1. ANXIETY OF INFLUENCE NELLA LETTERA DI FOSCOLO A BARTHOLDY
A prima vista, il nesso Werther-Ortis è un caso tipico di anxiety of influence nel senso che ha dato Harold Bloom a questa espressione. Per il lettore di oggi, e in larga parte già per quello coevo, è evidente il debito delle Ultime lettere di Jacopo Ortis nei confronti del Werther. Quando però andiamo a leggere le due principali dichiarazioni di Foscolo intorno alle fonti del suo romanzo e alle circostanze della sua stesura – la lettera scritta al diplomatico berlinese Jakob Salomon Bartholdy (1779-1826) il 29 settembre 1808 (Foscolo 1952 : 480-493), e la Notizia bibliografica annessa all’Ortis zurighese del 1816 – incappiamo in un sistematico tentativo di minimizzare il più possibile l’influenza di Goethe sulla sua opera. Due sono le strategie complementari a cui Foscolo ricorre a tal fine.
La prima consiste nel suggerire, attraverso una breve narrazione delle circostanze in cui è nato il romanzo, che la lettura del Werther sia intervenuta in uno stadio molto avanzato della sua elaborazione, quando l’essenziale era già stato concepito e scritto. Foscolo racconta, nella lettera a Bartholdy, che nel marzo 1796 « Iacopo Ortis friulano, studente nell’università di Padova, si uccise di due pugnalate1 nel fiore della gioventù […] senza lasciare né una sola parola scritta a’ suoi parenti, nè una congettura ai curiosi ». Ugo, che « sin dalla prima gioventù aveva meditato sempre sul suicidio » (482) fu profondamente colpito dal tragico evento : si mise a leggere « i propugnatori e gl’impugnatori del suicidio » e per « l’amore del proprio parere congiunto all’ignoranza e alla baldanza giovanile », prese in mano la penna, « presumendo che tanta questione non fosse ancora nè ordinatamente nè pienamente trattata ». Presto però si rese conto che « la logica e lo stile non corrispondevano […] all’intento », per cui decise di « riserbare la pubblicazione delle sue meditazioni ad età più matura ». Ma in quei tempi « d’inquisizione », un’apologia del suicidio avrebbe potuto procurargli seri fastidi : « fece [dunque] ricopiare » il suo « scartafaccio in forma di lettere, e le intitolò Ultime lettere di Jacopo Ortis » (Foscolo 1952 : 482-483).
È facile analizzare la strategia autoriale sottesa a queste riflessioni sulla prima genesi dell’Ortis. Foscolo compie apparentemente atto di umiltà riconoscendo la scarsa originalità e il carattere puramente filosofico, oltre che stilisticamente immaturo, del proprio lavoro ; ma in realtà si avvolge nel manto dell’eroe libertario,2 e insinua abilmente che le sue meditazioni sul suicidio lo avrebbero esposto all’inquisizione e al carcere se non le avesse dissimulate facendole apparire come lo scritto testamentario di un giovane suicida. Foscolo nega inoltre qualsiasi legame fra questo suo primo Ortis stoico e repubblicano, e il Werther di Goethe.
Grazie ai contributi di Mario Martelli (1970) e di Maria Antonietta Terzoli (2004),3 che hanno permesso di identificare nella seconda parte dell’Ortis 98 (infra Ortis 98-II),4 la cosiddetta ‘parte del Sassoli’, un frammento di una prima stesura del romanzo, anteriore al ’98, noi siamo oggi in grado di dire con una certa precisione quanto c’è di vero in questa affabulazione autobiografica di Foscolo. Lo scrittore dice la verità quando afferma che Jacopo (in realtà Girolamo) Hortis, studente a Padova, si uccise con due coltellate al cuore a fine marzo del 1796. È vero, inoltre, che quasi certamente, già nei mesi successivi, Foscolo scrisse il primo abbozzo di un romanzo epistolare il cui protagonista, Jacopo Ortis, muore suicida, rimandandone però la pubblicazione a più tardi.5 Falso invece che questa prima stesura dell’Ortis fosse una meditazione filosofica senza filo narrativo e senza somiglianze col Werther : alla luce dell’Ortis 98-II è oggi possibile asserire con certezza che questo primo abbozzo seguiva da vicino, sia nei dettagli di molte pagine, sia nella sua trama più generale, il modello epistolare patetico e introspettivo del Werther, mentre proprio la componente ideologica che acquisterà tanto peso nell’Ortis 18026 non era ancora presente.7
La controprova, se ce ne fosse bisogno, di questa asserzione ci è fornita dal paragrafo successivo della lettera a Bartholdy. Pur senza dare precisazioni riguardo ai luoghi e ai tempi, Foscolo riconosce di aver cominciato a stampare (nel 1798 a Bologna) una nuova stesura delle « lettere di Ortis » (tutta « disquisizioni filosofiche e politiche sul suicidio ») ma fa ricadere interamente sulle spalle del giovane che continuò l’edizione dopo il suo arruolamento nella primavera del ’99 (il Sassoli), la responsabilità di avervi miscelato arbitrariamente il suo scartafaccio filosofico sul suicidio con altre carte da lui lasciate a Bologna, che contenevano fra l’altro le minute di alcune sue lettere d’amore. La trasformazione di una meditazione sul suicidio in un romanzo epistolare quasi-wertheriano sarebbe insomma da ascrivere alle manipolazioni irresponsabili di Angelo Sassoli : per sottrarsi all’influenza di Goethe Foscolo concede all’ignoto Sassoli il ruolo più creativo ! La lettura della prima parte dell’Ortis 98 (infra Ortis 98-I),8 la cui autenticità non è stata mai contestata, dimostra invece che anche le parti del romanzo che certo non furono toccate dal Sassoli sono di ispirazione wertheriana e combinano una storia d’amore di impianto goethiano, meditazioni filosofiche anch’esse in gran parte derivate dal Werther, e considerazioni di carattere storico e politico in cui invece si rispecchia l’esperienza giacobina di Foscolo.
