossibile rimpatrio: “Non portavo con me il verbo tornare”, chi se ne va di lì perde diritto al verbo. Ci può andare, laggiù, tornare, no” (2005b : 87). La partenza è irreversibile, l’andata senza ritorno. Chi è venuto meno ai suoi doveri nei confronti della città, chi l’ha tradita allontanandosene, perde ogni diritto di cittadinanza. De Luca scrive in Napòlide:
Ho rispetto del diritto di rigurgito che la città applica a chi se ne allontana. Se rispondo di me presso di lei è perché porto i panni dell’ospite, non del cittadino. E se non ho il diritto di definirmi apolide, posso dirmi napòlide, uno che si è raschiato dal corpo l’origine, per consegnarsi al mondo (2006 : 6).
De Luca torna spesso nella sua opera sulla condizione di essenziale estraneità dell’uomo nei confronti della terra che lo ospita, un’estraneità che si potrebbe definire originaria: “Si è stranieri sul posto, proprio dove si è nati” sostiene il narratore di La città non rispose, “solo lì è possibile sapere che non esiste terra di ritorno (2005a : 41). Il soggetto, in qualunque luogo si trovi, è solo di passaggio.
De Luca assimila in Montedidio Napoli a Gerusalemme attraverso una fitta rete di analogie e identifica il popolo napoletano ad una delle dodici tribù d’Israele (2004b : 57). Il saggista scrive in Napòlide:
[…] Napoli è diventata sotto lettura una controfigura di Gerusalemme. Un secondo arcobaleno si forma a volte più sbiadito accanto al primo, così Napoli per me dai versi scritti per Gerusalemme. Sorge in seconda, dietro la città santa, la mia d’origine e d’oriente, il mio tabbùr haàretz, ombelico della terra. Non è un centro l’ombelico, è solo un nodo e un punto di separazione. Da lì mi sono staccato con un morso, la corda è finita ai gatti ma il nodo è mio, stretto su di me. Da lì mi sono estratto come dente da mascella (2006 : 23-24).
Sebbene non lo esprima esplicitamente nei suoi scritti, sembra che De Luca identifichi la propria condizione di soggetto sradicato e erratico con quella dell’ebreo della diaspora .
2.2. Lingua e dialetto
In Napòlide, De Luca scrive a proposito dei napoletani emigrati:
Si portavano dietro un dialetto in cui esprimere la nostalgia, l’italiano era lingua di chi poteva permettersi il lusso di parlare diverso dal popolo, dai popoli riuniti sotto il cappello Italia (2006 : 66).
De Luca ricorda che, in tempi relativamente recenti, l’uso dell’italiano era prerogativa delle classi superiori e il popolo disponeva solo del dialetto; la padronanza della lingua non era tanto percepita come un ampliamento delle risorse comunicative, un accrescimento delle possibilità conoscitive ed espressive quanto un semplice segno di distinzione sociale, una specie di status symbol. La lingua era riservata a “chi si poteva permettere il lusso di parlare diverso dal popolo, dai popoli”. Nella prima occorrenza, il vocabolo “popolo” è preso dal saggista nel suo significato puramente sociale e designa le classi inferiori, mentre nella sua immediata ripetizione al plurale, il termine, pure conservando questo valore, acquisisce anche quello etnico. Tuttavia, la distinzione socioeconomica ha il sopravvento su quella etnico-culturale ritenuta in questo contesto quasi accessoria. I “popoli” sono le classi dominate e sfruttate di un paese frammentato. Sono semmai le classi dirigenti e possidenti a potersi identificare collo stato nazionale. Il paese non è visto qui come un tutto organico ma implicitamente considerato un aggregato di popolazioni eterogenee riunite “sotto il cappello Italia”. L’insolita metafora suggerisce l’idea di una forma estrinseca che copre il territorio senza conferirgli una vera struttura politica.
