Genere e fuori genere: il discorso e il femminile in Pier Paolo Pasolini

  • Gender and Outside-Gender: Discourse and The feminine in Pier Paolo Pasolini

Résumés

La singolarità femminile nella trappola dell’identità di genere e nella sua (spesso illusoria) possibilità di portarsi fuori dai lughi del Discorso dominante trova la sua raffigurazione, fuori dalla rappresentazione dominante e dai suoi stereotipi, nel cinema di Pasolini, particolarmente in Medea e Mamma Roma.

La singularité feminine, piégée par l'identité générique et par sa (souvent déceptive) promesse d'échapper aux lieux communs du Discours masculin trouve, hors du cadre de la représentation dominante et de ses stéréotypes, sa figuration adéquate dans le cinéma de Pasolini, en particulier dans les films Medea et Mamma Roma.

Plan

Texte

1. Genere e fuori genere

Come annuncio nel titolo, prenderò in considerazione alcune figure femminili del teatro e del cinema di Pier Paolo Pasolini (1922-1975), considerandone il loro rapporto con il genere, sia nel senso di gender, sia, in generale, nel senso di astrazione determinata che attribuisce un’identità a ciascuno caratterizzandolo nella sua individualità. In particolare mi interessano Medea e Mamma Roma.

Il genere è un’astrazione, anche il genere sessuale, ma, come tutte le astrazioni di cui è fatta la ‘realtà’ – gli universali, le classi, gli insiemi, i gruppi, le associazioni, le differenze, le identità, l’essere (il termine ‘genere’ indica tutto questo) –, il genere è una astrazione concreta in quanto della ‘realtà’ è elemento costitutivo, strutturale. Esso finisce con l’essere una trappola, sia quando non si riesce a venirne fuori sia quando diventa l’esca di un miraggio per chi vi ambisce, come nel caso di Mamma Roma. La realtà, all’interno di un determinato mondo culturale, è la visione che se ne ha, l’insieme dei comportamenti, dei sistemi di valori che vi si riferiscono, i discorsi che se ne fanno. Il genere, di sesso, di razza, di etnia, di nazione, di classe, di ruolo, di confessione religiosa, di adesione ideologica, ecc., risponde al mondo così com’è costruito sulla logica dell’identità, sull’essere; e il suo protagonista è il l’elemento fondamentale del giudizio predicativo, il soggetto. In quanto tale, il genere, conformemente alla logica secondo cui si costituisce un qualsiasi insieme, si realizza sulla base dell’indifferenza per l’alterità, tranne per quanto concerne l’opposizione che serve per caratterizzarlo, per individuarlo, dunque per quanto riguarda l’alterità relativa, funzionale alle opposizioni binarie a cui l’identità riduce la differenza. Ma la differenza, come singolarità, come unicità, come alterità non relativa e non situata in paradigmi di concetti opposti, è espunta all’interno dello stesso genere, dello stesso insieme, che non riconosce altra differenza che quella che identifica quel genere, quell’insieme.

Tutta la realtà sociale è articolata mediante generi, generi identitari. Il genere aderisce alla realtà, al mondo così com’è, lo sostiene, lo rappresenta, lo riproduce. Pasolini ne segue le trasformazioni attraverso le trasformazioni della realtà sociale. E ciò anche come passaggio da un mondo mitico, sia in senso metaforico, sia in senso letterale, alla Realtà storica, con le sue esigenze, le sue necessità in nome del Progresso, della Civiltà e della Civilizzazione, in cui è appunto l’alterità singolare, di ciascuno, quella che resiste alla genericità, a pagare il prezzo più alto.

2. La grande trasformazione

La realtà, il mondo, che fa da contesto storico al cinema di Pasolini, è una forma sociale in trasformazione, che egli analizza e raffigura da scrittore, fino alla forma del capitalismo avanzato, da lui lucidamente identificata, diagnosticata al suo primo profilarsi anche in Italia, tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, e oggi in quella fase di sviluppo estremo, a livello mondiale, comunemente denominata globalizzazione.