Secondo la lettera al Bartholdy (e su questo punto non c’è motivo di mettere in dubbio la testimonianza di Foscolo), fu solo tornando dalla guerra, cioè non prima del giugno 1800, che egli lesse il volume apocrifo fabbricato dal Sassoli, venendo così a conoscenza dell’uso abusivo che era stato fatto delle sue carte. E in quel momento, in quel momento soltanto, sarebbe nato davvero l’Ortis, non più disquisizione filosofica e politica ma confessione in forma di romanzo dei propri affetti più intimi :
E perchè io pure doveva e voleva scrivere un libro onde smentire la rapsodia che mi avevano apposta, trovai più opportuno il dipingere il suicida che il sillogizzare sul suicidio. E per rappresentare fedelmente e con religiosa sincerità la natura, penetrai nel santuario del mio cuore, interrogai tutte le mie passioni, rilessi tutte le malinconiche pagine che io aveva tentato di scrivere quando nell’esiglio, nelle sciagure domestiche, nelle pubbliche calamità e nella disperazione dell’amor mio vedeva unico rifugio la tomba – piansi, ricordandomi le lagrime che io aveva versate ; cercai di obliare ciò che aveva letto e imparato sui libri onde esprimere più originalmente le verità, le opinioni, e gli errori nati in me spontaneamente dal’indole del mio ingegno e dalle circostanze de’ miei tempi, e scrissi non mostrando l’autore ma l’uomo (Foscolo 1952 : 485).
Foscolo ammette l’errore di aver incluso nel suo romanzo i frammenti della Storia di Lauretta che « sentono l’imitazione della Maria di Lorenzo Sterne », ma conclude :
Così dipingendo la mia vita come io la vedeva, e la mia morte come io la meditava, sotto il nome di Iacopo Ortis illudeva me e gli altri, onde, tranne quei pochi a cui l’Ortis ed io non eravamo persone ignote, tutti si credevano a principio di leggere gli autografi del giovane ammazzatosi in Padova (Foscolo 1952 : 485-486).
Soltanto in questo stadio dell’elaborazione dell’opera, quando ormai dava « l’ultima occhiata al suo manoscritto », il Werther sarebbe capitato per caso fra le sue mani, rivelandogli « il pericolo del confronto e il sospetto di plagio ». Foscolo non ne fu però indotto ad abbandonare il progetto, decise anzi di ispirarsi al modello tedesco per dare più unità e coerenza al suo scritto :
M’accorsi che la magìa del Werther essendo attinta dalla severa unità e dalla intensione de’ lettori sulla sola passione del protagonista, conferiva non poco a questa unità e la perpetua direzione delle lettere ad un amico e quel certo religioso secreto che risultava da quella corrispondenza. L’Ortis invece scriveva ora a sua madre, ora a Teresa, ora al padre di lei, ed esprimeva le sue diverse passioni secondando i caratteri e gli interessi delle persone alle quali parlava. L’Ortis non aveva un amico. Vedendo Guglielmo, inventai Lorenzo, solo carattere immaginario nella mia operetta (Foscolo 1952 : 486).
Per asserire la propria originalità nei confronti di Goethe, Foscolo racconta insomma una versione dei fatti poco attendibile, ma che non poteva essere confutata con sicurezza da chi non lo avesse conosciuto personalmente in quegli anni, o non avesse a propria disposizione i documenti che la contraddicevano. La dimostrazione rimane tuttavia fragile – nonostante il virtuosismo e lo splendore poetico dell’invenzione – dal momento che un confronto anche superficiale fra i due romanzi conferma con mille indizi il legame di parentela che li unisce.
Proprio questa fragilità spiega a mio parere la transizione, nella lettera a Bartholdy, verso una seconda strategia apologetica, che sarà più ampiamente sviluppata nella Notizia bibliografica.
