Introduzione
L’esigenza di promuovere il sistema delle produzioni locali attraverso la valorizzazione dei fattori culturali si sviluppa in stretta connessione con la Politica Agraria Comunitaria (PAC) alla fine degli anni ’60, quando la trasformazione della società muta in maniera irreversibile l’assetto fondiario ed emerge il concetto di turismo rurale come risposta all’esigenza di svago nel tempo libero.
Il turismo rurale conduce in campagna, dove le produzioni agricole e l’enogastronomia sono l’espressione culturale dell’identità regionale. L’individuazione del nesso fra identità territoriale e produzioni agricole si fonda su una conoscenza approfondita delle risorse del territorio, sullo studio dei sistemi di produzione e dei fattori che ne determinano le scelte tecnologiche, scientifiche e commerciali, nonché sulla documentazione storica della tradizione. È in questo contesto che si collocano il recente filone di studi economico-agrari e in parte anche geografici mirati a cogliere le relazioni esistenti tra lo sviluppo dell’economia rurale e le specificità del territorio, nonché i tentativi di individuazione dei sistemi rurali e dei distretti agricoli, ovvero quelle aree i cui fattori di competitività sono riconducibili alle peculiarità dell’ambiente naturale e socio-economico-produttivo1.
Dall’esigenza di una valorizzazione multidisciplinare dei prodotti e dei territori nasce in Francia nel 1977 la Direction du patrimoine, emanazione del Ministero della Cultura. La Mission du Patrimoine Ethnologique diviene lo strumento di valorizzazione delle culture regionali, si avvale del metodo etnografico e porta nel contempo alla costruzione di una vera e propria geografia culturale delle aree oggetto di studio. Fin dalla fondazione, le ricerche si concentrano sull’architettura rurale, priva di strumenti legislativi che la proteggano, mentre prosegue il lavoro iniziato dai geografi in seno al Musée des arts et traditions populaires sotto la guida di George Herni Rivière: “L’obiettivo di tali cantieri di ricerca era stato realizzare delle monografie che potessero essere d’aiuto per ricostruire gli habitat rurali, in conformità con i ‘modelli regionali’”2.
Successivamente, con la definizione del concetto di “patrimonio culturale rurale”, l’interesse si sposta sui saperi e sul savoir-faire dell’artigianato e dell’edilizia. Negli anni ’80, quando in antropologia si afferma il dibattito sulla natura sociale e costruita delle identità culturali, si assiste da un lato al rafforzamento degli Stati nazionali in seno alla Comunità Europea, dall’altro al processo di regionalizzazione e di valorizzazione delle aree marginali con il duplice obiettivo di rafforzare il sentimento di appartenenza al luogo e di rilanciare l’economia con gli strumenti offerti dalla PAC3.
Negli anni ’90, la Mission du Patrimoine Ethnologique mostra l’importanza di una connessione interdisciplinare dei saperi scientifici4, mentre il processo di istituzionalizzazione porta a estendere il concetto di patrimonio culturale a elementi come il paesaggio, i prodotti locali, le tecniche di produzione, gli strumenti e il savoir-faire.
In Italia si possono ricostruire le stesse tappe di valorizzazione dei prodotti agroalimentari e del patrimonio culturale locale, ma la formalizzazione degli strumenti legislativi nazionali, e di conseguenza il processo di istituzionalizzazione, avvengono con anni di ritardo; altrettanto recente, dal fronte geografico, è l’attenzione verso il tema dell’identità territoriale, cui ha però fatto seguito il rapido sviluppo di un filone di ricerca inerente il valore culturale delle produzioni locali, trasformate in veri e propri prodotti identitari5.
Date queste premesse, ciò che si vuole trattare in questa sede è la comprensione dei principali meccanismi sociali, politici ed economici che permettono di costruire e valorizzare il legame tra prodotto e territorio. Il tema dell’identità territoriale viene qui considerato in relazione alla produzione vinicola, sulla base di indicatori capaci di far riflettere sul rapporto fra identità territoriale e valorizzazione delle risorse locali. Più specificamente, come si vedrà nel caso qui considerato, l’analisi si sofferma sulla ricostruzione e valorizzazione dell’identità territoriale finalizzate allo sviluppo della vitivinicoltura nel territorio di Montefalco, con particolare riferimento al processo di valorizzazione del vino Sagrantino.
Identità territoriale e valorizzazione delle produzioni agroalimentari
L’analisi del dinamico binomio natura-società è la premessa al dialogo tra geografia e antropologia6. Con la produzione di carte, la descrizione delle tecniche e dei saperi relativi all’uso delle risorse locali e l’analisi diacronica delle trasformazioni del paesaggio la geografia si avvicina all’antropologia che, a sua volta, nello studio dell’organizzazione sociale e delle culture locali non può prescindere da un’analisi preliminare sul milieu locale del territorio oggetto di studio7.
Le due discipline convergono anche nei metodi di indagine: la fonte orale e il diario di campo sono tecniche di raccolta dei dati di cui entrambe si servono. Esse sono poi complementari: laddove la geografia tende ad analizzare il rapporto uomo-ambiente da un punto di vista descrittivo, interpretativo e propositivo, ma con maggiore attenzione ai suoi esiti sul piano territoriale, l’antropologia si contraddistingue per un approccio più attento alle relazioni tra gruppi umani, alle pratiche e ai saperi locali8.
Nell’inchiesta sul campo, le due discipline restituiscono la molteplicità delle tecniche di uso delle risorse e la pluralità delle voci degli attori locali, favorendo un processo di analisi del territorio che può configurarsi quale utile strumento per costruire nuove progettualità di sviluppo economico9.
La valorizzazione delle produzioni agroalimentari, fondata sul processo di certificazione della qualità, è un campo di indagine su cui le due discipline sono necessariamente chiamate a confrontarsi e collaborare. Studiando l’evoluzione giuridica della protezione della denominazione territoriale, ciò che più interessa in questa sede è comprendere i meccanismi di costruzione del legame tra prodotto e territorio all’interno dei processi di valorizzazione e promozione delle produzioni agroalimentari locali.
