La viticoltura nell’Alto Monferrato. Gli effetti sul paesaggio e sul turismo locale

Traduction(s) :
La viticulture dans le Haut Montferrato. Les effets sur le paysage et sur le tourisme local

Résumé

L’autore analizza la dinamica cronospaziale manifestata dalla viticoltura nell’Alto Monferrato, una delle aree del Piemonte sud-orientale di cui tale coltivazione costituisce non soltanto uno dei principali segni identitari del paesaggio, ma anche un’attività che ben si integra con forme di sviluppo turistico locale ecosostenibile, come dimostra il recente decollo e sviluppo registrato dall’agriturismo.

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Texte

Il contesto geostorico di riferimento

L’Alto Monferrato è una microarea di confine da circa due secoli appartenente al Piemonte sud-orientale, ma che nel corso del lungo periodo feudale è stata assoggettata in buona parte al Marchesato (poi Ducato) di Monferrato1 e in alcune zone di frontiera come le valli Scrivia e Lemme anche al Ducato di Milano e alla Repubblica di Genova. Talvolta denominato “Monferrato meridionale”2, il territorio, pur mancando di limiti naturali ben definiti, confina in maniera assai sfumata a NO con il Monferrato astigiano occidentale, che si sviluppa lungo la media valle del Belbo, a NE degrada progressivamente verso la Piana di Alessandria e a S tende a sconfinare verso le ultime propaggini orientali delle Alpi Liguri. Procedendo da O verso E l’area oggetto di studio si sviluppa dalla valle della Bormida di Spigno alla media valle Scrivia ed è divisa al suo interno dal corso dell’Orba, dove l’Ovadese separa la parte gravitante su Acqui da quella che si relaziona su Novi. In quest’area, seguendo una direttrice orientata approssimativamente da N a S, si passa da una fascia planiziale con quote inferiori ai 150-200 m.s.m., in cui dalla Pianura Padana le ampie valli vanno via via restringendosi, mentre le prime colline con pendenze sempre più lievi danno vita ad un paesaggio quasi interamente cominato dalla struttura geometrica conferita dalle coltivazioni, eccezion fatta per le residue macchie boschive decorrenti lungo i principali corsi d’acqua, ad una zona collinare, che si sviluppa fino a 500 m.s.m., dapprima rappresentata da ondulazioni quasi interamente ricoperta dal vigneto e quindi dall’alta collina, dominata da boschi cedui di castagni e querce, che al di sopra della fascia altimetrica compresa fra i 500-600 m.s.m. assume la tipica configurazione montana, con valli profondamente incise e quindi versanti aspri ed acclivi, con alcuni pianori prativi (Garino, 1998, p. 480).

Dopo una prima fase di sviluppo della viticoltura e della produzione vinicola in epoca romana, manifestatasi soprattutto nell’Acquese, dove aveva dato origine a commerci anche ad ampia scala3, già a partire dagli ultimi secoli del basso Impero e in quelli del primo medioevo il territorio aveva subito un processo di progressivo degrado causato dalla guerra greco-gotica (535-553), tra Bisanzio e Visigoti, e dalla successiva occupazione longobarda durata fino a quasi tutto l’VIII secolo. Ed anche dopo la parentesi carolingia, che aveva favorito lo svilupparsi di alcune curtes, tra la metà del IX e la metà del X secolo, come era accaduto per il resto del Sacro Romano Impero in questo contesto geografico si manifesta un lungo periodo di pesante depressione, i cui effetti si avvertono nel paesaggio, sempre più dominato dalla presenza di foreste (in particolare la Selva d’Orba), boscaglie, paludi e acquitrini, in quanto l’originario scarso popolamento viene aggravato da un forte regresso declino demografico, causato dal frequente ripetersi delle scorrerie saracene, che permettono così alla natura di riappropriarsi della maggior parte del territorio, destinato quindi a cadere in uno stato di desolazione senza precedenti nel corso della storia (Pistarino, 1970, p. 9).

Tra la metà del IX e la metà del X secolo l’insediamento umano si presenta quindi esiguo e rarefatto, essendo costituito non soltanto da curtes, ma anche da alcune pievi, vici, castra, villae e loci, assai isolati l’uno dall’altro ed immersi nel grande silenzio della natura, eccezion fatta per i momenti dell’anno allietati dalle feste religiose e dalle insopprimibili attività di scambio di beni legati ad un’agricoltura e ad un artigianato locale con connotazioni di assoluta precarietà, determinata da fattori quali il mancato processo di acculturazione tra etnie diverse, soprattutto latina e germanica, lo stato di insicurezza causato dalle frequenti e ripetute incursioni nemiche, ed infine le soperchierie di un sistema basato sulla forza e sul diffondersi di un brigantaggio dovuto più che altro a necessità di sopravvivenza (ibidem, pp. 9-10).