Il dialetto che l’emigrante “si porta dietro” quale unico bagaglio, quale unico viatico nell’esilio coatto costituisce il tesoro inalienabile della diaspora da essa gelosamente custodito; il dialetto un cui il nostalgico esprime il rimpianto della piccola patria perduta è il sostituto di un mondo ormai irrecuperabile, rappresenta il luogo della memoria nel quale egli cerca e trova rifugio. Il dialetto trapiantato in un altro ambiente culturale e linguistico può sia rinsecchirsi che attecchire se gli utenti anziché trascurarlo ne prendono cura; la volontà di preservarlo traduce il persistente attaccamento degli emigrati alla terra d’origine ad onta della lontananza a cui sono costretti; il radicamento spirituale che questo uso tenace manifesta compensa in questo caso lo sradicamento inerente alla condizione di emigrato.
“Non si abita un luogo, si abita una lingua”, scrive Elias Canetti ne La Lingua salvata (citato da La Capria 2003 : 1279). In Alzaia, De Luca definisce il napoletano la lingua “in cui” è nato:
Oggi mi succede di essere nominato scrittore italiano. Soprappensiero e automaticamente correggo: scrittore in italiano. Perché è lingua seconda, messa accanto e in sordina rispetto alla prima voce, il napoletano. L’italiano è una lingua raggiunta, la amo. Per l’altra non uso il verbo amare. Al napoletano voglio bene e lui pure me ne vuole (2004c : 75).
Ci si può chiedere perché De Luca non accetti per sé l’appellativo di “scrittore italiano” e preferisca quello insolito di “scrittore in italiano”. Vi sono diversi passaggi sottintesi nel suo ragionamento ellittico, innanzitutto uno slittamento dal concetto di nazionalità (uno scrittore può essere italiano a prescindere dalla lingua in cui scrive) a quello della scelta del mezzo espressivo (in questo caso l’italiano o il dialetto). Si può supporre che De Luca rifiuti di essere considerato “scrittore italiano” perché si sente estraneo alla comunità nazionale per motivi storico-politici, e si definisca invece “scrittore in italiano” perché la sua italianità risiede ai suoi occhi esclusivamente nella lingua. Ma il punto essenziale dell’argomentazione riguarda la priorità che egli riconosce alla lingua napoletana rispetto a quella italiana. L’italiano è “lingua seconda messa accanto e in sordina rispetto alla prima voce” scrive De Luca. A prima vista potrebbe sembrare che lo scrittore affermi la superiorità del dialetto sull’italiano, ma l’avverbio “accanto” esclude ogni forma di gerarchizzazione tra gli idiomi che sono invece parificati, e l’espressione “in sordina” non ha qui alcuna connotazione spregiativa. Il silenzio è in effetti una proprietà della scrittura che la distingue dalla parola proferita. “Scrivo in italiano perché è zitto e ci posso mettere i fatti del giorno, riposati dal chiasso del napoletano (2004b : 7) afferma il narratore protagonista di Montedidio. In quanto lingua della scrittura, l’italiano è voce silenziosa, interiore.
Per esprimere il sentimento che prova nei confronti del napoletano, De Luca preferisce al verbo ‘amare’ la locuzione ‘voler bene’ che, sebbene sia di uso corrente in Italiano, richiama immediatamente la sua variante dialettale, quasi la prima valesse qui come traduzione o calco della seconda. De Luca suggerisce l’insostituibilità dell’idiotismo a dispetto dell’apparente sinonimia delle due forme. L’affetto per il dialetto è letteralmente intraducibile: lo si può esprimere solo in dialetto, usando le sue voci. Il rapporto simbiotico che lo lega al napoletano (“Al napoletano voglio bene e lui pure me ne vuole”) è implicitamente contrapposto al rapporto asimmetrico che intrattiene con l’italiano. Questo, a differenza del dialetto, non è un dato immediato bensì una faticosa conquista, è una lingua “raggiunta” superando la primitiva distanza che li separava; e l’amore che egli nutre per esso potrebbe anche non essere corrisposto.