Per quanto attiene al vino, il processo di costruzione del vincolo territoriale compare per la prima volta in Portogallo nel 1754 per i vini provenienti da un’area nella vallata dell’alto Douro10. In Francia le basi di una legge sul rispetto dell’origine e della qualità risalgono ai primi decenni del secolo XX11.
In Italia, con ritardo rispetto alla Francia, la prima disposizione sulle denominazioni vinicole è notoriamente il DPR 930/1963 (“Norme per la tutela delle denominazioni di origine dei mosti e dei vini”), al quale seguiranno il DPR 162/1965 (“Norme per la repressione delle frodi nella preparazione e nel commercio dei mosti, vini ed aceti”) e la l. 164/1992 (“Nuova disciplina delle denominazioni d’origine dei vini”).
Attualmente per il vino sono in uso tre tipologie di certificazione, identificabili in etichetta: la Denominazione di Origine Controllata (DOC), la Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG) e l’Indicazione Geografica Tipica (IGT). Tutte le classificazioni legano il prodotto al territorio di produzione: le prime due si riferiscono a tutta la filiera, la terza si riferisce al prodotto finale12.
In Italia per valorizzare e proteggere le produzioni locali si costituiscono i consorzi, in Francia si pone l’accento sullo studio della valenza culturale della produzione agricola e sulla documentazione relativa a mestieri e saperi locali. I fattori umani e culturali sono valorizzati all’interno del processo di certificazione dei “produits du terroir” e nelle politiche di patrimonializzazione delle produzioni alimentari. Nel 1991, per esempio, si costituisce il centro di studio e di documentazione Ressources de terroirs – Culture, usage, sociétés con l’obiettivo di valorizzare il polo tecnologico alimentare di Bourge-en-Bresse, una struttura pubblica appoggiata dal CNRS che vede coinvolti professionisti, ricercatori e studenti13.
Le produzioni valorizzate assumono un carattere fortemente identitario e la rilocalizzazione del prodotto induce al riconoscimento patrimoniale delle piccole produzioni che cerca di rinsaldare la coesione sociale attraverso la documentazione della profondità storica della tradizione agricola 14: “Avec l’urgence qui rappelle la frénésie des recensions ethnographiques de culture en voie de disparition des années soixante, les ministères de l’agriculture et de la culture ont lancé, en 1990, un vaste inventaire du patrimoine gastronomique français. […] Face à l’Europe en cours de constitution, le fromage au lait cru émerge comme le symbole d’un enjeu identitaire”15.
Come in Francia, anche in Italia a partire dagli anni ’90 si assiste a un incremento progressivo e rapido della presentazione delle candidature per accedere alla certificazione europea di qualità. La collaborazione tra discipline tuttavia è in fase embrionale; nei fatti, il dibattito accademico ha portato solo raramente alla costruzione di un confronto stabile tra discipline scientifiche e attori locali; tuttavia oggi tale confronto favorisce la costituzione di équipe interdisciplinari16.
La definizione dell’identità territoriale non fa che mobilitare una pluralità di saperi specifici. L’identità territoriale conferisce infatti valore aggiunto non solo al prodotto, ma anche all’azienda17; nel caso di produzioni di nicchia e scarsamente valorizzate essa diventa lo strumento innovativo per lo sviluppo locale e per il rilancio dell’agricoltura nella molteplicità delle sue funzioni. L’identità territoriale può in definitiva costituire una piattaforma di discussione tra attori sociali e per tali ragioni è necessario definirne gli strumenti di rilevazione e negoziazione.
Identità e territorio
Un altro nodo tematico su cui si confronta una pluralità di discipline è quello del territorio. Come affermano Pierre Alphandéry e Martine Bergues18, la nozione di territorio designa una forma particolare di definizione dello spazio più o meno istituzionalizzato ed è altamente polisemica. Il territorio può essere studiato attraverso due prospettive: nella prima lo spazio è analizzato come contesto delle azioni pubbliche e luogo della rappresentanza politica; nella seconda – privilegiata da discipline come geografia, antropologia e sociologia – lo spazio è il substrato materiale su cui individui e gruppi si organizzano e dànno senso alla propria esistenza attraverso pratiche materiali (per es. le produzioni alimentari) e sociali (la mobilitazione del capitale culturale, l’organizzazione di feste ed eventi).
Geografia e Antropologia si incontrano nell’analisi del significato che la collettività attribuisce allo spazio attraverso il suo uso, la denominazione dei luoghi, la creazione di simboli e la ricostruzione della storia locale. In questa prospettiva comune lo spazio, e quindi il territorio, è principio di senso per chi lo abita e principio di intelligibilità per chi lo attraversa, un luogo al tempo stesso identitario, relazionale e storico19.
Le certificazioni di qualità si fondano su una “costruzione sociale” del territorio che coniuga tutti gli aspetti sopra evidenziati. La costituzione di commissioni interdisciplinari contribuisce alla definizione giuridica dei prodotti a denominazione d’origine e la circolazione di prodotti ad alto valore aggiunto rafforza il territorio sia economicamente che in senso identitario attraverso un processo di patrimonializzazione dei beni alimentari che attualmente mostra potenzialità e rischi20.
È interessante notare che le commissioni interdisciplinari hanno come punto di riferimento gli organismi internazionali e che l’accezione di territorio è quindi subordinata alle logiche internazionali che si inseriscono nel contesto delle negoziazioni dell’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio)21.
La definizione del confine di produzione, quindi, non può essere esaminata fuori dal campo di tensioni tra locale e globale. Il prodotto tipico non è che il risultato della negoziazione tra istituzioni nazionali e sovranazionali (nel caso specifico la UE). Le imprese e il processo di valorizzazione dei prodotti tipici non possono dunque essere studiati prescindendo dalle negoziazioni sovranazionali22.