Attraverso la scrittura, sia che si tratti della scrittura filmica, sia di quella letteraria, ma anche di quella giornalistica, Pasolini denuncia i processi di degenerazione di comportamenti e di valori, provocati dal rapido inserimento, disumanizzante, nei cicli riproduttivi della civiltà dei consumi, la trasformazione repentina e impietosa della vita di ciascuno in una vita anonima, impersonale, in cui alla crisi dell’identità corrisponde l’illusione della sua affermazioni in modi violenti e parossistici, in cui l’alterità non relativa, quella della singolarità inclassificabile e insostituibile di ciascuno è sacrificata, e in cui c’è la costruzione di un Altro generico, astratto, a cui opporsi per affermare la propria differenza a sua volta di genere, generica.

Agli inizi degli anni Settanta, particolarmente negli articoli pubblicati sul Corriere della Sera, Pasolini conduce una lucida analisi del processo di sviluppo in Italia della civiltà dei consumi, oggi configurata nella forma del mercato universale, della unificazione economica e della comunicazione globale. Ne individua la base nella rivoluzione delle infrastrutture e nella rivoluzione del sistema di informazione. Soprattutto la televisione, ‘autoritaria e repressiva’, divenuta centro di elaborazione dei messaggi, ha avviato, osserva Pasolini, un’opera di acculturazione omologante, che non ammette altra ideologia che quella del consumo, secondo le norme di quella che egli chiama ‘Produzione creatrice di benessere’ (v. «Acculturazione e acculturazione », 9 dicembre 1973, in Pasolini 1990: 237). L’omologazione prevede alternative, ma esclude ogni alterità. È interessante rilevare che Pasolini impiega direttamente il termine ‘alterità’ distinguendolo da ‘alternativa’ e contrapponendolo a ‘identità’ e ‘identificazione’ (v. «Intervento al Congresso del Partito Radicale», in Pasolini 1976: 189-190).

Ma i processi di acculturazione omologanti non trovano riscontro nella effettiva possibilità di soddisfazione dei nuovi bisogni, desideri e immaginari, provocati ‘dalla produzione creatrice di benessere’ presso le classi meno abbienti, a cui mancano i mezzi per realizzarli, tanto da generare frustrazione, rabbia e risentimento, specialmente tra i giovani. Pasolini sapeva bene che l’omologazione apparente nascondeva, anzi acuiva le differenze economiche e di condizioni di vita, non cancellando quegli aspetti che l’Italia presenta negli anni Cinquanta e Sessanta e che possono essere espressi in termini di denutrizione, ghettizzazione e sperequazioni sociali drammatiche.

L’omologazione nella società italiana dei consumi è un fenomeno di superficie manifestantesi nella sempre maggiore identificazione dei comportamenti, delle idee, delle esigenze, dei desideri, degli immaginari delle persone appartenenti a strati sociali diversi. In questa situazione ogni forma di rivendicazione è richiesta di identificazione con chi detiene il potere. Genere contro genere. Ma il punto è che il genere non mette in questione il genere.

3. Lo spazio del femminile nel cinema di Pasolini: mondo dell’uomo e humanitas

Lo spazio del femminile pasoliniano raffigurato particolarmente in Mamma Roma (1962) e in Medea (1969) è lo spazio della denuncia e della presa di posizione critica e creativa nei confronti dei luoghi dell’ordine del discorso dominante, con i suoi paradigmi, le sue opposizioni, le sue sistemazioni in generi e specie, con le sue differenze identitarie, in cui la differenza come unicità, non intercambiabilità, incompibilità, singolarità, insomma come alterità non relativa, è cancellata.

Rispetto all’inesorabile procedere omologante e indifferente della Storia con il suo imporre differenze sempre più generiche e identificazioni richiedenti sempre più ampie contrapposizioni, le figure femminili nel cinema di Pasolini, fuori genere, sui generis, rappresentano un elemento di rottura, di resistenza, di non assimilabilità, di rigetto.

Attraverso le raffigurazioni del femminile, Pasolini denuncia i processi di corruzione, lo svuotamento di valori, mette in discussione l’ideologia dominante rispetto alla quale, per usare il linguaggio di Pasolini stesso, i suoi personaggi femminili si pongono, anche loro malgrado, sia pure passivamente, come nel caso di Mamma Roma, ma anche di Bruna e di Biancofiore, in rapporto di ‘alterità’ e non di ‘alternativa’.