Intorno alla metà del X secolo, nel momento in cui la parabola discendente sembra aver raggiunto il punto più basso, si assiste invece ad un’inversione di tendenza, favorita da una volontà di ripresa e di ricostruzione, dovuta a molteplici cause tra loro collegate, come la restaurazione dell’autorità imperiale in Germania con l’ascesa della casa di Sassonia, la riscossa contro l’avanzata islamica nel Mediterraneo occidentale, i primi moti di riforma della Chiesa cristiana nei suoi ordinamenti regolari e secolari4. Tra la fine del 950 e l’inizio del 951, Berengario II ed il figlio Adalberto creano le tre marche liguri-padane, l’Arduinica tra Torino, Saluzzo, Ventimiglia e il Ponente savonese, l’Aleramica tra Casale, Asti e Savona e l’Obertenga tra Tortona, Genova e la Lunigiana, nel tentativo di rispondere anche a tempi nuovi sotto il profilo amministrativo. Si viene così a costituire una divisione territoriale più equilibrata nel rapporto tra mare ed entroterra, poiché ognuna delle tre marche viene a configurarsi nel rispetto di tale rapporto, rispondente ad una logica basata su relazioni geografiche orizzontali originate da scambi commerciali non più di tipo locale, ma anche su medie e lunghe distanze, in piena sintonia con la futura ascesa del mondo germanico e della conseguente rinascita italiana nel Mediterraneo, destinata ad un progressivo sviluppo dei commerci tra Europa continentale e mondo bizantino ed islamico, in grado a sua volta di favorire l’intensificarsi dei rapporti locali tra città e campagna (ibidem, p. 10). Nel caso particolare dell’Alto Monferrato, però, il territorio viene suddiviso in due parti proprio dal corso mediano dell’Orba, che scorre da S a N, assegnando da un lato alla Marca Aleramica la parte occidentale, estesa fino all’alta valle della Bormida di Spigno ed assoggettata, insieme alla valle Stura, alla diocesi di Acqui, e dall’altro alla Marca Obertenga quella orientale, estesa fino alla media valle Scrivia, annessa quasi tutta alla diocesi di Tortona.

Proprio a partire da questo periodo si assiste al fiorire di nuovi insediamenti umani, che tendono a privilegiare i luoghi dotati di una posizione geografica particolarmente favorevole: non a caso i documenti d’archivio più antichi di certe località dell’Alto Monferrato risalgono proprio a tale periodo, e tra gli esempi più sicuri si possono ricordare gli insediamenti di Carpeneto, Montalto (poi Montaldo), Castelnuovo, Tagliolo, Montaldeo, Francavilla, Novi, ecc. Nei primi decenni della seconda metà del X secolo, come ricorda ancora Geo Pistarino, «si dissoda, si disbosca, si prosciuga», così come i maggiori centri urbani, che espandono la propria area di influenza, in virtù di lasciti, donazioni ed acquisti, riescono a coinvolgere sempre più le cellule rurali minori, per l’operato svolto dai presuli delle diocesi «assurti in molti casi alla guida della vita cittadina, con o senza investitura feudale», oppure dai «monasteri di antica tradizione, richiamati a nuova vita, o di fondazione recente, spesso costituiti appunto con lo specifico compito di tutela del traffico e d’incremento agrario» (ibidem, p. 15 e ss.). Sul finire dello stesso secolo, però, le tre marche, se da un lato sul versante meridionale vengono a perdere il controllo sulle principali località della costa ligure, capeggiate da Genova in forte ascesa, dall’altro sul versante padano si trovano a dover competere con l’espansionismo territoriale manifestato dai comuni cittadini e dalle nuove o rinate comunità rurali.

Ancorati all’organizzazione territoriale carolingia restano così i feudi signorili ubicati in prossimi di valichi montani o lungo i percorsi vallivi di obbligato passaggio delle merci e delle persone, ove è possibile esercitare il controllo e pretendere il pagamento di pedaggi. Nel corso dell’XI, il sistema di successione di tipo ereditario tra i discendenti maschili causa una progressiva frammentazione politica e amministrativa di tali territori: non a caso, già agli inizi del secolo successivo il quadro territoriale risulta profondamente trasformato dalla parcellizzazione feudale e dall’avanzamento del controllo di Genova oltre la linea spartiacque. Tra il XII e il XV secolo l’Alto Monferrato si presenta quindi come un territorio attraversato dai principali percorsi che collegano Genova alle località ubicate nei bacini delle Bormide e del Tanaro, in direzione di Asti, Chieri, Torino e l’Oltralpe francese, ed anche di Vercelli e Novara, così come verso Piacenza e la Padania orientale, usufruendo della val Lemme e della valle Scrivia. In conseguenza dell’aumento dei traffici e delle conflittualità politiche tra il Ducato di Milano, il Marchesato monferrino e la Repubblica di Genova, si assiste quindi alla fondazione di numerosi castelli, molti dei quali tuttora esistenti, allo scopo di controllare i traffici sviluppatisi nel contesto di una rete viaria destinata a collegare le località in direzione latitudinale, come nel caso delle valli dell’Orba e del suo affluente Lemme, oppure in direzione longitudinale, come mostrano ancor oggi le strade di congiunzione tra l’una e l’altra vallata, con diramazioni ad occidente verso la valle Bormida e ad oriente verso la valle Scrivia (Rocca, 2014).