Il dialogo tra discipline costituisce comunque una base imprescindibile nella costruzione dell’identità del territorio, da utilizzare al fine costruire un’immagine turistica efficace e definire campagne di marketing capaci di trasformare le risorse del territorio in un sistema organico di promozione dello sviluppo locale attraverso la costruzione di un sistema integrato di imprese e attività.
A proposito di indicatori di identità territoriale: una proposta
La rilevazione dell’identità territoriale implica l’analisi dello spazio e lo studio dei significati culturali ad esso attribuiti. Si può quindi configurare sia come analisi diacronica dell’utilizzazione dell’ambiente naturale, sia come studio dei processi di costruzione del senso di appartenenza al luogo. Proprio rispetto all’approccio di analisi, il dialogo interdisciplinare produce una fertile riflessione su alcuni “indicatori” (almeno i principali) di identità che possono risultare funzionali alla costruzione di un’immagine del territorio e, di conseguenza, allo sviluppo economico locale.
Gli indicatori che qui si propongono riflettono in parte gli articoli dei disciplinari di produzione e coniugano le rilevazioni sul contesto geografico-paesaggistico con le tappe dell’inchiesta etnografica. Tuttavia essi devono essere considerati non come voci di una scheda da riempire, ma piuttosto come terreno di scambio, di dialogo e di negoziazione, ovvero come stimolo alla discussione collettiva finalizzata alla definizione di strategie partecipative di sviluppo e di intervento.
L’individuazione del confine è il momento fondamentale della definizione dei disciplinari di produzione. La documentazione della storia e della tradizione locale è necessaria per dimostrare la persistenza della relazione tra il prodotto e il territorio. Questi elementi sono messi in valore dai soggetti locali che lavorano alla certificazione, promozione e commercializzazione dei prodotti.
La valorizzazione delle produzioni agroalimentari, con le attuali legislazioni, assume così un carattere prevalentemente culturale e patrimoniale e rende i prodotti stessi testimoni del territorio e della località. Il valore culturale e patrimoniale dei prodotti è l’elemento su cui vengono poi costruiti il valore aggiunto, l’immagine turistica e le campagne di marketing territoriale.
Il valore aggiunto dei prodotti si concretizza attraverso la produzione di documenti storici e scientifici che sono poi utilizzati all’interno delle campagne di promozione, sovraccaricati di significati culturali spesso inediti e in continua rielaborazione. I processi di commercializzazione che ne conseguono, di fatto, trasformano le categorie di spazio e tempo e le manipolano attraverso strategie di produzione della località che permettono di riattualizzare continuamente alcuni elementi di base.
La manipolazione delle nozioni di spazio, tempo e cultura assume un’importanza crescente nella realizzazione di campagne pubblicitarie che sono sempre più proiettate verso la costruzione della visibilità sul web. Nell’arena potenzialmente infinita della rete, l’identità territoriale si offre così come utile strumento di differenziazione delle produzioni locali e dei territori; l’abilità tuttavia consiste nella costruzione di un’immagine accattivante ma aderente alla realtà e peraltro capace di mobilitare gli attori sociali nella costruzione di progetti condivisi e sostenibili da molteplici punti di vista (ambientale, economico, culturale e sociale). Gli indicatori qui di seguito proposti (il confine; la storia e il territorio; il paesaggio; il ruolo degli attori locali) possono diventare lo strumento per avviare processi di negoziazione delle strategie di sviluppo.
Il caso di studio: Montefalco
Il caso di studio in esame concerne Montefalco e il vino Sagrantino23, prodotto d’eccellenza ormai affermato nelle reti del mercato internazionale nonostante l’estensione modesta della zona di produzione. Le vicende evolutive di questo areale sono state già in parte in altra sede ripercorse24; in un’altra occasione si è poi avuto modo di sottolineare il contributo dell’impresa leader nella costruzione del prodotto e della sua immagine25. In questa sede il caso montefalchese viene, oltre che aggiornato, riconsiderato sottolineandone l’emblematicità nel percorso di costruzione dell’identità territoriale.
La zona di produzione è prevalentemente collinare, delimitata a oriente da un significativo lembo di pianura e a ovest, nonché a sud, dalle prime pendici della non elevata catena montuosa dei Martani (l’altitudine massima supera di poco i 1100 m s.l.m.). Il tratto pianeggiante corrisponde al settore meridionale della Valle Umbra, il cui versante occidentale è qui costituito da una larga fascia di colline villafranchiane di modesta altitudine e con morfologia alquanto discontinua. Sull’altura più elevata, racchiuso dalla robusta cinta muraria trecentesca, sorge Montefalco (472 m s.l.m.; comune di 69,34 kmq e 5.715 ab. nel 2013). Le porzioni occidentale e meridionale dell’area in questione, comprese nei comuni di Gualdo Cattaneo e Giano dell’Umbria, coincidono invece in parte con le prime propaggini della suddetta catena calcarea dei Martani: qui le quote sono più elevate (oltrepassano non di rado i 400 m d’altitudine) e la morfologia è meno dolce.
Le condizioni pedoclimatiche favorevoli (suoli siliceo-argillosi e calcareo-argillosi, idonei alla coltivazione della vite) concorrono a spiegare la vocazione vitivinicola della zona (il clima, in effetti, seppure a tendenza continentale è nel complesso non troppo severo: i mesi di settembre e ottobre, non di rado caldi e assolati, sono spesso determinanti per la coltura della vite; in autunno e in primavera si concentrano le piogge, tutto sommato abbondanti).
I vini di Montefalco sono conosciuti all’estero soprattutto grazie al Sagrantino, prodotto valorizzato attraverso il legame con il territorio di produzione fin dagli ultimi anni del secolo XIX, quando proprio nel Montefalchese fecero la loro comparsa i primi moderni vigneti specializzati dell’Umbria26.