Nel primo dei due articoli « Napoletano » di Alzaia, De Luca afferma:
Non sono un patriota, non si accelera il battito alle fanfare dell’inno nazionale. La mia patria è la lingua nazionale. La mia patria è la lingua italiana. L’ho avuta da mio padre, dai suoi libri, dalla sua pretesa di parlarla in casa senza accento. Nella città di mezzo Novecento il napoletano era lingua schiacciante, l’italiano poco e malinteso. Mio padre ne era il custode, io l’erede. È stato un dono immenso, è stata patria, territorio del padre (2004c : 74).
Il padre esercita il suo ruolo simbolico di separatore introducendo la distanza tra madre e figlio; egli strappa il figlio dal dialetto “in cui è nato”, lo stacca dal napoletano che fa un tutt’uno con il mondo materno, facendogli subire una forma di castrazione simbolica.
L’apprendimento dell’italiano coincide per De Luca con la scoperta della letteratura, dei libri, che egli afferma di aver ricevuto dal padre, suggerendo che essi sono proprietà di questo ultimo in un senso molto più essenziale della semplice appartenenza materiale, quasi rappresentassero l’attributo principale della sua autorità.1
“Miracolo furono i libri di mio padre, molto più grande del mondo che avrei conosciuto, molto più profondi” scrive De Luca in Altre prove di risposta (2000a : 24). Il “raggiungimento” dell’italiano attraverso la letteratura coincide con un’apertura verso nuovi orizzonti e un approfondimento conoscitivo che nessuna altra esperienza sarebbe stata in grado di garantire; in questo senso è una vera e propria conquista di civiltà. Ma il dialetto rappresenta una risorsa complementare insostituibile in quanto permette invece un ritorno alla dimensione privata ed intima e la possibilità permanente per il soggetto di ristabilire un “contatto” immediato col proprio mondo originario:
Lo uso per consuetudine con mia madre e questo è uso di molte comunità. Gli ebrei dell’Europa orientale chiamano lo yiddish mamelòshn, lingua di mamma. […]. Chi ha smesso di usare il dialetto è uno che ha rinunciato a un grado di intimità col proprio mondo e ha stabilito distanze. Ne ho marcate molte anch’io, ma conservo per mia salvezza un resto di quegli affondi bruschi di senso e di contatto che sono possibili solo in mamelòshn, il napoletano per me (2006 : 20-1, vedi anche 2000b : 122-123).
Non è casuale l’accostamento del napoletano allo yiddish. Si potrebbe in effetti rintracciare nella coppia delle lingue che De Luca ha studiato da autodidatta: l’ebraico e lo yiddish, il corrispettivo dell’italiano e del napoletano: la lingua del Padre e quella della Madre (mamelòshn).
Tuttavia, il napoletano è bifronte, ambivalente: può essere femminile e carezzevole ma anche virile ed aggressivo, protettivo o offensivo a seconda dei tempi e dei luoghi in cui viene adoperato. Sulla falsariga di Domenico Rea e di Raffaele La Capria, lo scrittore inficia i luoghi comuni stucchevoli inerenti alla cosiddetta napoletanità. Della sua città afferma: “Mai materna, indulgente: non ricordo che perdonasse ai suoi, né che i suoi si perdonassero tra loro” (2006 : 18). Così il dialetto esprime l’asprezza dell’ethos partenopeo:
Il napoletano veniva dalla pressione della densità umana per metro quadro, era svelto di sillabe e di coltello, servile e guappo, feroce e sdolcinato di vezzeggiativi, era una lingua di consolazione, dava forza e figura a chi la sapeva usare. / Era destrezza a usare meno sillabe, a ingiuriare più a fondo, a sfottere più scorticatamente. L’ho imparato a orecchio a forza di sconfitte sul campo della strada. Un dialetto s’impara per legittima difesa. Sta nella bocca come dentro un fodero di cuoio. In una vita puoi studiare dieci lingue ma non due dialetti (2006 : 18).