Le trasformazioni del paesaggio vitato nel basso medioevo e in età moderna

Nonostante la considerevole frammentarietà delle fonti, ricerche e studi condotti in questi ultimi decenni sulla storia del territorio oggetto di studio hanno contribuito a chiarire alcuni aspetti assai oscuri delle vicende umane ed economiche nel lungo periodo, collegabili non soltanto a fattori d’ordine politico-religioso, ma anche al diverso andamento ciclico del clima. Tra il III secolo a.C. e il III-IV secolo d.C. sembra infatti che l’impero romano si sia sviluppato ed abbia raggiunto il suo periodo di massimo splendore proprio in corrispondenza di un ciclo caldo, mentre nei secoli successivi si sarebbe avuta una serie di annate eccezionalmente fredde, con un aumento eccessivo delle precipitazioni, causa di frequenti alluvioni e quindi di carestie, che avrebbero indotto le popolazioni dell’Europa centrosettentrionale ad emigrare verso Sud, innescando il fenomeno delle invasioni barbariche. Queste negative condizioni meteorologiche, descritte dettagliatamente da Paolo Diacono, avrebbero interessato la Liguria nel 580 e la Pianura Padana nel 589, sconvolgendone l’assetto idrografico, ed anche nell’VIII e nel IX secolo le zone comprese fra il litorale ligure ed il corso del Po sono descritte con toni drammatici, in quanto caratterizzate da “un quadro di desolazione”, dove foreste e boscaglie, paludi ed acquitrini costituivano nuovamente i principali elementi del paesaggio, dal momento che agli intensi traffici lungo le antiche vie romane si erano sostituiti contatti a breve raggio e a breve termine tra luogo e luogo (Pistarino, 1970, p. 9).

Nonostante il clima continui ad essere caratterizzato da inverni particolarmente freddi, tra il XII e il XIV secolo l’economia agricola comincia a trasformarsi per effetto della colonizzazione cistercense, che privilegia i terreni pianeggianti, come nel caso dell’Abbazia di Santa Giustina nei pressi di Sezzadio, ai margini settentrionali dell’Alto Monferrato, ma anche i pendii collinari più assolati e meno acclivi, dove provvede ad un certo sviluppo della viticoltura, come in Alta Val d’Orba, nei terreni del’abbazia di Tiglieto. Infatti, alcuni documenti del XII-XIII secolo ancor oggi conservati nelle Carte di quel monastero, contengono frequenti riferimenti a donazioni di devoti all’Abbazia, fra cui vigne, vigne con alberi (alteni), vino; negli stessi documenti il 29 settembre, che doveva coincidere con la festività di San Michele, è citato come giorno di inizio della vendemmia (Barba, 2001, pp. 8-9). Va anche ricordato che a partire dal XIII secolo e nel corso dei tre secoli successivi l’alteno, forma di sistemazione della vite su albero tutore, assai diffusa in età classica, ridiventerà una componente rilevante del paesaggio rurale piemontese, a scapito della vigna (Sereno, 1992, p. 20).

Nei secoli successivi il paesaggio della parte basso-collinare della Valle dell’Orba viene a registrare un radicale mutamento, a causa di un rapido processo di diboscamento, manifestatosi per acquisire spazi da destinare alla coltura arativa e all’introduzione del vigneto: infatti, come ha avuto modo di osservare Giorgio Doria, nel XIII e nel XIV secolo, quasi a testimoniare indirettamente il veloce diffondersi della viticoltura, si manifesta una vera e propria rapina del legname per scopi viticoli, continuata nel secolo successivo fino al 1466, anno in cui si dovranno emanare alcuni statuti5 per incentivare il rimboschimento di alcune aree (Moreno, 1971, p. 337; Doria, 1968, pp. 36-50). Del resto, nella seconda metà del Quattrocento i terreni a vigneto non sono più considerati marginali rispetto a quelli destinati alle altre colture.