Lanciandosi in un vero e proprio confronto tematico e stilistico fra le due opere, Foscolo tenta di dimostrare, non senza efficacia, che se i due romanzi e i loro personaggi presentano molte somiglianze, in realtà sono « per natura e per circostanze differentissimi » (487). Nel Werther, sostiene Foscolo, « l’ardore verso una maritata arde col fomento d’una gelosia disperata e col rimorso della seduzione » e quindi « rode tutte le potenze vitali » del protagonista. Nell’Ortis invece « l’amore verso una vergine riamante s’insinua con la soavità della speranza e della virtù ». « Werther esce in iscena vagheggiando la felicità che il bel mattino della sua vita gli promettea […] [e] finalmente condotto dal suo desiderio infelice a non sentire la vita se non nel dolore, si precipita negli abissi dell’eternità, e in un’ora in cui tutta la natura gli fremeva intorno terribile e burrascosa ». Jacopo invece,
disperando dell’onore e dell’indipendenza della sua patria, si mostra, sin dalle prime parole com’uomo che si crede d’avere vissuto ormai troppo. […] Quanto più vede l’inutilità delle sue passioni e la vanità delle umane speranze, tanto più si ostina nella sua prima volontà di morire […] considera la sua amante non come stimolo, ma come ostacolo al suo proponimento e quando si vede rapita per sempre l’unica persona che gli rendeva men grave la vita, preordina il tempo, il luogo della sua morte, e mentre la natura, riconducendo la primavera, parea che volesse allettarlo con la sua bellezza alla vita, egli si ferisce e per più ore parla con la morte che va lentamente addensando sovr’esso le sue tenebre eterne (Foscolo 1952 : 488).
In conclusione, osserva Foscolo : « parmi che il Werther riempia più il cuore, e l’Ortis la mente di chi legge » (Foscolo 1952 : 489).
Queste osservazioni valgono soprattutto per l’Ortis 1802. Le due precedenti stesure del romanzo erano molto più vicine al Werther : ce lo indica già il semplice fatto che nell’Ortis 98-I Teresa è madre, vedova e fidanzata a un altro, quando Jacopo la conosce, e a essa quindi difficilmente si applicherebbero le parole appena citate sulla « vergine riamata ». Nella transizione dall’Ortis 98-II (1796?) all’Ortis 1802 (passando attraverso l’Ortis 98-I [1798]) Foscolo si è progressivamente allontanato dal Werther, acquistando in modo sempre più netto la propria autonomia e indipendenza, poi riasserita nelle sue riflessioni critiche sul romanzo. E in questo contesto è allora degno di nota che nell’Ortis 98-II, quando la dipendenza verso il Werther era più grande, Foscolo fosse anche più disposto ad ammettere il proprio debito nei confronti del romanzo tedesco.
Ne abbiamo la prova in una delle primissime pagine dell’Ortis 98-II. Un incontro di Jacopo e Teresa nel giardino della casa di lei sbocca, dopo voluttuose tenerezze e recitazioni commosse, in un « atroce attentato » (chiaramente mutuato dal Werther), in un tentativo di unirsi carnalmente con la giovane donna, già sposata con Odoardo. Respinto, Jacopo « fugge » dai colli Euganei (si suiciderà un mese dopo), ma prima di partire fa consegnare a Teresa dall’ortolano « un’elegante edizione del Werther segnata da lui stesso di molte note su i margini » e le scrive una lettera d’addio in cui leggiamo fra l’altro le seguenti parole :
Ricevi tu pure ed accogli questo caro compagno delle nostre ore più dolci. Povero Werther ! quanto sono mai simili i nostri affanni ! – Le carte sono macchiate ancora delle mie lagrime, e… delle tue, Teresa ! quando talvolta vi leggerai le note da me scritte su quei margini, dirai teco stessa, ed in braccio alla tua soave malinconia : « l’amico del mio cuore le scrisse ». Ma io forse… non saro’ più ! e tu mesta sospirerai (Foscolo 195 : 87).
Questo primissimo Jacopo non esita dunque a dichiararsi lettore accanito del Werther, e amico affezionato del suo protagonista, a cui si rivolge come se entrambi fossero realmente esistiti. La strategia autoriale che così si delinea è molto diversa da quella che prevarrà nel 1802, nel 1808 e nel 1816, ma non può veramente sorprenderci. In primo luogo, Foscolo non ha ancora pubblicato il suo romanzo, nessun lettore o critico lo ha ancora accusato di plagio, e a 18 anni egli non è ancora pienamente consapevole delle critiche a cui rischia di esporsi imitando in modo troppo scoperto il romanzo tedesco : non prende quindi le precauzioni che gli sembreranno necessarie fra poco. Notiamo inoltre che l’empatia, la compassione, la solidarietà fra gli sventurati, la comunione nel lutto, quella che diventerà più tardi la « corrispondenza d’amorosi sensi » è motivo molto forte in tutta la cultura del Settecento, e nel giovane Foscolo in modo particolare.9 Forti legami affettivi di solidarietà e compassione legano Jacopo a Teresa, all’amico Lorenzo, ai pastori che vivono nelle montagne di Bertinoro, dove trascorre gli ultimi giorni della sua vita, allo stesso Odoardo, il rivale in amore, e proprio la forza di questi legami costituisce una delle differenze fondamentali fra il romanzo di Foscolo e quello di Goethe, come presto vedremo. Non può dunque meravigliarci che anche Werther sia percepito da Jacopo come un’anima fraterna, non come un rivale o un nemico dalla cui influenza ci si deve difendere.