Nella produzione cinematografica di Pasolini la sovversione e la resistenza, la reinterpreazione del mito, la sua reiterazione malgrado i progressi della civiltà e della ragione, sono ‘figure’, nel senso di Roland Barthes (1977) , cioè figure del discorso artistico e al tempo stesso espressioni di atteggiamenti etico-logici, in cui le donne svolgono una parte centrale. Nell’universo di discorso pasoliniano, il genere femminile è il luogo della messa in discussione del genere stesso. Rispetto all’affermazione prevaricatrice dell’identico, dello stesso, rispetto alla conferma e riconferma ossessiva della propria identità di genere, di soggetto, rispetto alla riproduzione dell’identico, il femminile mette in scena la forza vitale dell’umano fuori genere, di una humanitas il cui significato va ricondotto etimologicamente non al genere homo, ma a humus, a terra, come nel caso di humilitas. Il femminile non è una qualità inerente al genere donna, esclusiva alle donne, ma al contrario è una qualità inter-genere, transgenere di ciascuno, del singolo in rapporto con l’altro singolo, in un rapporto di volto scoperto a volto scoperto, di ascolto, di accoglienza, in un rapporto di pace preventiva, fuori identità, fuori dall’opposizione che l’indifferente differenza identitaria richiede, fuori dalle sue divisioni e dalle sue divise, dal suo reclutamento e chiamata alle armi, fuori dalla violenza che l’appartenenza ad essa comporta.

4. La trappola dell’identità

Proprio in risposta alla storia culturale del progressivo contrapporsi delle identità, tanto più quanto più entrano in crisi, quanto più producono esse stesse indifferenza e omologazione, Pasolini, nella propria ricerca, sceglie spesso di evidenziare, tramite personaggi femminili, qualità, aperture, orientamenti come la vitalità creatrice, le forze prorompenti della vita, la mitica e rigeneratrice capacità di trascendere i limiti delle categorie e dei discorsi del ‘razionale ordine sociale’, sconvolgendone le logiche a suo fondamento. Le tracce dello sguardo aperto e critico di Pasolini, il suo punto di vista spregiudicato e polilogico, si trovano soprattutto nelle sue raffigurazioni di donne, e non del genere maschile, del soggetto mascolinizzato, sede simbolica di potere e di controllo, ruolo pubblico, funzione di regolamentazione sociale e di sacramentalizzazione dei rapporti tra i sessi. L’universo femminile è plurivoco, dialogico, creativo proprio perché è al margine rispetto all’ideologia ufficiale. Le figure femminili e, con riferimento più ampio, le espressioni, le voci, le ottiche femminili esorbitano dai limiti e dalle costrizioni dei luoghi comuni, dei luoghi del discorso, dai ruoli, dai soggetti, dalle identità, dai generi reclutati a servizio dell’ordine sociale.

Nel monologo che costituisce l’atto unico di Un pesciolino (1957) destinato alla Compagnia del Teatro de Satiri e mai rappresentato, una donna ormai non più giovanissima ribellandosi alla sua identità di zitella, mette in discussione la prevaricazione che in generale l’identità comporta sulla singolarità di ciascuno, che viene «chiuso in quella cornice, in quello schema di ferro». Il discorso si allarga fino ad essere una requisitoria contro la trappola dell’identità:

Quando uno ti conosce, quell’idiota, prima ti classifica nella tua categoria, poi ti prende in considerazione in quanto persona. Non capisce che fa uno sbaglio spaventoso…che è empio…bestia…che compie un atroce reato contro l’umanità… Umiliare un individuo con un atto aprioristico che poi resta fisso nel giudizio su di lui, Ineliminabile, ineliminabile, anche se incoscientemente è una vigliaccheria orrenda […] Sì tutti, tutti gli uomini sono fatti così: presentate a uno un ebreo, e questo prima sarà ebreo, e poi sarò uomo, individuo. […] Maledetti conformisti, idioti, tutti, tutti! […Dentro a questa categoria] c’è tutta una vita che non sopporta categorie: una vita dove scrivere ‘categoria’ è come pretendere di scrivere con un dito nell’acqua. Macché, figuratevi se vi convincete di questo! Maledetti nazisti, tutti, tutti! Bisogna essere uguali, appartenere alla categoria normale, se no guai! […] Che peccato spaventoso uscire in qualche modo dalla norma: la scommessa che fa con se stesso questo cretino di uomo nascendo è di non commettere scandalo: perché chi commette scandalo frega tutti gli altri, rivelando che nell’uomo, in tutti gli uomini, la possibilità di scandalo esiste: e chi la fa franca, allora, lo condanna. Con tutto l’essere suo. Con tutto il suo istinto di conservazione! (Pasolini 2001b: 141-142).