E proprio a confermare il ruolo sempre maggiore svolto dalla coltura della vite sul finire del basso medioevo, esistono numerosi documenti, come ad esempio le “carte” della Chiesa d’Acqui, che coprono un arco temporale esteso dal IX al XV secolo ed anche il cartulare del notaio Pietro Bongiovanni, che rogò ad Acqui presumibilmente tra il 1402 e il 1427. Il patrimonio toponomastico offerto da tali fonti, infatti, mette in luce un’elevata frequenza di una viticoltura praticata col sistema del vigneto e sempre più con quello dell’alteno, presente soprattutto nella zona collinare dell’Acquese ed estesi anche in molte aree suburbane come quella di Strevi (Risso, 1993, pp. 88-89)6. Anche un atto rogato in Ovada il 16 aprile 1463, relativo ad una sublocazione di tutti i beni della Chiesa di San Martino extra muros, contenente una serie di preziosi riferimenti alla coltivazione della vite, tra cui si vineae egerent de plantis et opus esset afosare aliquam partem ipsarum vinearum … dicti fratres teneantur afosare et densare vinea laboratas raras tantum …, da cui si comprende che per infoltire le viti nei punti in cui alcune di esse erano seccate od erano state asportate dolosamente, doveva essere scavato un fosso per interrarvi un tralcio della vite vicina, da cui si sarebbe originata una nuova vite. Anche la specificazione nel rogito dei singoli lavori di potatura, legatura, impalatura, zappatura e vangatura annuale dei terreni vitati, dimostra conoscenze semplici, ma precise nell’intento di far produrre meglio tale coltura. Il vigneto sembra dunque assumere una valenza economica maggiore rispetto ai periodi precedenti (Barba, 2001, p. 18), non dimenticando infine che nel corso del Rinascimento il vino torna a diventare una bevanda di godimento sensoriale, causando una forte crescita della domanda7.

Nel corso del XVI secolo il vigneto è assai sviluppato non soltanto nell’Ovadese, ma anche nell’Acquese, dove, nonostante la forma di conduzione prevalente dei poderi sia quella svolta tramite la stipulazione di contratti di mezzadria, “i proprietari si riservano alcuni appezzamenti, messi a frutto [soprattutto vigneti] direttamente, tramite manodopera salariata o attraverso la richiesta di opere supplementari agli stessi mezzadri” (Panero, 1991, pp. 117-118)8. Nello stesso periodo anche la campagna di Novi assume un aspetto caratterizzato dalla presenza sempre più intensa della viticoltura, che però in questa zona non ha ancora conquistato le colline, in prevalenza boschive. A quell’epoca, pur circoscritti alle zone pianeggianti, i vitigni predominanti sono autoctoni e producono qualità di uve oggi scomparse (reddiberna, nerello, timorasso, moretto, arzese) (Castiglioni, 1992, p. 24). Nella Valle Lemme, invece, il mondo collinare appare coinvolto nel processo di diffusione della viticoltura già in quel secolo, come nel caso della zona di Gavi, dove molti terreni, dispersi un po’ ovunque, sono in qualche modo legati alla gestione della Centuriona, in direzione di Carrosio, cui si aggiungeranno, a partire dal Seicento, quelli della Giustiniana, in direzione di Francavilla Bisio: verso la metà del Cinquecento, infatti, dopo il definitivo ritorno di Gavi a Genova, si assiste alla costruzione di ville-fortezza, di cui l’esempio più significativo è quello della Centuriona, mentre nel Seicento sorgono le ville-fattoria, tra cui la Giustiniana. Del resto, da aprile a settembre “andare in villa”, ossia nella propria residenza padronale costituiva in età moderna non soltanto una forma di villeggiatura, ossia di occupazione del tempo libero, ma anche un’occasione per controllare l’operato del fattore, ossia dell’agente delegato alla gestione dell’attività agricola ed anche per rinnovare i contratti delle masserie, assegnare incarichi e procure, verificare con attenzione i libri contabili. Non a caso, l’elegante edificio della Centuriona, costruito molto probabilmente nel 1556, costituiva il baricentro di una grande tenuta agricola, l’unico ancor oggi rimasto di dimensioni così estese9.

Ed anche con riguardo all’Ovadese, nel Cinquecento la viticoltura sembra essersi ormai notevolmente diffusa negli ambienti collinari, come del resto comprova un pregevole studio condotto da Giorgio Doria. Infatti, nel 1567, un suo avo, appartenente ad un ramo dei Doria acquisisce il feudo di Montaldeo, ubicato sulle colline dell’Alto Monferrato Ovadese, comprendente 60 ettari di superficie agraria, di cui 14 a bosco, 10 a prato, 24 a campo e 12 a vigna. Da quel momento e fino a tutto il Seicento nel feudo si assiste ad un lento e graduale aumento dell’altezza dei sostegni, costituiti inizialmente da canne e successivamente sostituita in misura sempre maggiore da pali di castagno e di acacia, senza però alcun progresso sostanziale nella concimazione, effettuata sempre da donne.