È proprio su questo aspetto del rapporto Werther-Jacopo nella prima stesura delle Ultime lettere che vorrei ora concentrarmi. La mia ipotesi è che l’Ortis 98-II sia nato da un vero e proprio rapporto simbiotico con la sua principale fonte, rapporto simbiotico che tuttavia non impedisce all’imitatore di dissociarsi sottilmente dal suo modello e svincolarsene poco a poco, a volte anche solo attraverso piccole omissioni o variazioni di tono, ma arrivando alla fine a produrre un testo che pur non potendo vantare un’assoluta autonomia di concezione e di risultati, presenta tuttavia un’indiscussa differenza specifica.
2. SCENE CIMITERIALI E ENIGMA DELL’ESSERE
Prendiamo come punto di partenza un passo dell’ultima lettera di Werther a Lotte prima del suicidio, e in cui Werther ricorda il funerale di un’amica della sua giovinezza. Da questa scena chiaramente derivano due passi dell’Ortis : il primo figura nella lettera da Bologna del 12 giugno, in cui Jacopo descrive la collina della Montagnola, e inscena un contrasto fra locus amoenus e locus horribilis, fra le coppie a braccetto che amoreggiano in mezzo agli alberi in una deliziosa serata d’estate, e l’intirizzito cadavere che precipita in una fossa nel camposanto poco distante.10 Il secondo è invece un appunto che Jacopo stende prima di coricarsi la sera del 29 giugno, circa 24 ore prima del suo suicidio. Ecco i tre brani, che leggeremo cominciando da quello del Werther nella traduzione già ricordata di Michiel Salom :
Morire ; che cosa significa? noi sognamo parlando della morte. Ho veduto morir molta gente, ma l’umanità è così limitata, ch’essa non ha veruna idea dell’incominciamento e della fine della propria esistenza. […] annientare ! che mai vuol dire ? ecco un’altra parola, un vuoto suono, che non ha pel mio core verun senso. Morto, Carolina, coperto dalla fredda terra, sì ristretto, sì al bujo…. ebbi un’amica, ch’era il tutto per me nell’abbandonata mia giovinezza; morì, ed io andai dietro al suo cadavere, e stetti sulla di lei fossa. Nel calar giù la bara, allo stridir delle corde che andando e tornando radevano la terra, quando si gettò la prima zolla di terra che trasse dall’angusta cassa un sordo rìmbombo, che divenne a poco a poco più muto fino a tanto che restò affatto coperta, men caddi al suolo vicino al sepolcro, sorpreso, tremante, ansante, lacerato nel più interno dell’anima, senza però ch’io avessi conoscenza di ciò che allor m’accadeva, nè di ciò che doveva un giorno accadermi. Morire…. sepolcro…. queste sono parole ch’io non comprendo (Goethe 1788b : 115-116)
In mezzo a gran mucchi di rosi teschi, e di sparso ossame s’apriva una stretta fossa ; io stesso vidi al breve canto funebre di pochi Sacerdoti giù calarsi un lurido Cadavere, e poi coprirlo d’alcune zolle di terra – O tu, meco stesso dicea, che vicino a questo Campo di morte mollemente sorridi colle grazie e t’inebrii nel seno della tua Venere, non odi il flebil suono di quelle sacre querele, non senti il sordo rimbombo del intirizzito Cadavere, che giù piomba nella fossa? (Foscolo 1798 : 197-198)
Morire !.. quale idea spaventosa ! non esser più, che lurido scheletro, che ossa spolpate, che verminoso marciume ! […] Dio.. che miserabile e vile cosa è l’uomo !.. Ma sentirò io, colà rinchiuso nella cassa sepolcrale ? vedrò cascarmi a pezzi le carni, rodermi le membra putrefatte? […] Amerò forse? – Insensato.. tu giacerai freddo, immobile e senza senso ; e più non rimarrai che poca cenere, e polve.
E dove, gran Dio, andrà cotesta forza motrice del mio Corpo, de’ miei pensieri, del mio cuore ? Svanirà ella forse negli abissi del nulla ? tornerà nella infinita massa degli esseri ad animar la Natura sotto forme novelle ? Oppure… altra vita… un tremendo destino… l’Eternità. – Io gelo… (Foscolo 1798 : 219-220)
Anche a prescindere dai numerosi calchi lessicali, indicati in corsivo nel testo, i parallelismi fra Werther e Ortis sono evidenti : in entrambi lo sguardo del protagonista segue con angoscia il cadavere che prima è calato nella fossa, poi ricoperto di terra con sordo rimbombo. In entrambi l’attenzione si sposta dalla rappresentazione della morte altrui alla propria, e culmina nella visione raccapricciante del proprio corpo rinchiuso in una stretta fossa. Entrambi, infine, si chiedono con orrore e meraviglia che cosa sia la morte, se sia dato all’uomo pensarla e capirla. Non meno evidenti sono però anche le differenze che sussistono fra i due brani.