La lunga tradizione vitivinicola di Montefalco permette dunque di studiare un fenomeno già ad uno stadio avanzato di sviluppo, che mostra quindi i punti di forza e di debolezza dei processi economici e commerciali fortemente orientati al mercato internazionale e al profitto.
Lo spazio: il confine
La zona di produzione si estende su 19.371 ha e comprende per intero il Comune di Montefalco e parte del territorio di quelli di Bevagna, Giano dell’Umbria, Castel Ritaldi e Gualdo Cattaneo. Siamo di fronte a un confine identitario, ovvero peculiare di un territorio che da oltre un secolo – e in special modo dagli anni ‘80 del secolo XX – fa leva sulla vitivinicoltura come settore d’eccellenza della produzione agricola e fattore trainante del turismo locale. In quanto confine della denominazione, a partire dal 1979, anno di riconoscimento della DOC, si tratta anche di un confine commerciale, che attraverso la legittimazione del legame prodotto-territorio permette di “monetizzare” il valore culturale del territorio stesso27. Infine, occorre tenere presente che in quest’area di produzione le regole sono dettate da norme internazionali che fanno capo all’UE (in particolare a un settore della DG-Agricoltura, nel caso specifico l’OCM Vino). Questa constatazione rende più complessa la riflessione sui confini allorché li piega a logiche internazionali.
L’orizzonte territoriale internazionale è addirittura rafforzato se si pensa al mercato, anch’esso internazionale, al quale si rivolgono i prodotti a denominazione d’origine. La localizzazione dell’identità territoriale perde dunque la sua forza univoca e induce a porre maggiore attenzione alle reti internazionali di valorizzazione dei prodotti.
Il tempo e i simboli: la storia, il territorio
A Montefalco la tradizione vitivinicola non è mai venuta meno, essendo ampiamente documentata sino ai giorni nostri a partire dal secolo XI28, anche se l’avanguardia sul piano agronomico e il successo commerciale extraregionale delle produzioni hanno conosciuto piena rivalutazione soltanto in tempi recenti.
Non mancano elementi simbolici, inscritti nello spazio architettonico o veicolati attraverso la comunicazione pubblicitaria, che richiamano la storia29. Si tratta di un insieme diffuso di segni che da più fronti (i menu degli esercizi di ristorazione, le vetrine delle enoteche, la segnaletica che indirizza verso le cantine, i vitigni plurisecolari di Sagrantino ancora custoditi entro le mura del centro storico30 ecc.) restituiscono l’immagine di un ben definito terroir contribuendo efficacemente alla produzione di quella “atmosfera vinicola” che ormai da tempo rappresenta per il visitatore il tratto noto e distintivo di una comunità e di un ambiente produttivo.
Ci si chiede se la popolazione locale si riconosce in questo insieme simbolico. La risposta può essere affermativa, se la storia e la sua rappresentazione sono, in definitiva, indicatori di identità che si ancorano ad orizzonti locali, regionali e sovranazionali (una identità che è da intendersi anche nel senso di distinzione sociale31).
Se la tradizione vitivinicola rimonta a un lontano passato, l’avanguardia sul piano agronomico e il successo commerciale extraregionale delle produzioni sono attestati da poco più di un secolo: a dimostrazione di ciò sono i trascorsi delle più antiche aziende di produzione e commercio vinicolo, su tutte l’azienda Scacciadiavoli, nella quale alla fine del secolo XIX fu impiantato il primo vigneto specializzato dell’Umbria, vasto un centinaio di ettari32. Si trattò di un evento pressoché storico, del quale riferisce anche il Desplanques: “Lo scasso del terreno raggiunse un metro di profondità, si installarono tubi di drenaggio; i ceppi condotti alla Guyot su paletti di acacia o di corbezzolo furono piantati in modo da formare filari distanti 1,50-2 metri. I vitigni impiegati furono il Sangiovese, la Malvasia nera, il Trebbiano dorato. I lavori furono condotti nel più pieno rispetto delle tecniche colturali. Il primo tentativo di viticoltura industriale si rivelò un successo”33.
Nel 1888 l’azienda Sacciadiavoli produceva già 1.000 ettolitri di vino; un decennio più tardi lo stabilimento enologico, diretto dal modenese Carlo Toni, vantava un milione di viti in cento ettari di vigna ed esportava la propria produzione – tra cui spiccava il “vino rosso da pasto, affinabile” – in America, Africa ed Estremo Oriente34.
Al medesimo periodo risalgono l’ammodernamento e la razionalizzazione, a Montefalco, di un’altra tenuta, quella di San Marco: questa si presume fosse in origine una vasta corte longobarda, passata poi in epoca imprecisata al Vescovo di Spoleto; la famiglia Antonelli, cui tuttora appartiene, ne entrò in possesso in seguito all’incameramento dei beni ecclesiastici35.
Situata circa quattro chilometri a ovest di Montefalco, alla fine del secolo XIX la tenuta si estendeva su una superficie di circa 160 ha, 4 dei quali a “vigna fitta a spalliera”. L’avvocato Francesco Antonelli, originario di Spoleto ma residente a Roma, conferì nel 1893 l’incarico dell’amministrazione a Edoardo Martini, un agronomo che seppe elargire preziosi consigli per lo sviluppo della proprietà e il benessere dei coloni. Egli riformò per intero il regime delle acque e impiantò numerosi vivai di olivi, alberi da frutto e olmi, nonché vigneti – circa 20.000 viti – adottando il sistema delle spalliere con sostegno a filo di ferro. Non abbandonò del tutto il sistema delle viti maritate ad alberi, che però definì “antico”36.