La viticoltura nell'Ovadese, zona del Dolcetto di Ovada

La viticoltura nell'Ovadese, zona del Dolcetto di Ovada

La “caratata” datata 1682 e intitolata caratata nova de Uvada, catasto descrittivo in cui l’aggettivo nova sta ad indicare che i documento costituisce un aggiornamento di quelli precedenti, ci informa sulle caratteristiche formali del territorio comunale di Ovada, incentrato sul borgo principale, tutto ristretto attorno al maestoso castello ubicato nel punto di confluenza della Stura nell’Orba e comprendente in tale anno 83 case, 13 cascine, 10 botteghe, 2 osterie ed un oratorio, nonché altri insediamenti accentrati presenti in località Grillano, ubicata a NO nei pressi dell’Orba, e in località Costa, nella parte SE del territorio comunale, nei pressi della Stura. Nella campagna era invece assai diffuso l’insediamento sparso, costituito da 174 cascine, 29 case, 4 chiese e 95 “alberghi” (rustici ad un solo piano adibiti a temporaneo riparo o a ripostiglio). Sempre sulla base dello stesso documento è possibile rilevare, oltre ad aree boschive, spesso destinate a castagneto, nonché la presenza di notevoli estensioni di terra vineata, in certi casi promiscua e cioè associata a seminativi e prati. Non erano comunque presenti veri e propri latifondi, ma proprietà di dimensioni medie e piccole, spesso non accorpate, ma disseminate un po’ ovunque, anche a molta distanza l’una dall’altra. Le proprietà di estensione superiore a 200 stare erano soltanto 12 e fra esse dominava in assoluto quella di Francesco M. Imperiale Lercaro (989 stare), mentre quelle di estensione inferiore erano 24: e con particolare riguardo alla coltura della vite, se si eccettua la parte meridionale del territorio ovadese, più scosceso e gravitante sulla Stura, nel restante territorio rappresentato dalla carta il vigneto è presente un po’ ovunque, pur evidenziando una concentrazione nella parte settentrionale del territorio, dove ricopre quasi tutto il suolo coltivato. La coltura della vite appare inoltre praticata in maniera intensiva in diverse aree, soprattutto nelle località San Lorenzo, San Michele, Olive e Frascara (Marenco, 1988, pp. 72-76) ed anche nel vicino territorio di Montaldo Bormida, come dimostrano numerose carte d’archivio10.

Sempre a partire dalla fine del Seicento, considerando ancora il feudo di Montaldeo, si assiste ad una crescente cura della concimazione, con particolare riguardo ai nuovi impianti. E ciò è desumibile dal fatto che nel 1696 una donna riusciva a concimare giornalmente 63 barbatelle, dopo due soli anni soltanto 29 e l’anno seguente 15, numero che si ridurrà ulteriormente nel Settecento. In quel feudo, infatti, ancora a fine Cinquecento il paesaggio legato alla vite era caratterizzato da una coltura essenzialmente promiscua, con bassi filari alternati a fasce coltivate a legumi o grano, mentre a fine Settecento gli alberi di noci e di fico saranno ormai del tutto sradicati e bruciati, a causa dell’impoverimento arrecato ai terreni a vigneto e dell’ombra gettata dalle piante sulle viti stesse. Allo stesso modo la zappatura, effettuata una sola volta l’anno (aprile-maggio) nel Seicento, sarà raddoppiata nel secolo successivo ed inoltre, se ancora a metà Seicento le colture si basavano essenzialmente sul Cortese, seguito a distanza dal Vermentino, Moscatello e Nebbiolo dolce, intorno alla fine del secolo successivo passerà ad una situazione di quasi parità fra uve bianche (Moscatello bianco, Morasso, Cortese) e uve nere (Liatico, Nebbiolo e Moscatello nero) (Doria, 1968, pp. 38-40).