Nel romanzo di Goethe, come già indicano le prime parole sopra citate, gli interrogativi intorno alla morte si inscrivono in una più vasta riflessione sui limiti della conoscenza. Per Goethe, le facoltà umane sono inadeguate all’immensità dell’essere e al desiderio di trascendenza che pungola l’uomo. La morte, nella sua incomprensibilità, ravviva quindi la coscienza dei limiti invalicabili contro cui si urta in continuazione il nostro intelletto, ma si presenta anche come la possibilità di uno sfondamento, come una breccia aperta nel muro dell’essere, che forse permetterà a Werther di scandagliare l’eternità. L’idea affiora sin dalle prime lettere,11 ma si intensifica nelle ultime pagine del romanzo. Nella lettera dell’8 dicembre Werther contempla dalla sommità di una rupe la valle inondata dalle acque del fiume che ha straripato, sommergendo fra l’altro i luoghi a cui sono legati i più dolci ricordi del suo amore per Lotte, e medita di gettarsi nel baratro : « Io mi stava a braccia aperte davanti l’abisso, anelante di gettarmivi, di perdermi in quell’orrenda delizia, e di conficcare a forza colà tutte le mie pene, tutt’i tormenti, là, sì, là, in quelle onde mugghianti ». Fantasmi di onnipotenza accompagnano questa idea nella mente di Werther : « Amico, quanto volentieri avrei deposta l’umanità per girmene su qualche nembo a fare strazio delle nubi, o a dar noja e tormento ai flutti ! ahimè, nè mai potrò scappare da quest’infame carcere, per gustare una tal gioia ? » (Goethe 1788b : 75). Werther sente però che la sua ora non è ancora venuta, e si paragona alla vecchia che « mendica un tozzo di pane di porta in porta, per prolungare la spiacevole sua decrepitezza » (Goethe 1788b : 76).12
L’incontro con l’eternità è però rimandato soltanto di alcuni giorni, e proprio leggendo nella sua interezza la lettera sopra citata del 22 dicembre, capiamo perché al momento dell’inondazione egli non potesse ancora darsi la morte. Fra l’8 dicembre e il 22 ci sono « l’attentato orribile » e i baci a Lotte. E così scrive allora Werther nella sua ultima lettera, poche righe dopo aver ricordato il funerale della sua amica :
[…] tutta l’eternità non saprebbe estinguere la viva fiamma ch’io colsi jeri sulle tue labbra, e che quì dentro io mi sento. Ella mi ama, queste mie braccia la strinsero, queste labbra sulle sue tremarono, questa mia bocca balbettò sulla sua ; ell’è mia ; sì, Carolina, sei mia, e lo sei per sempre.
Che val che Alberto sia tuo marito ? marito ! in questo mondo cioè…. e in questo mondo solamente è peccato l’amarti, e il desiderar di strapparti dalle sue braccia per stringerti fra le mie…. peccato…. ebben, mi punisco. L’ho gustato, sì, questo peccato, e l’ho gustato colla maggior gioja del core ; ho assorbito nel mio petto questo vital balsamo, e fin d’allora, mia divenisti, Carolina, sì, mia.
Io ti precorro ; vado dal mio, e dal tuo padre [Ich gehe voran! Gehe zu meinem Vater, zu deinem Vater] ;13 a lui ricorrerò, ed egli mi conforterà fino a che tu giunga. Ti volerò incontro, m’impossesserò di te, e teco mi resterò al cospetto dell’Ente supremo abbracciato eternamente.
Non sogno no, e non deliro : vicino alla tomba, veggo anzi le cose con più chiarezza. Sì, che saremo, e ci vedremo (Goethe 1788b : 117-118).
La lettera che cominciava con la desolata constatazione che gli uomini sognano quando parlano della morte, si chiude dunque nell’esaltata certezza di essere ormai uscito una volta per tutte dal delirio e dal sogno, di avere infine sciolto l’enigma dell’essere, attraverso il possesso di Lotte. Lotte sulla terra è di Albert ma nell’eternità (dove deve affrettarsi a raggiungerlo) è e sarà per sempre di Werther.
Molto diversa la situazione che ci è invece descritta nell’Ortis. Prima di tutto, la morte per Jacopo non è un enigma metafisico che a un certo punto rivela il suo segreto. Essa è piuttosto l’abisso del nulla (secondo una delle ipotesi prospettate anche da Werther), oppure una vicenda eterna della materia, secondo la concezione materialista che, come noto, si riaffaccerà nei Sepolcri.14 Anche Jacopo, è vero, è sfiorato dal pensiero dell’aldilà, che non gli si presenta però come trasgressivo fantasma di onnipotenza, ma come superstite paura cristiana del castigo divino. Infine, anche il momento più propriamente vitalistico è presente nell’Ortis, ma invece di essere proiettato, come nel Werther, in un’aldilà concepito come potenziamento infinito della propria esistenza fisica e psichica, si contrappone alla morte come vita sensibile su questa terra – come voluttà di passeggiare fra gli alberi allacciato alla donna amata – secondo il paradigma del locus amoenus che nella scena della Montagnola contrasta con l’orrore del cimitero. Alla costante insoddisfazione di Werther, che brama spazi infiniti, Jacopo contrappone il piacere dei sensi e la voluttà degli amplessi. E quindi, mentre Werther esulta di avere stretto fra le sue braccia una volta per tutte, e eternamente, la donna che ama, Jacopo piange perché non potrà più baciarla. Quel piacere che in Goethe diventa eterno, in Foscolo è effimero, transeunte, pianto dolorosamente perché si dilegua e non tornerà mai più.