Da quanto sopra detto è lecito dedurre che, nonostante nell’Ottocento e nei primi decenni del secolo successivo le campagne umbre versassero in una situazione di profonda arretratezza – e, come attestò l’Inchiesta Iacini, assai difficili se non pessime risultavano in genere anche le condizioni di vita dei coloni –, in tale contesto la classe dirigente dei territori di Bevagna e Montefalco si rivelò tuttavia capace di apportare elementi di ammodernamento e innovazione del comparto agricolo, poi risultati fattori determinanti per l’avvio e il successivo sviluppo dell’attività di produzione vitivinicola.
Nel medesimo periodo i vini locali cominciarono ad affermarsi anche sotto il profilo commerciale. Al riguardo, va premesso che negli ultimi decenni del secolo XIX la produzione del vino aveva compiuto in Italia notevoli progressi, dovuti da un lato all’iniziativa individuale, alle “fiere” enologiche e alla pubblicità condotta attraverso la stampa, dall’altro all’opera dello Stato che, a partire dal 1877, cominciò a istituire scuole di viticoltura ed enologia: a ciò seguì un costante aumento dell’esportazione vinicola, divenuta considerevole fra il 1879 e il 188737.
Giusto un secolo fa l’azienda Scacciadiavoli suscitava impressioni molto favorevoli per le innovazioni adottate, il conseguente complessivo stato d’avanguardia e una produzione “di vini da pasto semplicemente meravigliosi” destinati a una clientela “di primo ordine e affezionata” costituita da “alberghi di primo rango d’Italia e di Svizzera. Il Montefalco si è fatto un nome”38.
La produzione del vino toccò il suo apice nel corso della grande Mostra Vinicola regionale tenutasi a Montefalco nel settembre 1925, nell’ambito della quale fu per la prima volta presentato da Scacciadiavoli il Sagrantino in versione secca.
Tuttavia, l’affermazione di questi vini sui mercati nazionale ed estero conoscerà in seguito non poche difficoltà. A metà degli anni Cinquanta si rimarcava infatti l’assenza di un’organizzazione industriale e commerciale capace di valorizzare i prodotti e accreditarli nei mercati vinicoli39. Considerazioni del tutto analoghe venivano formulate anche al termine del decennio successivo dal Desplanques: “Il Sagrantino di Montefalco avrebbe potuto essere un prodotto rinomato se fosse stato prodotto in maggiore quantità e se la sua commercializzazione fosse stata meglio organizzata”40.
Occorrerà insomma attendere gli ultimi decenni del secolo XX per la piena affermazione del vino montefalchese sui mercati interno e internazionale, in conseguenza soprattutto del ruolo innovativo e trainante svolto da nuove imprese vinicole e, come meglio si dirà più avanti, da una efficace rete di relazione tra gli attori locali.
Il paesaggio
Una strategia di rilevazione dell’identità di un luogo deve contemplare anche una lettura condivisa del paesaggio. Attraverso un metodo partecipativo che coinvolga le popolazioni locali è possibile infatti dialogare con gli attori locali confrontando progettualità individuali e strategie pubbliche: “Queste attività sono fondamentali per creare spazi condivisi, alimentare elaborazioni collettive, portare alla luce conflitti e differenze da ricomporre in una “domanda sociale” di paesaggio. Questa non procede da facili automatismi identitari […] competenze, prospettive, interessi, conoscenze eterogenee all’interno delle popolazioni interessate possono essere portate a sintesi a formare un senso comune sul paesaggio, produttore di una “domanda sociale” solo con un serio lavoro di confronto, negoziazione, formazione, informazione, in cui i valori paesaggistici vengano considerati valori collettivi”41.
Questo passaggio è importante per comprendere se le decisioni politiche tengano in considerazione quei valori culturali, sociali e immateriali non immediatamente redditizi – per esempio la salvaguardia dell’ambiente, la protezione della biodiversità, la conservazione degli edifici antichi – ma che possono essere invece obiettivi condivisi intorno a un “bene comune” e diventare valore aggiunto del territorio.
Per tornare all’esempio di Montefalco, si è senza dubbio al cospetto di un paesaggio che reca non pochi segni ereditati dal passato (le “Colline di Montefalco” sono non a caso un paesaggio rurale storico individuato nel catalogo nazionale dei paesaggi rurali storici meritevoli di salvaguardia42).
Del colle su cui sorge Montefalco Cipriano Piccolpasso (secolo XVI) affermava che “ha più del selvaggio che del domestico a vedere, se ben poi si rende tutto ameno ne l’avicinarsi al luoco, perché è ornato di belle et buone vigne, coltivati terreni ben acconci e di gran frutto”. Di tale presumibilmente concentrica occupazione del suolo – sempre più estensiva con l’aumentare della distanza dall’abitato – sembrano dare conferma anche documenti visivi del passato come le quattrocentesche rappresentazioni paesaggistiche di Benozzo Gozzoli conservate proprio in Montefalco43.
Tra le colture arbustive, la coltivazione della vite è, come detto, ampiamente documentata dal Mille, anche se si dovranno attendere i primi decenni del secolo XV per trovare menzionate negli Statuti le “pergole” nel chiaro significato di viti maritate ad alberi. Da fonte quattrocentesca (gli Annali di Ser Francesco Mugnoni da Trevi) si evince infatti che proprio verso la metà del secolo XV la coltura promiscua inizia qui rapidamente a diffondersi (fu l’olmo, in particolare, il primo albero tutore della vite)44. Furono questi i primi segni di un mutamento nel paesaggio rurale che, definitosi meglio nel secolo XVI, sarà modellato dal rapido sviluppo della mezzadria e dalla diffusione dell’insediamento sparso e della coltura promiscua per rimanere poi pressoché invariato fino agli anni ‘50-’60 del secolo XX (a tale epoca vanno ascritti infatti fenomeni quali l’esodo rurale, il crollo dell’istituto mezzadrile, l’avanzata della meccanizzazione e di nuovi ordinamenti e tecniche colturali che muteranno radicalmente l’assetto paesaggistico delle campagne umbre producendo la scomparsa di elementi distintivi di persistenza plurisecolare).