5. Dalla rappresentazione dell’identità alla raffigurazione dell’alterità

Pasolini non si limita a raffigurare con la sua arte la vita, ma riscrive, anche con la macchina da presa, la raffigurazione che è già nella vita, irriducibile ai luoghi della rappresentazione, alle sue repliche, ai suoi ruoli, ai suoi copioni; scrive della raffigurazione extra-ordinaria che rende la vita vita, che restituisce alla parola, al gesto, al volto, allo sguardo, al riso e al pianto una vitalità rigenerativa, trasformatrice, creativa. La raffigurazione è orientata secondo la logica dell’alterità, il rapporto con altri, l’ascolto dialogizzato; è raffigurazione del propriamente umano, di ciò che fuoriesce dalla funzionalità dalla produttività, che sfugge al controllo, alla presa, alla pianificazione, alla codificazione; raffigurazione che rende l’invisibile visibile, dice l’indicibile dei luoghi comuni del discorso e ricerca l’infinito nel finito. La raffigurazione è il guardare indiretto («la soggettiva indiretta libera» di Pasolini), evitando la pietrificazione dello sguardo che identifica. È la scrittura intransitiva senza oggetto, ruolo, disciplina; è il ritrovamento del sentire apprensione e paura per l’altro, l’opposto, il diverso, l’estraneo, il non appartenente, uscendo dalla crosta indurita dell’identità trincerata a propria difesa, la quale impedisce che possa esserci altra paura che lo riguardi da quella che incute a ‘noi’ o quella ‘noi’ incutiamo a lui. Tutto questo Pasolini lo dice attraverso il femminile, e soprattutto attraverso le figure di donne – madre, figlie o prostitute che siano –, non rappresentando e oggettivando i personaggi femminili sullo schermo o sulla pagina, ma a partire dalla irriducibilità di ciascuno di loro alla oggettivazione e alla rappresentazione, dal loro sottrarsi alla identità di genere, con le sue opposizioni e gerarchizzazioni.

In contrasto con la posizione individuale nell’ordine sociale e morale, con la degradazione e le ipocrisie che l’ordine stesso genera, con le diverse forme, esplicite o subdole, di coercizione sociale, le donne di Pasolini come Medea e Mamma Roma sono collegate con la simbologia delle forze prorompenti della vita (cicli vitali, madre terra, figli, bambini, acqua, luce), e con la vitalità dell’inquietudine per l’altro.

Metafora dell’apertura alla vita dei personaggi femminili di Pasolini è la scelta di introdurre come protagoniste nelle sue produzioni cinematografiche donne della vita reale: la stessa Susanna Pasolini, madre di Pier Paolo, nel film Il Vangelo secondo Matteo (1964), o in Teorema (1968); la scrittrice Elsa Morante come prostituta senza nome in Accattone (1961), Maria Callas in Medea.

6. Medea straniera, extracomunitria, fuori luogo

Medea raffigura la lotta tra mondi diversi rappresentati dalle figure mitiche di Medea e Giasone. Medea è madre sia in senso biologico – con Giasone genera due figli maschi –, sia in senso simbolico, in quanto, sacerdotessa della Colchide, è madre di tutto il popolo su cui regna suo padre Eeta. In un certo modo come Mamma Roma, Medea rappresenta una cultura originaria primitiva ai margini del mondo ufficiale, la lontana e rocciosa Colchide. E, come Mamma Roma, anche Medea è attratta dalla sfida di intraprendere una nuova vita rappresentata, in questo caso, dall’arrivo di Giasone, il viaggiatore. Lo scenario che il film Medea raffigura è quello della relazione tra sacro e profano, della separazione di Medea dalla sua terra, di un rapporto amoroso sperequato, del legame tra amore e morte, tra fecondità e distruzione – i riti della fertilità basati sul sacrificio umano, il distacco dalla madre terra per seguire uno sconosciuto, lo scontro di culture diverse, il dare la vita e il dare la morte.

Tutte le azioni di Medea fuoriescono dalla logica del mondo chiuso sulla propria identità, dall’essere così delle cose, dall’ordine del discorso, da qualsiasi tendenza alla riconferma dell’identico. Sia quando crea, sia quando distrugge, Medea si comporta secondo un sistema di valori che la collega, in un rapporto di stretta interconnessione e di reciproca rispondenza, con le forze vitali del cosmo. Paradossalmente, tutte le sue azioni, anche le più distruttive, hanno un senso alla luce del progetto per la salvaguardia della qualità della vita stessa.