3. ANELITI METAFISICI E AFFETTI TERRENI
A questa prima differenza fra i due romanzi, se ne aggiunge una seconda, non meno importante, e che emerge con evidenza dal confronto fra la seconda parte del Werther e le ultime pagine dell’Ortis 98-II. Si è appena visto che l’abbraccio amoroso con Lotte e il suicidio sono vissuti da Werther come una specie di estasi religiosa. Non può però sfuggire il carattere violento e dissacratore, già rilevato da Herbert Schöffler nel 1938,15 di un’unione con la divinità che si realizza proprio attraverso la doppia scorciatoia del tentato adulterio e del suicidio. Tale violenza diventa più comprensibile se ci si rende conto che essa costituisce l’epilogo di un lungo processo di estraniamento dalla natura e dagli uomini a cui assistiamo con consapevolezza crescente nella seconda parte del romanzo goethiano.
A illustrazione di tale processo, basterà qui qualche rapida annotazione. Di ritorno a Wahlheim dopo la sua frustrante esperienza professionale, Werther si chiede che cosa avverrebbe di lui se Albert morisse, ma subito arretra raccapricciato di fronte al baratro a cui lo conduce questo pensiero (lettera del 21 agosto). Pochi mesi dopo, nel breve biglietto dell’8 novembre egli annota la sensazione sgradevole di essere succube di Lotte, che lo domina e gli fa fare tutto quello che vuole. Il 21 lo irrita e angoscia il comportamento di Lotte, che gettandogli sguardi pieni di compassione gli offre un « veleno » che finirà, secondo lui, per perderli entrambi (Goethe 1788b : 62). Come risposta ai conturbanti vezzi di lei, spunta allora per la prima volta l’idea di profanare quelle labbra così « seducenti » [reizend] e poi inabissarsi [untergehen], espiando così il proprio peccato.16
La tensione fra Werther e Lotte aumenta nella lettera del 4 dicembre, quando la giovane si mette a cantare per confortarlo, ma poi, vedendolo ancor più dolente, commenta con un sorriso impietoso : « Verter ! voi state molto male se la vostra favorita vivanda or vi ributta » (Goethe 1788b : 72).
Nel successivo resoconto degli ultimi giorni della vita di Werther, l’Editore sottolinea come il comportamento del giovane abbia ormai alterato anche le relazioni fra Lotte e Albert, e distrutto definitivamente la pace domestica (79). La crescente tristezza del giovane ha finito per rendere malinconica Lotte, e Albert vede in questo abbattimento della moglie un segno della sua passione per Werther. Fra i due vecchi amici aumenta la diffidenza e, su richiesta esplicita del marito, Lotte cerca di tenere a distanza il giovane innamorato, ma invano. La violenza della loro attrazione reciproca vince, come si è visto, tutti gli ostacoli, ma su un altro piano l’incomprensione e la diffidenza permangono fino all’ultimo, come ammette anche Werther, nel suo ultimo messaggio per Lotte : « Ho interrogato il mio ragazzo, oh Dio ! tu tremavi nel dargliele [le pistole], ma non l’incaricasti d’un solo addio : oh me dolente : neppur un addio ? m’avresti chiuso il core in quel fortunato istante che m’unì teco per tutta l’eternità ? » (Goethe 1788b : 122-123). Goethe suggerisce così che il consentimento di Lotte a Werther è di natura coatta, e che pur avendo ceduto alla forza della passione, essa continua a resisterle con tutte le energie di cui dispone.
Anche da questo punto di vista la trama degli affetti e delle relazioni è invece molto diversa nell’Ortis. Da un lato, niente vi corrisponde alla speranza che ha Werther di sondare, attraverso l’amore e la morte, i misteri dell’essere. Ma d’altro lato, i rapporti affettivi fra i personaggi, lungi dal degradarsi, diventano più cordiali e commossi negli ultimi giorni della vita di Jacopo, svolgendo una funzione consolatoria e compensatrice che manca invece nel Werther. A questo riguardo, osserviamo prima di tutto che nel romanzo di Foscolo l’Editore non è, come in Goethe, un investigatore imparziale, che raccoglie minuziosamente le più svariate testimonianze, ma l’amico fedele a cui Jacopo confessa le sue pene per via epistolare e che lo raggiunge in cima al monte di Bertinoro per portargli qualche conforto. Oppresso da cupa malinconia, Jacopo trascorre gli ultimi suoi giorni appartato, e spesso si aggira per i monti solitario e pensoso. Gli abitanti del villaggio non sono però indifferenti o ostili nei suoi confronti. Un vecchio pastore indica all’amico appena arrivato dove potrà trovarlo, e Jacopo, vedendolo, non gli cela il proprio stato infelice ; gli fa anzi leggere l’ultima lettera di Teresa. La notte successiva (fra il 29 e il 30 giugno) Jacopo, svegliato da un incubo, corre dall’amico a raccontaglierlo e trova un po’ di conforto nelle sue parole pietose (Foscolo 1798 : 222-223). E quando, la sera dopo, si toglie la vita, l’amico si accosta al suo uscio sentendo dei gemiti, grida e poi abbatte la porta nella speranza di poterlo ancora salvare. Morente, Jacopo trova ancora la forza di allungare una mano, di sollevare lo sguardo e di contemplare la faccia della Natura, dando un’ultima prova della sua intatta passione per l’Essere (238). Nel Werther invece un vicino vede il baleno della polvere e ode lo scoppio, ma non fa attenzione alla cosa. Quando il mattino dopo il servo entra nella sua camera, il padrone è ancora vivo, ma è paralizzato, le cervella gli sono balzate fuori e non dà più alcun segno d’intelligenza. La morte di Jacopo – pur nella sua suprema passione ‘greca’ per la luce del sole – resta per molti versi conforme al modello seicentesco, cristiano, della morte come spettacolo pubblico e edificante, quella di Werther è invece un’agonia tipicamente moderna, scrutata da un impietoso occhio clinico, senza autocoscienza e intima accettazione.