Un quadro generale della viticoltura in Piemonte ci viene offerto dalla Statistica Generale del 1752, in cui spicca la posizione di primo piano della provincia di Acqui, con oltre un terzo della superficie totale occupata da terreni adibiti a viticoltura, sia nella forma dell’alteno, sia nella forma della vigna (Sereno, 1992, vedi tabella p. 23). Nella seconda metà del Settecento, infatti, sembra esservi stato un vasto decadimento della coltivazione di vite pregiata, puntando più che altro ad un aumento della quantità prodotta basata su una forte espansione degli alteni (Bulferetti – Luraghi, 1966, p. 17). Non a caso, nella primavera del 1758, in seguito al forte sviluppo vitivinicolo la Comunità di Gavi si era interrogata sulla quantità effettiva di vino prodotto in quel territorio, incaricando sei esperti, afferenti all’Ufficio Comunale delle “Avarie” (imposte e tributi) per indagare su tale attività, anche attraverso stime. Nella relazione finale, conservata tra le carte dell’Archivio Comunale, si legge che nel territorio di Gavi “le vigne attualmente coltivate producono annualmente più di ventimila barili di vino puro”, di cui “più di quattordici mila barili da vendersi”, pari quindi ad una produzione lorda di circa 16.000 ettolitri di vino. Anche se tale cifra risulta notevolmente inferiore agli odierni quantitativi di vino di origine controllata garantita prodotta in questi ultimi anni con il marchio “Gavi” o “Cortese di Gavi”, è comunque rilevante ed in buona parte da collegare al fatto che i vini dell’Alto Monferrato, non soltanto il Cortese di Gavi, ma anche il dolcetto di Ovada e di Acqui, erano a fine Settecento ben rappresentati sulla piazza di Genova, pur non raggiungendo ancora l’egemonia che il vieno piemontese conquisterà nella seconda metà del secolo successivo, soprattutto in seguito allo svilupparsi della rete ferroviaria (Rebora, 1992, p. 488.

L’Ottocento

Alcune notizie sulle condizioni della viticoltura di gran parte dei comuni dell’Alto Monferrato Ovadese sono desumibili dalla “Statistica del dipartimento di Montenotte”, stesa dal conte Chabrol de Volvic tra il 1806 e il 1812, periodo in cui esercitò la funzione di prefetto di quel dipartimento, la cui struttura amministrativa era costituita dai circondari di Porto Maurizio, Savona, Ceva e Acqui, a loro volta suddivisi in unità cantonali11. Con riguardo al circondario di Acqui, nella “Statistica” si legge che la coltura della vite, se da un lato nel cantone di Spigno riveste una posizione di secondo piano, dall’altro viene ad assumere un ruolo importante nel cantone di Visone e di primissimo piano in quelli di Acqui e Castelletto d’Orba. In tutto il territorio del circondario “le vigne sono piantate in terreni composti di tufo sfaldato, e in qualche luogo di una specie d’argilla rossa e compatta. Generalmente le vigne coprono le colline; se ne vedono poche in pianura, ma queste producono un vino più abbondante e più leggero”. Inoltre, il vitigno collinare a cui si dà la preferenza è il dolcetto, coltivato in massa, con ceppi a circa mezzo metro l’uno dall’altro, dove ogni pianta è sorretta da canne. Mancano del tutto i pergolati, in quanto “gli abitanti sanno per esperienza che il vino è migliore quando la vigna è bassa. Infatti il terreno, riscaldato dai raggi del sole, riflette il calore sui frutti e ne affretta la maturazione”12. Nella “Statistica” la produzione vinicola del circondario di Acqui, stimata intorno ai 130.000 ettolitri, oltre a soddisfare il fabbisogno locale, permette un commercio diretto anche verso la Lombardia e la costa ligure (Chabrol de Volvic, 1824, vol. II, pp 172-173 e 188).

La “Statistica” elaborata da Chabrol permette anche una generica ricognizione a scala microterritoriale, in quanto per ciascun cantone riporta qualche notizia sulla vocazione viticola di alcuni comuni. Nel caso del cantone di Spigno, il territorio ricade principalmente nella parte alta della Bormida di Spigno (col suo affluente Valla) e in parte dell’alta valle dell’Erro: essendo generalmente montuoso e sterile, la presenza della vite viene dichiarata soltanto con riguardo ai comuni di Spigno, Montechiaro e Ponti, mentre in val d’Erro è segnalata a Malvicino e Castelletto d’Erro (Ibidem, vol. I, pp. 329-333). Nel descrivere le condizioni agricole del cantone di Visone, invece, si osserva che in quasi tutti i comuni “si coltiva con successo la vite, che ne rappresenta la principale risorsa”, anche se “i prodotti agricoli non bastano a nutrire gli abitanti”, obbligando una parte di essi a qualche mese di assenza per “mietere il grano e il riso in Piemonte, un’altra a raccogliere le olive in Liguria”. Nel descrivere i singoli comuni, quelli a cui viene fatto un esplicito riferimento alla viticoltura sono Visone, Rivalta, Castelnuovo, Cremolino, Melazzo e Cartosio: per quest’ultimo si fa cenno addirittura all’esportazione, mentre per alcuni altri territori collinari a vocazione sicuramente viticola come Molare, Trisobbio e Montaldo non si fa alcun cenno alla vite (Ibidem, vol. I, pp. 333-338).