Ricorrendo a tecniche cinematografiche e a scelte stilistiche precise, Pasolini esalta in Medea la positività delle sue origini, l’innocenza primordiale, la dimensione misteriosa, inconoscibile – i primi piani del volto e degli occhi, l’uso ricorrente di primi piani di profilo. Lo sguardo di Medea viaggia al di là dei limiti del mondo e fa intravedere l’alleanza tacita con gli dei, lo stato di comunione pacifica con la natura, con la sfera sacra della vita. Medea è intensa, regale, vigile. Il suo è uno sguardo distanziato, dignitoso e indiretto, sia quando partecipa ai riti della comunità di origine, sia quando si unisce a Giasone. I suoi comportamenti, le sue parole sono pregni di significati e di significatività, di conseguenze per tutti coloro che entrano in contatto con lei e con il suo mondo.

Medea è sempre fuori luogo, in un continuo differire tra segni, mai totalmente inglobata da alcun genere, in una costante messa in discussione dei mondi a cui appartiene, di cui è espressione, perfino del mondo sacro che rappresenta. La narrazione filmica inizia raffigurando Medea nel ruolo di sacerdotessa con il compito di garantire, anche con la partecipazione ai riti della fertilità, la qualità di vita della comunità originaria di appartenenza, il suo benessere. Invece, l’elemento che dà sviluppo alla narrazione successiva è il tradimento di questa stessa comunità e del suo popolo, lo spostamento verso l’altro sconosciuto. Pur emergendo come figura femminile centrale e potente, il disagio e l’emarginazione rispetto ai mondi che abita è una costante nella raffigurazione di questo personaggio. Al termine del viaggio in mare con gli argonauti, Medea, guadagnata la terraferma, cerca i segni del sacro, la comunicazione con gli dei, ma prevale in quell’episodio il senso di disorientamento, di disagio, e di differenza rispetto alla terra straniera: ‘Ahaaah! Parlami, Terra, fammi sentire la tua voce! Non ricordo più la tua voce! Sole!’. L’esclusione, in quanto straniera, dalla comunità di Corinto, sotto il regno di Creonte, è simboleggiata dalla collocazione della sua casa fuori dalle mura della città.

Rispetto al mondo secolare rappresentato da Giasone e governato da Creonte, Medea è l’eccesso, l’esorbitante, l’altro sacrificato al fine di mantenerne l’integrità, la compattezza, l’identità. Medea è mobile, passa con fluidità da un luogo ad un altro, da uno stato sociale ad un altro, senza mai identificarsi definitivamente in nessuno. La sua figura è complessa, indefinibile, dinamica, espressione della interrelazione continua fra mondi, generi e ruoli diversi: sacro/profano, spirituale/mondano, natura/cultura, pubblico/privato, interno/esterno. Vive questi mondi simultaneamente in tutti i loro aspetti, come donna nelle sue diverse prerogative di sacerdotessa, madre, moglie, amante, tiranna, paradossalmente inviolabile nella sua alterità e al tempo stesso vulnerabile proprio per questo, per la percezione che ha dell’altro.

La tragedia finale è collegata con l’indifferenza, la chiusura, il rifiuto da parte di un mondo incapace di aprirsi all’altro, di accogliere l’altro, di tenere all’altro. Medea che dà la morte ai suoi figli simboleggia il punto massimo della ribellione non solo nei confronti di un ordine sociale indifferente, pronto a segregare, a ricusare, a estromettere l’altro, ma anche e soprattutto nei confronti di ciò che un mondo del genere finisce col produrre. Ciò resta della figura di Medea, nell’immaginario comune, nel discorso comune, nell’ordine del discorso, di Medea come luogo comune, la madre che ammazza i suoi figli, a guardar bene, da un punto di vista fuori luogo, non soltanto è lo scandalo del mondo che espunge l’altro, ma la sua vergogna: la vergogna di un mondo che pruduce tali figure, che spinge la donna – più precisamente il singolo intrappolato nel genere e nell’identità impostagli – fino a tale limite, che produce, che continua a produrre Medee.