Non mancano alcune forme di “resistenza”: la polverizzazione fondiaria è tuttora fenomeno evidente, sebbene circa metà della superficie aziendale totale appartenga a unità produttive di dimensioni medie45. Molte delle piccole proprietà sono nate dallo smembramento dei poderi, spesso ceduti ai coloni a titolo di liquidazione e successivamente sempre più frazionatisi, specie in conseguenza delle spartizioni ereditarie. Al fenomeno della polverizzazione si è pertanto aggiunto quello della frammentazione fondiaria e risulta estremamente difficile per gli agricoltori acquisire o permutare terreni dai proprietari confinanti: l’attaccamento dei proprietari ai fondi, nonostante il lievitare delle rendite conseguente al successo commerciale dei vini, costituisce il principale freno alla ricomposizione dei terreni. La frammentazione si riflette anche nei tipi di conduzione. Le microaziende sono in genere condotte direttamente dal proprietario, anche part time; questi risiede sul fondo e nella maggior parte dei casi si avvale della sola manodopera familiare.
Ciò nonostante, queste campagne offrono allo sguardo molteplici segni di un rinnovamento agricolo che, come in larga parte della regione, trova il tratto più connotante nel vigneto specializzato.
Profonde trasformazioni si leggono anche nella pianura sottostante, dove hanno trovato ampia diffusione soprattutto le colture industriali (barbabietola, tabacco, mais) così che, con l’abbandono della coltura promiscua della vite e il proliferare dei nuovi insediamenti abitativi e produttivi lungo i maggiori assi viari, anche in questa sezione della Valle Umbra sono andati a svanire i connotati tradizionali del paesaggio rurale.
Eppure, nel suo costante divenire è sempre nel paesaggio che vanno a iscriversi gli elementi simbolici tesi ormai non più a definire un’identità territoriale già consolidata, bensì a rendere ancor più evidente – per quanto ciò sia possibile – lo stretto legame che corre fra territorio, prodotto e successo commerciale di quest’ultimo.
Con i suoi piccoli centri, diffusi soprattutto in collina, quasi sempre ben restaurati e depositari di un cospicuo patrimonio storico-artistico-architettonico, l’Umbria ha infatti costituito lo scenario ideale di eventi periodici di grande richiamo fra i quali merita un cenno particolare “Cantine aperte”, organizzato dal “Movimento del Turismo del Vino”. La cantina è dunque ormai non più mero luogo di produzione-conservazione del vino, ma anche elemento di richiamo e di diffusione dell’immagine stessa del prodotto e pertanto le caratteristiche di una moderna struttura di produzione vinicola non potranno che essere differenti rispetto al passato, giacché più complessa ne è divenuta anche la funzione: non più semplice “contenitore”, ma luogo simbolico e di attrazione per visite e degustazioni.
Di recente, alle tradizionali imprese produttrici – Caprai in primo luogo, ma anche Scacciadiavoli, Adanti e Antonelli – se ne sono aggiunte numerose altre fra le quali merita di essere segnalato il gruppo Lunelli (Cantine Ferrari). Ad esso si deve la realizzazione nel 2012 della moderna cantina denominata “Carapace”, progettata dallo scultore Arnaldo Pomodoro per la Tenuta Castelbuono (ampia circa 30 ha, ricadenti nei comuni di Bevagna e Montefalco). I Lunelli acquisirono i terreni nel 2001; i primi sforzi si rivolsero ai vigneti, con la realizzazione di nuovi impianti e la valorizzazione di quelli esistenti, tutti ora in conversione al metodo biologico. Al 2003 risalgono le prime bottiglie di Sagrantino, all’anno successivo quelle di Montefalco Rosso. Come ha rivelato lo stesso Pomodoro, il progetto “ricorda la tartaruga, simbolo di stabilità e longevità, che con il suo carapace rappresenta l’unione tra terra e cielo”46. La cantina si offre infatti allo sguardo come una grande cupola ricoperta di rame, incisa esternamente da crepe che ricordano i solchi della terra e internamente dai segni costituenti l’inconfondibile cifra artistica dello scultore. Un elemento a forma di dardo di colore rosso confitto nel terreno sottolinea poi, nel paesaggio, la presenza di un manufatto da ritenersi, oltre che notevole frutto del connubio fra scultura e architettura, un efficace simbolo del binomio tradizione-novità rappresentato dalla vicenda storica dei vini montefalchesi e del Sagrantino in particolare.
A proposito del paesaggio, un cenno a parte merita la questione relativa alla salvaguardia degli edifici storici e ai cambiamenti nella loro destinazione d’uso: si tratta tuttavia di un tema complesso, la cui trattazione esula dagli scopi di questo contributo ma che potrebbe aiutare istituzioni e popolazione a non trasformare tutto il territorio comunale in un albergo diffuso, sì di lusso, ma scarsamente vissuto. Il delicato equilibrio tra incremento delle strutture turistiche e luogo vissuto andrebbe quindi studiato a fondo e analizzato nel contesto di un progetto di sviluppo, tenendo conto dei rischi e delle distorsioni che le scelte individuali possono produrre, se non coordinate e decise collettivamente.
Il ruolo degli attori locali nella ricostruzione e nello sviluppo dell’identità vinicola
Alla fine degli anni ’70 del secolo XX il territorio montefalchese, nonostante da oltre un secolo rinomato per la produzione di vino, non era ancora un terroir. Anzi, l’attribuzione della DOC giungerà solo nel 197947, cioè molti anni dopo il conseguimento di tale riconoscimento da parte di Torgiano (1968) e del Trasimeno (1972), aree tradizionalmente produttrici – sino a quelle date – di vini in quantità piuttosto che di qualità48.