Il napoletano presenta così due facce contraddittorie: è lingua dello spazio privato e degli affetti domestici ma è anche lingua della strada, dei rapporti sociali arcaici e brutali, un’arma di difesa il cui uso corrisponde al necessario adattamento ad un ambiente ostile, pieno d’insidie e di pericoli.
Tuttavia, mentre “nella città di mezzo Novecento il napoletano era lingua schiacciante” e “l’italiano poco e mal inteso”, oggi è l’italiano, ormai praticato da tutti, a schiacciare il dialetto; purtroppo, non è la lingua ricca e complessa che s’impara solo dai libri ad essersi imposta ma un idioma semplificato e convenzionale ad uso e consumo dell’uomo qualunque immerso nella logosfera mediatica. Sulla scia del Pasolini degli Scritti corsari, De Luca lamenta il processo di omologazione culturale e linguistica che fagocita i dialetti, i quali, dallo stato di lingue, sono ridotti a quello di semplici parlate regionali:
Ora il napoletano si sta ritirando sotto l’occupazione della lingua nazionale che gli cancella il dizionario e lo riduce a una cadenza, una calata meridionale, come l’accento marsigliese in margine al francese. Nella tendenza del mondo all’uniformità, si dice globalizzazione, i dialetti finiscono inglobati, cioè inghiottiti (2004c : 74).
Il napoletano è una specie di umwelt, di ambiente minacciato di cui occorre prendere cura: “Gli proteggo la siepe, non ci faccio entrare l’italiano, adesso è per me una riserva naturale” (2004c : 75). Attraverso la metafora ecologica, De Luca riattiva la mitica visione dantesca, esposta nel De vulgari eloquentia, del “volgare” come lingua “naturale” rispetto all’artificiosità grammaticale della koinè. Lo scrittore torna spesso sulla motivazione, ai suoi occhi non arbitraria bensì naturale, dei segni:
Gli voglio bene perché mette forza di raddoppio alla parola “ammore”, al posto del più delicato amore, e nel “dimmane” che deve essere migliore del solito domani. Gli voglio bene perché al contrario dell’indicativo “abbiamo” toglie peso e presunzione al verbo avere, dicendo “avimm”./ Mi piace che non esiste in napoletano la parola eroe e che “guappo” sia spesso una recita incruenta. Gli voglio bene perché raddoppia “primma” e “doppo” e dà così più consistenza al prima e al dopo. Mentre il presente è un frattempo che si riduce a “mo”, sillaba di momento. E sono affezionato al suo verbo andare che è il più veloce del mondo, “i”, più corto del già svelto “ire” latino. Perché quando te ne devi andare, “te n’ia i”, subito (2004c : 75).
Nella misura in cui De Luca attinge più volentieri alla fonte ebraica che a quella ellenistica, queste disquisizioni sulla relazione di essenziale adeguazione tra significante e significato vanno ricondotte, piuttosto che alla tradizione del cratilismo, ad una fantasticheria d’ispirazione cabalistica sulla corrispondenza adamitica dei segni e delle cose.
La scelta dei vocaboli non è casuale: nella doppia “m” di “ammare” si coglie l’accenno di “mamma”, il primo amore (la doppia lettera rinvia anche ai due soggetti della relazione, al “due” che De Luca definisce “il contrario di uno”).
Nella contrapposizione di “abbiamo” ad “avimm”, il passaggio della doppia esplosiva alla semplice fricativa traduce il ridimensionamento dell’idea di proprietà che De Luca si auspica sia come intellettuale altermondialista che come lettore assiduo delle Sacre Scritture.