7. La paura dell’altro come alibi e il senso di colpa. Occhio non vede, cuore non sente

La tolleranza alleggia sull’indifferenza e nasconde l’insofferenza, l’odio. Essa si converte facilmente in intolleranza, in espulsione, in messa al bando. Ma ancora più sotto dell’indifferenza e l’odio c’è il senso di colpa, la cattiva coscienza, che a volte riffiora.

La paura dell’altro consiglia il suo allontanamento. Il mondo di Giasone non contiene Medea, non resiste alla sua alterità e sceglie di chiudersi davanti a ciò che viene percepito come minaccia al proprio ordine sociale.

Creonte dice a Medea:

Mi fai paura – te lo dico apertamente – per la mia figliola. È noto a tutti in questa città che, come barbara, venuta da una terra straniera, sei molto esperta nei malefici. Sei diversa da tutti noi: perciò non ti vogliamo tra noi (Pasolini, 2001a, vol. I: 1285).

Ma poi confessa il vero motivo per cui vuole cacciarla insieme ai suoi figli. Sua figlia si sente in colpa verso di lei e prova dolore per il dolore di lei. Egli in realtà ha paura per sua figlia, per ciò che sua figlia può fare in tale stato di cattiva coscienza. Proprio perché senza colpa, Medea deve andarsene, perché la sua stessa presenza procura sensi di colpa. Il potere interviene per evitare che chi è troppo sensibile non sa essere indifferente alla sofferenza altrui. Non vedere chi soffre è un buon rimedio per evitare eventuali sensi di colpa e sentirsi invece con la coscienza in pace.

A dire la verità, dice Creonte:

non è per odio contro di te, né per sospetto della tua diversità di barbara, arrivata alla nostra città coi segni di un’altra razza, che ho paura… Ma è per timore di ciò che può fare mia figlia: che si sente colpevole verso di te e sapendo il tuo dolore, prova un dolore che non le dà pace (Pasolini, 2001a, vol. I: 1285).

8. Mamma Roma: il sogno dell’escluso di essere identico a chi ha l’identità che conta

Se ora passiamo a considerare il film Mamma Roma, notiamo subito che già il nome ‘Mamma Roma’ (anche qui il nome del personaggio dà il titolo al film) dice dell’interrelazione tra pubblico e privato, della continuità di fatto tra sfere diverse ma non separate della vita, al di là delle divisioni costituite da ruoli, codici e convezioni sociali, dice della continuità che le circostanze della vita e delle relazioni possono negare o assecondare. Mamma Roma è una prostituta di professione, povera, emarginata e chiassosa, raffigurata come vittima dell’oppressione e del controllo.

Come Medea, Mamma Roma esprime non solo l’umiltà, la dignità, ma anche la potenza prorompente di forze primordiali, un senso originario, che fuoriesce dai limiti posti dalla logica della differenza basata sull’identità, sul genere – differenza di specie, razza, colore della pelle, classe sociale, differenza sessuale, ecc.

Sia Medea sia Mamma Roma sono madri, capaci di generare nuova vita, ma entrambe investite di significatività che trascende i significati specifici della relazione ordinaria madre-figlio. Rispetto alla contemporaneità, alla situazione cronotopica immediata, entrambe queste donne guardano oltre: Mamma Roma, figura femminile romana del dopoguerra, guarda verso una condizione di vita migliore al di là della povertà e della miseria; Medea guarda verso la sfera sacra a cui dà un valore sociale.

In Mamma Roma la relazione tra madre e figlio rimanda alla borgata romana, quindi ad una classe specifica di una determinata comunità, relativamente piccola, limitata. Ma le problematiche che Pasolini affronta in questo film rimandano in effetti ad una comunità assai più vasta, un contesto globale più ampio, potremmo dire: il mondo occidentale. E forse, anche trascendono quest’ultimo, come avviene pure in Medea: la scrittura di Pasolini generalmente, e non solo quella filmica, risuona di significati rispondenti ad una dimensione cosmica che dà un senso al mondo stesso, ai suoi segni, ai suoi linguaggi, collegando elementi particolari e universali, locali e lontani. Un tema costante in Pasolini è l’interrelazionalità fra mondi diversi, l’impossibilità dell’indifferenza per la vita, il dialogismo strutturale tra tutto ciò che è vivente; di qui la necessità di riconoscere l’irrevocabile condizione di interdipendenza fra gli elementi, umani e non umani, compositivi di universi di significatività sempre più grandi. E come mostrano le vicende di donne come Mamma Roma e Medea, il non riconoscere la condizione originaria e vitale di interdipendenza dialogica, il senso originario della vita, il senso materno inerente al rapporto con l’altro, può finire soltanto in devastazione e morte.