Nei primi anni ’70, mentre ci si interrogava sul futuro del Sagrantino – vino dalle spiccate qualità organolettiche, ma fondamentalmente da dessert – due operatori economici, il commerciante di mobili Domenico Adanti e l’imprenditore tessile Arnaldo Caprai, facendo tesoro dei tentativi e delle sperimentazioni condotte sin dalla fine del secolo XIX, decisero di ampliare l’ambito della propria attività cimentandosi, con l’acquisizione di aziende vitivinicole, nel rilancio del Sagrantino in versione secca (aiutati in ciò dalle notevoli capacità di abili cantinieri): “facendo un raffronto con l’esperienza di Giorgio Lungarotti a Torgiano, anche nel caso di Montefalco il punto di partenza, la spinta al cambiamento, fu il confronto ravvicinato con i vini francesi. Unanime era il convincimento che i vitigni coltivati in Umbria costituivano un’eccellente materia prima, che andava però gestita bene per adeguarla ai gusti del pubblico. Una volta avviata, l’avventura del Sagrantino fu realizzata in breve tempo, tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta”49.
Nasceva così un terroir: l’applicazione sapiente di adeguate strategie aziendali e di marketing proponeva al mercato un prodotto sino ad allora pressoché sconosciuto – il Sagrantino secco – conferendovi una nuova ancorché già marcata identità, in quanto comunque traente la propria linfa dalla lunga storia vitivinicola dell’area di produzione montefalchese.
Con il trascorrere del tempo il senso di appartenenza al terroir e al territorio sono stati implementati dalla definizione di reti di relazioni e alleanze fra attori istituzionali e privati che trovano naturale sintesi nella “Strada del Sagrantino”, che attraversa e unisce i comuni dell’area di produzione e ne costituisce l’opportunità più importante per uno sviluppo integrato. Strumento di ampia efficacia per la valorizzazione e la commercializzazione delle produzioni vinicole, attraverso l’operato dell’Associazione omonima essa rappresenta altresì un modello organizzativo di successo su cui è basata la governance del territorio. La Strada del Sagrantino infatti, costituendo in rete operatori, attività ricettive, i comuni della zona di produzione, la Provincia di Perugia, la Camera di Commercio e il Consorzio Tutela Vini Montefalco ha contribuito allo sviluppo e alla creazione di un’identità ben definita e riconosciuta dell’area montefalchese50.
Attualmente i percorsi enogastronomici ufficialmente riconosciuti sul territorio nazionale sono circa 150. A fronte di un numero dunque particolarmente elevato, sono però assai meno gli itinerari che corrispondono ad organismi efficienti e realmente funzionanti. Molte Strade esistono di fatto solo sulla carta, affiancando comunque casi di efficienza ed eccellenza (come la stessa Strada del Sagrantino, ormai il più noto itinerario enogastronomico umbro)51.
In questo contesto, le imprese produttrici ricoprono un ruolo essenziale. Tutte le Strade del Vino di maggiore successo in Italia si sono create intorno a un insieme di imprese dinamiche e innovatrici consapevoli delle potenzialità del proprio prodotto quale ricchezza per il territorio d’origine e che hanno tradotto tale consapevolezza in investimenti finanziari e di capitale umano52.
In proposito, un cenno specifico merita il Consorzio di Tutela dei Vini Montefalco, costituitosi nel 1981 con il compito di coordinare le aziende della zona e di condurle nella costante ricerca della qualità e della valorizzazione dei vini del territorio. Il 4 giugno del 2002 lo statuto del Consorzio ha ottenuto il riconoscimento del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, mentre nel dicembre del 2003 la struttura associativa ha ottenuto il prestigioso incarico di svolgere funzioni di controllo secondo quanto previsto dal DM del 21 maggio 2001, che attribuisce ai Consorzi di tutela nuovi compiti assegnando un piano di controlli di tutte le fasi della filiera produttiva e nei confronti di tutti i produttori che operano con la DOC, compresi quindi anche coloro che non sono associati53.
Il Consorzio gode di una rappresentatività superiore all’80% per quanto riguarda la produzione certificata di Sagrantino e di Montefalco Rosso: questo gli conferisce un’autorevolezza che, nell’area di riferimento, nessuna struttura può vantare. Dalla data di costituzione del Consorzio la base sociale si è largamente ampliata godendo della presenza di aziende di grande prestigio (attualmente 223 soci, oltre il 75% dei produttori), sia già della zona e ivi operanti da molti anni, sia costituite da grandi gruppi o da produttori di fama internazionale che hanno deciso di operare ingenti investimenti nella denominazione ormai più promettente dell’Umbria.
Anche le istituzioni pubbliche hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo dell’area del Sagrantino. In particolare, la Regione dell’Umbria tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 ha investito su Montefalco costruendo il primo tassello di quello che oggi è il sistema museale regionale54. Inoltre, essa ha accompagnato lo sviluppo della vitivinicoltura montefalchese cofinanziando i reimpianti e destinando all’area del Sagrantino (che rappresenta il 5% della superficie vitata regionale) il 15% delle risorse disponibili per la viticoltura.
In aggiunta, per sostenere la tutela e la valorizzazione del Sagrantino i rappresentanti del Consorzio hanno sollecitato la Regione a predisporre “una programmazione nella gestione degli impianti”, per evitare un ulteriore eccessivo incremento della produzione considerato il boom di investimenti nei vigneti in questo territorio.
Secondo le più recenti rilevazioni del Consorzio, l’area vinicola copre attualmente una superficie di 1.080 ha (660 a Sagrantino e 420 a Montefalco rosso) per una produzione, nel 2011, di circa 20 mila quintali d’uva; nel 2012 per decisione del Consorzio stesso la resa è stata ridotta dagli 80 q/ha del disciplinare a 70. E ciò perché, salvato dall’estinzione negli anni ’70, il vino montefalchese dagli anni ’90 è cresciuto nella produzione – anche a scapito della qualità – giungendo a produrre fino a oltre 2 milioni e mezzo di bottiglie di Sagrantino (anni 2006 e 2007) ed estendendo la coltivazione fino a 700 ha. Ma il mercato di questo prodotto, ancora giovane, non era consolidato; i viticoltori più capaci, consigliati dal Consorzio, hanno compreso che alla facilità con cui venivano rilasciate le autorizzazioni alla produzione non corrispondeva la risposta dei consumatori e hanno così ridotto la produzione (negli anni 2009-2011 questa è risultata sempre inferiore al milione di bottiglie).