Per il cantone di Acqui, sempre nella “Statistica” elaborata da Chabrol, si osserva che “la diffusione della vigna ha comportato la scomparsa di gran quantità di boschi, cosicché attualmente il paese ne è privo”. I vini, infatti, “rappresentano la principale risorsa e sono i migliori del circondario”, anche se “la vite, quando fiorisce, soffre per le nebbie primaverili o per le piogge che cadono durante la fioritura”. Si precisa inoltre che la viticoltura non si era andata sviluppando ovunque, ma soltanto sulla riva sinistra della Bormida, essendo quelle della riva destra ripide e formate da pietre calcaree, tufo, scisti, ghiaia e quindi coperte soltanto da boschi cedui e castagneti. Un esplicito riferimento alla viticoltura viene fatto per i comuni di Bistagno, Monastero, Montabone, Terzo e Strevi (di cui si segnalano i rinomati moscati). Anche in questo cantone, per altri territori collinari a vocazione sicuramente viticola come Alice, Ricaldone e Castel Rocchero non si fa alcun cenno alla vite (Ibidem, vol. I, pp. 304-311).

Infine, con riguardo al territorio cantonale di Castelletto d’Orba lo Chabrol osserva che “le sue valli, abbastanza piacevoli e non troppo fertili, sono circondate ad est e a sud dai monti della Liguria, e sul versante opposto da colline coperte di vigneti”, dove si produce “molto vino, che in parte viene distillato quando il prezzo è troppo basso”. Ed anche con riguardo alla mobilità spaziale di beni, sempre lo Chabrol non si esime dall’osservare che “l’unica forma di commercio praticata in questa zona agricola consiste nel trasporto effettuato da mulattieri, che scambiano vini ed altro con derrate della Liguria e del Regno d’Italia. I contadini fanno a lavorare per alcuni mesi in altri dipartimenti, e tornano portando alle loro famiglie delle provviste di grano o del denaro” (Ibidem, vol. I, pp. 311-312). Nel descrivere i singoli comuni, quelli dichiarati esplicitamente come viticoli sono soltanto Castelletto d’Orba, Carpeneto e Rocca Grimalda, mentre per altri comuni collinari, a sicura vocazione viticola, come Casaleggio, Montaldeo, San Cristoforo, Tassarolo, Mornese, Tagliolo, ecc. ci si limita ad indicare la presenza di terreni abbastanza fertili e di una popolazione interamente o quasi del tutto agricola (Ibidem, vol. I, pp. 312-316).

A dimostrazione della celebrità ormai raggiunta nella prima metà dell’Ottocento dai vini dell’Alto Monferrato, ed in particolare del Dolcetto di Ovada, è sufficiente citare Carlo Porta (1775-1819), che nel poema eroicomico in dialetto meneghino Olter disgrazzi de Giovannin Bongee (1814) del poeta milanese Giovannin consiglia alla moglie, che si dichiara "indisposta", di liberarsi da quel fastidio bevendo on bon biccer de vin di Roccagrimalda. Sotto il profilo del riconoscimento scientifico in termini di livello enologico raggiunto dai vini della zona è sufficiente ricordare Giorgio Gallesio, famoso naturalista-botanico, che proprio nel periodo 1817-39 pubblicò i suoi studi pionieristici sulla "Pomona Italiana"13, affermando che «il vino che si fa col Dolcetto prende diversi caratteri, secondo la località ov'è coltivato e i metodi coi quali è fatto», aggiungendo poi che tra i vini che portano questo nome «i più stimati sono quelli di Ovada e dei suoi dintorni … In Ovada specialmente se ne fanno i depositi e le scelte, e di là si spedisce in Genova e nel Milanese».

Nella prima metà del XIX secolo la viticoltura prospera comunque non soltanto nell’Acquese e nell’Ovadese, ma anche nell’area compresa fra Gavi e Novi: infatti, con riguardo alla situazione dell’economa locale intorno a metà Ottocento nel territorio di Gavi, il Casalis osserva: “Il suolo essendo in generale pietroso non produce che in poca quantità frumento, meliga, legumi e castagne; i quali prodotti non si ragguagliano all’uopo della popolazione. Ma in compenso si fanno soprabbondanti ricolte di uve; e il vino che riesce assai buono vendesi a’ negozianti forestieri con notevole profitto del comune” (Casalis, 1833, p. 277). Lo stesso autore, riferendosi ancora al territorio compreso nella Provincia di Novi, riporta: “Nel comune di Novi evvi uno spazio detto la Frascheta, ove si coltiva la vigna con successo; ma i paesi ne’ quali sono eccellenti le uve, ed ove si scelgono sovente le migliori per far vini più squisiti son quelli del mandamento di Capriata, e più ancora di quello di Castelletto d’Orba. Il metodo di fare i vini è quivi assai conveniente, ed essi perciò riescono buonissimi. In Novi si comprano molte uve provenienti da’ vigneti che esistono fuori del territorio di questa città; e gli abitanti mescolandole con quelle del proprio distretto, fanno un vino che smerciasi facilmente in Lombardia (Ibidem, p. 592). Ed anche per l’Ovadese, sempre il Casalis non si esime dal sottolineare che le campagne di quel territorio “presentano molti vigneti”, per cui “il principale dei prodotti ne è quello delle uve: i vini, che vi si fanno con la richiesta diligenza, e si lasciano alquanto invecchiare, pareggiano i vini più squisiti e generosi della Francia” (Ibidem, p. 721).