De Luca si compiace di una lacuna lessicale che paradossalmente considera un segno di superiorità: l’assenza della parola “eroe”, implicitamente ricondotta all’uso che ne fece il fascismo2, alla quale accosta e contrappone il termine “guappo” (se “eroe” non ha nessun corrispettivo in napoletano perché, sottintende De Luca, è nozione inconcepibile per una mente partenopea, “guappo” è inteso da tutti ed è perciò entrato a far parte della lingua italiana). Tuttavia, asserendo che il vocabolo designa “spesso una recita incruenta” (la scelta dell’avverbio lascia intendere che non è sempre così) De Luca tradisce en passant una relativa lacuna del proprio quadro di Napoli: sono rari gli accenni alla camorra nei suoi scritti3. Il guappo “incruento” evocato qui da De Luca è quello leggendario dell’Oro di Napoli di Marotta, non il camorrista cinico e spietato descritto in Gomorra da Roberto Saviano (Saviano 2006).
Gli avverbi (primma, doppo, dimmane dilatati dal raddoppiamento della consonante contrapposto alla concentrazione del monosillabico mo rispecchiano la concezione deluchiana del tempo contrassegnata dalla ritenzione da parte del soggetto di un passato che non passa (quello che è stato è, il prima incombe irrimediabilmente sul dopo) e dal suo protendersi verso un orizzonte insuperabile.
L’ultimo esempio, l’infinito “i” racchiude ed esprime nella sua compendiosità l’impossibile indugio, l’urgenza inerente alla condizione nomade che egli considera sua.
In Altre prove di risposta, De Luca definisce in questi termini il suo rapporto con la lingua:
La lingua è il mio vestito, quello con cui entro in casa d’altri, cui è sospesa la mia poca voce, è la mia musica, la festa. È la lingua italiana, nessuno al mondo la conosce al di fuori di noi, nessuna terra d’oltremare, solo noi, mucchio di scontenti e di beati, stretti tra alture e coste. Amo questo vestito fatto di lingua italiana, amo i dialetti, la precisione e la varietà, la capacità di cambiare registro con una sola parola (2000 : 40).
De Luca racconcia la metafora logora del vestito (ogni pensiero riveste una forma) per suggerire il valore festivo e suntuario dello stile, impronta personale che lo scrittore imprime alla lingua per il proprio e altrui diletto. Sebbene la pièce Morso di luna piena (2005d)4 sia l’unica opera che abbia scritto in napoletano, De Luca attinge continuamente alle fonti del vernacolo e mesce nella sua prosa fluida forme auliche e dialettali. Lo scrittore identifica i suoi libri a tanti “biscotti” e associa la metafora gastronomica a quella ieratica dell’“acqua lustrale” di cui esse prelibatezze caserecce sarebbero impregnate: “Non so se i miei pochi libri sono curati nel linguaggio, so che sono biscotti inzuppati fradici nell’acqua lustrale del nostro paese (2000 : 40)” ; il qualificativo “lustrale” appartiene all’ambito del sacro, richiama insieme i rituali pagani di purificazione e il sacramento cattolico del battesimo. Contro ogni aspettativa, De Luca definisce la propria opera uno squisito prodotto della sua terra e non esita ad affermare che la sua ispirazione attinge alla sorgente primordiale dell’italianità. L’uso dell’aggettivo possessivo (“nostro paese”) e quello reiterato del pronome personale (“noi”, “solo noi”) esprimono il suo immedesimarsi nella comunità nazionale alla quale dice in altri saggi di sentirsi estraneo.
L’Italiano è, rispetto al napoletano, lingua universale, ma solo in senso ristretto: è koinè di un unico paese, scarsamente diffusa al di fuori della penisola; ma sembra che siano proprio questi limiti a conferirle pregio agli occhi di De Luca, il quale non manifesta particolare interesse per la ‘lingua dell’Impero’, l’angloamericano, a cui preferisce idiomi “minoritari”.
In compenso, la letteratura ha vocazione all’universalità nel significato più ampio del termine, in quanto è suscettibile di conoscere una diffusione planetaria attraverso la traduzione. La voce dello scrittore può così rivestire altri abiti, assumere altre fogge. Anche se De Luca non abborda questo aspetto nel suo saggio, il successo che i suoi libri riscontrano all’estero, segnatamente in Francia, ne è la dimostrazione.