La relazione madre-figlio, complessa e problematica, è una metafora impiegata da Pasolini per elaborare la propria critica all’ideologia dominante.

Mamma Roma e anche altre figure femminili raffigurate sia in questo film, sia, ad esempio, in Accattone, vengono da famiglie estremamente povere, sono vittime di violenza e di controllo da varie parti – il magnaccio, la polizia, gli stessi figli –, vivono una vita di privazioni al margine della società ufficiale, uno spazio ambiguo ai confini fra due mondi. Ma è soprattutto Mamma Roma ad ambire con tutte le forze a migliorare la propria posizione sociale, a soffrire come insopportabile la propria situazione, a essere tormentata dalla consapevolezza di poter mirare ad altro, un altro irraggiungibile; cosa che, al tempo stesso, la rende disperata e attiva. La vista sulla città di Roma dalla sua finestra, dato che la sua casa non è dentro alla borgata ma ai confini della città, sottolinea la condizione di emarginazione rispetto alle classi sociali più abbienti e il desiderio di identificazione con esse. In realtà Mamma Roma sa di non appartenere né alla ‘sua’ classe rispetto alla quale guarda altrove, né alla classe media che vorrebbe ma non riesce a raggiungere nonostante la conquista di merci e di beni materiali che indicano il movimento in quella direzione, oggetti vari tra cui la vespa rossa per il figlio Ettore.

Mamma Roma è relegata nel punto di confine tra due mondi, è bloccata dal desiderio di identificazione, il desiderio di sostituire una posizione sociale con un’altra, una classe sociale con un’altra, di rivendicare i propri diritti avanzando dalla prostituzione alla cittadinanza nel mondo della borghesia media urbana. È mossa dal desiderio di evasione, vive nel e del movimento tra livelli sociali differenti. Il mezzo per rivendicare la propria libertà di spostamento, di trasformazione, è il lavoro, il lavoro onesto. Mamma Roma sogna il lavoro libero, il lavoro che si compra e si vende sul mercato dello scambio eguale. Anche Ettore è catturato tra due mondi: il passato della vita di campagna e il futuro consumistico del progresso dall’altra. Ma, mentre Mamma Roma abbraccia l’etica del lavoro della emergente classe media, Ettore fallisce a scuola, è disoccupato e disorientato, del tutto svuotato di valori, privo di sogni, di progetti, dipendente per il proprio sostentamento dalla madre. Con figure come Ettore, ma anche con Bruna, la ragazza divenuta sua amante, Pasolini mette in scena lo scontro tra culture, la crisi di valori, la disperazione, le frustrazioni che affliggono i giovani. Ettore non si ritrova nel progetto della madre; rispetto a quest’ultima è altro, né trova scappatoie davanti alla volontà, la tirannia della madre. La morte di Ettore è il prezzo pagato da Mamma Roma per il suo sogno di evasione.

Pasolini mostra Mamma Roma mentre con decisione, parla, si agita, si dirige fuori dal sottosuolo del sottoproletariato verso la città, la piccola borghesia del futuro, che sogna di raggiungere ma che non raggiungerà mai. Per questo sogno Mamma Roma sacrifica i valori di un passato ormai lontano a cui non vuole appartenere per avvicinarsi ad un futuro attraverso il quale riscattarsi, che però resta inaccessibile: nonostante la sua ferrea volontà e il suo atteggiamento deciso, anche autoritario, nell’orientarsi verso di esso, non apparterrà mai al sociale cui ambisce.

Bibliographie

Riferimenti bibliografici

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Citer cet article

Référence électronique

Susan Petrilli, « Genere e fuori genere: il discorso e il femminile in Pier Paolo Pasolini », Textes et contextes [En ligne], 2 | 2008, publié le 01 décembre 2008 et consulté le 23 avril 2024. Droits d'auteur : Licence CC BY 4.0. URL : http://preo.u-bourgogne.fr/textesetcontextes/index.php?id=141

Auteur

Susan Petrilli

Dipartimento di Pratiche linguistiche e analisi di testi, Facoltà di lingue e letterature straniere, Via Garruba 6, 70122 Bari (Italia)

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