Circa un decennio fa scrivevo che “dal confronto tra le produzioni potenziali – legate alle superfici iscritte all’Albo dei Vigneti – e quelle effettive, appare evidente il cospicuo margine che sussiste per l’incremento della produzione, che è lecito auspicare possa essere colmato nel volgere di pochi anni”55. L’incremento vi è stato, la reazione del mercato è risultata purtroppo negativa.
Per quanto attiene infine agli enti locali, anche il Comune di Montefalco può vantare significativi meriti, fra i quali: l’avere intuito le opportunità di successo delle produzioni sin dal 1979 (anno di ottenimento della DOC); l’aver contribuito a organizzare dal 1980 la “Settimana Enologica”, giunta nel 2013 alla 34a edizione, impegnandosi così sin da subito in un crescente numero di azioni mirate alla promozione sia del vino che del patrimonio culturale locale; infine l’aver svolto un costante ruolo di mediazione mirato a favorire il dialogo tra i vari soggetti istituzionali coinvolti, in particolare produttori vinicoli e imprenditori nel settore pubblico.
Riflessioni conclusive
In sintesi, a Montefalco si è al cospetto di un’area vitivinicola la cui identità è stata nel corso del tempo sapientemente recuperata, rielaborata e messa in valore attraverso l’impegno attivo dell’imprenditoria locale e dell’intera comunità, quindi per effetto della sinergia tra istituzioni pubbliche e iniziativa privata che hanno saputo accortamente intervenire più volte nel corso degli ultimi tre decenni per incoraggiare lo sviluppo, promuovere le produzioni, attenuare gli squilibri inevitabilmente prodottisi. Mettendo in valore un aspetto del milieu territoriale (un vitigno di antica origine, ma impiegato soltanto nella produzione di vino da dessert o da messa) si è giunti alla realizzazione di un prodotto del tutto nuovo, un rosso secco e robusto ormai assurto nell’immaginario enoturistico a iconema della produzione vinicola di qualità dell’intera regione. Anche il paesaggio, profondamente trasformato rispetto al passato, è in continuo rinnovamento e, attraverso la realizzazione di nuove cospicue cantine, reca impressi i segni di un indirizzo strategico-produttivo imperniato pressoché esclusivamente sulla vitivinicoltura.
La valorizzazione del paesaggio e la sua gestione impongono tuttavia un primo spunto di riflessione critica, laddove al riguardo si rileva una forte dipendenza dalle scelte degli attori economici locali più forti.
Sul piano scientifico si è poi consapevoli che nel processo di documentazione e rilevazione dell’identità territoriale è essenziale una profonda conoscenza del territorio, così come una consultazione ampia degli attori locali. Attualmente la rete di relazioni è imperniata, come si è detto, su alcuni attori di particolare forza che contribuiscono a definire le strategie di promozione, di comunicazione e di commercio del prodotto. Siamo tuttavia sicuri che questa rete di relazioni sia riuscita a costruire un’immagine locale che renda conto delle complessive potenzialità del milieu territoriale? Vi è poi la certezza che le strategie sin qui operate non si siano tradotte esclusivamente in una mera operazione di marketing?
Un ruolo particolarmente importante, e forse non del tutto valorizzato, lo ha la Strada del Vino che, nonostante le difficoltà di coordinamento tra soggetti pubblici e privati, riesce a proporre progetti partecipativi e a dare un significativo impulso alle piccole aziende. Se debitamente valorizzata e considerata come luogo progettuale, la Strada del Vino può divenire un ente che coordina strategie di sviluppo di lungo respiro, un luogo dell’incontro sociale tra differenti modi di produzione e ideologie di gestione del territorio, un luogo infine in cui emergono conflitti e si negoziano soluzioni che rispondano alle diverse tipologie di attori sociali.
È dunque necessario impegnarsi affinché le politiche di patrimonializzazione permettano di individuare le potenzialità ancora inespresse del milieu e di avviare quel percorso di valorizzazione degli aspetti culturali del territorio esclusi dalle strategie di promozione attualmente dominanti.
Per restituire un’identità molteplice è dunque importante interrogarsi anche su ciò che viene escluso dalla rete delle decisioni, economiche e politiche, perché non risponde immediatamente alla logica della redditività consolidata, che nel caso specifico è l’identità cristallizzata nel marketing territorial-vitivinicolo56.
Si pone in effetti la questione, insieme culturale ed economica, della costruzione di un’identità semplificata, che non permette di valorizzare altre produzioni e che talvolta impedisce ai produttori stessi di riconoscere e valorizzare ulteriori risorse locali. Con il rischio, peraltro già ampiamente discusso, di far diventare la zona un albergo diffuso, fatto di una ricettività (agriturismo, residenze d’epoca, country house, ma anche SPA, enoteche, osterie...) troppo omologata, assai spesso non difforme da quella di altre aree di produzione e per di più allestita in molti casi come banale “messa in scena” del passato.
Non si può pensare inoltre di affidare completamente lo sviluppo economico locale al turismo enogastronomico.
La riflessione sull’identità, in conclusione, non conduce alla costruzione di immagini univoche e statiche, ma mette in evidenza il carattere frammentario, fragile e in divenire delle identità locali. L’identità è infatti concetto negoziale, che si riferisce a ciò che è percepito, vissuto e riconosciuto come tale da collettività anch’esse in continua ridefinizione. Dunque la ricerca sull’identità territoriale, costruita attorno a obiettivi specifici, permette non solo di riconoscere la molteplicità degli attori locali, ma anche di favorirne il dialogo in un processo finalizzato alla definizione degli interventi.