La stessa atmosfera di calda solidarietà umana pervade poco dopo la scena del funerale nell’Ortis. I pastori accompagnano piangendo la bara con le fiaccole accese, il vecchio parroco sensibile alle pene degli uomini acconsente a benedire la salma di Jacopo, nonostante si sia suicidato, e gli ultimi risparmi del giovane sventurato sono distribuiti fra i più indigenti, dopo che è stata fatta lettura del suo testamento. Come noto, nessun sacerdote assiste invece al funerale di Werther (Goethe 1788b : 130).
Lo scarto fra i due romanzi diventa ancora più evidente se paragoniamo i messaggi d’addio di Werther e Jacopo prima del suicidio. Le brevi lettere che Jacopo scrive il 30 giugno a Lorenzo, alla madre e a Odoardo sono mutuate dalle parole di congedo di Werther a Wilhelm, la madre e Albert.17 Ma il periodare di Werther è esatto e conciso, come quello di un mercante che dia le ultime disposizioni prima di un viaggio : « Tu madre adorata perdonami ; e tu Guglielmo la consola. Iddio Signore vi benedica. Tutte le cose mie sono in ordine. Addio : ci rivedremo più contenti ; addio ». A fronte, troviamo invece le espressioni patetiche di Jacopo :
Che fa la povera mia Madre ! Amala in mia vece, e le rasciuga le lagrime. Il Signore la consoli, e benedica. Ci vedremo Lorenzo, sì, ci vedremo… forse… più contenti. Addio. […] Madre adorata ! non piangere : il tuo figlio era tanto infelice ! or ei parte lieto e fortunato. Spargi sovra di me la tua benedizione ; mi perdona, e prega Iddio pietoso per l’amato tuo figlio (Foscolo 1798 : 224-225).
Anche la lettera di Werther a Albert e quella di Jacopo a Odoardo si assomigliano : in entrambi i casi il suicida chiede perdono, e esorta il rivale a rendere felice « quell’angelo ».18 Ma se Werther chiede perdono a Albert per avere sconvolto la pace della sua casa, non fa nulla per placare i suoi timori e tranquillizzarlo sulla natura della sua relazione con Lotte. Jacopo invece lo esorta a abbandonare ogni sospetto e gli ripropone la propria amicizia : « Ah permetti, che sull’orlo della tomba io ti chiami con sì dolce nome » (Foscolo 1798 : 226). A questo si aggiunga che l’Odoardo dell’Ortis 98-II è figura più generosa e affettuosa di Albert. Nel suo ultimo messaggio a Jacopo, Teresa racconta che egli si è messo in collera trovando una delle sue lettere ; il giorno dopo, però, pentito « de’ suoi fieri trasporti », le ha rivolto toccanti parole (215-216). Il Foscolo di queste pagine giovanili sembra credere ancora, come Rousseau, nella bontà della natura umana e nella comunione spontanea dei cuori sensibili.
Infine, anche l’addio di Jacopo alla natura è mutuato dal romanzo tedesco. Scrive Werther: « Gemi, gemi Natura : il figlio tuo, il tuo amico, il tuo amante tocca al suo fine » (Goethe 1788b : 114). Questo patetico ma secco saluto diventa nell’Ortis una paginetta in cui Jacopo si rivolge di volta in volta ai cipressi, all’astro di Venere, alle rupi selvagge, ai monti orrendi, al benefico sole, alla pietosa natura, e esprime così nuovamente la sua commozione di fronte all’Essere (Foscolo 1798 : 229). Poco dopo, egli dialoga ancora con la natura, trasfigurata in una madre dolente per la morte del figlio, e si sforza di consolarla : « Ti guardo per l’estrema fiata, o Natura ; e ti trovo agitata… dolente. […] Io ti lascio o Natura : tu gemi !... calmati madre pietosa e dolente : ricevi nel tuo seno la frale spoglia d’un infelice » (Foscolo 1798 : 232). Werther, avvicinandosi alla finestra, dice addio ai corpi celesti : « No, non cadrete astri lucenti ; il Padre degli esseri vi riconduce in seno a sè, ed io con voi » (Goethe 1788b : 125). Jacopo ritrova invece gli accenti rovinisti dei suoi versi giovanili Al sole, che già in parte anticipano le visioni apocalittiche e nichiliste delle Operette morali di Leopardi « Verrà giorno che tu, bell’Alba, cadrai per sempre, e non avrai nella notte funerea dell’universo, chi pianga, o canti la tua morte ! ».19
In conclusione, possiamo affermare che in Goethe l’amore iniziale di Werther per la natura sfocia in un anelito metafisico a trascendere i limiti della vita terrena. Certe fantasie ricorrenti nell’opera del poeta tedesco – arrampicarsi sulle cime più alte, volare come una gru verso i mari lontani, cavalcare le nuvole – illustrano la potenza di questa brama. Ma il giovane Goethe sembra anche già avere un senso fortissimo delle barriere naturali e sociali che coartano e paralizzano l’individuo, frenandone tutti gli slanci. Per Foscolo, invece, almeno nella prima stesura dell’Ortis, la vita dello spirito si presenta come una miscela o uno scambio continuo fra realtà psichica e fisica. Certi passi dell’Ortis 98-II che paragonano gli elementi a una madre crucciata o dolente, o che instaurano un dialogo fra le ceneri dell’amante e i gesti pietosi della sua amata, in seno a una natura continuamente agitata da opposte pulsioni, illustrano perfettamente questa concezione foscoliana dell’essere. Il cosiddetto ‘proto-Ortis’ è un esempio particolarmente eloquente di ciò che il filosofo Charles Taylor ha chiamato, in Sources of the Self, una concezione espressivista della natura, l’idea che le stesse energie – a un tempo materiali, vitali e mentali – circolano nei corpi, nelle piante, nel regno animale e negli uomini.20 Nella ‘parte del Sassoli’, in altre parole, la vita affettiva si manifesta come una soggettivazione, un’intensificazione della materia, intensificazione a cui non mette fine neppure la morte, concepita come un sonno nel grembo della terra materna, o come il grido che la natura manda grayanamente dal tumulo. In Goethe, invece, lo spirito è anelito verso l’infinito, la natura è inesauribile energia spirituale, che perpetuamente si agita, si rinnova e si eleva verso forme di esistenza più alte. Le analogie fra queste due interpretazioni della natura sono evidenti, il debito di Foscolo nei confronti di Goethe è ovvio, ma è anche chiaro che altre influenze e una diversa sensibilità piegano il discorso di Foscolo in direzioni diverse da quella di Goethe-Werther.
Foscolo non ha quindi del tutto torto quando, nella lettera a Bartholdy e nella Notizia bibliografia del 1816, sostiene che il Werther e l’Ortis, nonostante numerosissime somiglianze, sono in fin dei conti molto diversi. Certo, lo scarto fra le due opere si è progressivamente accresciuto, a partire dal 1798, e raggiunge la sua massima estensione nel 1816. Ma i germi di questa divaricazione sono già presenti nell’Ortis elegiaco del 1796, benché i temi politici di più scottante attualità non vi siano ancora neppure sfiorati. L’ontologia di Foscolo è sin dall’inizio più materialista e tragica, più disperata di quella di Goethe. In compenso, la sua concezione dei rapporti umani, fortemente influenzata da Rousseau e dalla sensibilità settecentesca, è più mite e commossa di quella di Goethe. L’Ortis è un remake del Werther, ma un remake che ripensa, trasforma e rinnova, in modo appassionato e meditabondo, le complesse articolazioni della sua fonte.
Riferimenti bibliografici
Foscolo, Ugo (1952). Epistolario. Vol. II. Ed. Plinio Carli, Firenze : Felice Le Monnier.
Foscolo, Ugo (1955). Ultime lettere di Jacopo Ortis. Ed. Giovanni Gambarin, Firenze : Felice Le Monnier.
Foscolo, Ugo (1961). Tragedie e poesie minori. Ed. Guido Bezzola, Firenze : Felice Le Monnier.
Goethe, Johann Wolfgang (1788a). Verter opera originale tedesca del celebre signor Goethe trasportata in italiano dal D. M. S. Vol. I. Venezia : Giuseppe Rosa.
Goethe, Johann Wolfgang (1788b). Verter opera originale tedesca del celebre signor Goethe trasportata in italiano dal D. M. S. Vol. II. Venezia: Giuseppe Rosa.
Martelli, Mario (1970). « La parte del Sassoli », in : Studi di Filologia Italiana, XXVII, 177-251.
Medin, Antonio (1895). « La vera storia di Jacopo Ortis », in: Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti; terza serie, LVI, 26-39.
Neppi, Enzo (2006). « La ‘Parte del Sassoli’ fra giallo editoriale e iperboli foscoliane di vita e e di morte », in: Giornale Storico della Letteratura Italiana, CLXXXIII/603, 418-434.
Schöffler, Herbert (1938). « Die Leiden des jungen Werther. Ihr geistesgeschichtlicher Hintergrund » in: Herrmann, Hans Peter, Ed. Goethes Werther. Kritik und Forschung, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1994 : 58-87.
Taylor, Charles (1989). Sources of the Self. The Making of the Modern Identity, Cambridge (MA) : Harvard University Press.
Terzoli, Maria Antonietta (2004). Le prime lettere di Jacopo Ortis. Un giallo editoriale fra politica e censura, Roma : Salerno.