Come è possibile dedurre dall’Annuario pubblicato dalla Provincia di Alessandria nel 1865 (pp. 93-94), l’Alessandrino ebbe la fortuna di essere risparmiato dall’infestazione dell’Oidium (1845), che invece aveva flagellato tante altre province e in particolare il Biellese. Ciò aveva fatto crescere improvvisamente il prezzo del vino”, determinando così nelle aree rimaste indenni un’espansione della viticoltura fino a raggiungere dimensioni tali da trasformarla nell’elemento trainante di tutta l’economia agraria locale, anche perché sostenuta dalla vivace attività di studio, di impronta illuministica, che la Rivoluzione francese aveva favorito e che Napoleone aveva trasferito in Italia attraverso la diffusione di nuovi sistemi di coltivazione e di più moderne tecniche ampelografiche. Durante la seconda metà del XIX secolo la viticoltura registra pertanto un’ulteriore fase espansiva, in quanto l’aumento dei prezzi dell’uva e del vino incoraggia in quegli anni i contadini a trasformare in vigneti i terreni adibiti a pascolo, seminativi (soprattutto il granoturco, a causa della saturazione del mercato mondiale) e a gelsi, questi ultimi divenuti sempre meno redditizi per la crisi inarrestabile registrata dall’industria serica. E tale fenomeno si manifesta in prevalenza nelle zone collinari, dove le aziende di piccole e medie dimensioni sono quelle che meglio si addicono al miglioramento dei metodi di coltivazione e vinificazione; di conseguenza, per aumentare le rese per ettaro, si assiste ad una forte contrazione della coltura promiscua e ad un forte aumento di quella specializzata, manifestando quindi una tendenza del tutto opposta a quella già evidenziata nella seconda metà del Settecento, periodo che invece era stato caratterizzato da una forte espansione degli alteni (Rocca, 1984, pp. 39-40).

L’espansione della viticoltura manifestatasi negli ultimi decenni dell’Ottocento e soprattutto nelle aree collinari, dominate sempre più dalla piccola proprietà contadina, è comunque da mettere in relazione con il parallelo incremento demografico avvenuto in quegli anni, che a sua volta aveva favorito il formarsi di una maggiore disponibilità di manodopera, che, in mancanza di alternative più vantaggiose, se non quella di emigrare verso le Americhe, attraverso un graduale ed assiduo lavoro aveva trasformato in vigneti i terreni fino allora destinati a pascolo e bosco. I modesti guadagni derivanti dalla viticoltura erano integrati da quelli della bachicoltura e della frutticoltura praticabili in coltura promiscua, associando i vitigni e gli alberi da frutta a cereali e legumi, attività per le quali non era necessaria una particolare dotazione di attrezzature e di capitali o una radicale trasformazione delle tecniche agrarie (Demicheli, 2005, pp. 76-77).

Una fonte assai utile per conoscere le qualità di uve prodotte, nonché le tecniche di vinificazione e l’importanza rivestita nelle diverse zone dell’area oggetto di studio, è costituita dal saggio di Pietro Paolo Demaria e Carlo Leardi, pubblicato nel 1875. Nel Novese, ove si produce “una certa quantità di vini da pasto colle uve bianche, questi si fanno in due modi: o mettendo a fermentare il mosto con buccie e graspi, come pei vini rossi, ed ottiensene un vino color giallo d’ambra; ovvero spremendo allo strettoio tutto il mosto liquido che si fa fermentare da solo nelle botti. Il vino fatto in quest’ultimo modo riesce limpidissimo più che acqua, da cui lo distingue una delicatissima e tenuissima tinta paglierina, ed è più leggiero, sottile e diffusivo, ma meno sapido. È tuttavia assai pregiato in Genova, e da alcuni consumatori anche in Milano (Demaria e Leardi, 1875, p. 72)14. Passando poi a considerare i tipi di vitigni, tra quelli buoni il Demaria cita il Moretto, precisando che nel Novese “tale vitigno è da lungo tempo ed in larghe proporzioni coltivato, formandovi una delle basi principali dei vini comuni ed ordinari ….. . Da qualche tempo la sua coltivazione tende a restringersi” (Ibidem, p. 107). Con particolare riguardo al Cortese bianco, nel saggio si legge: “E’ il vitigno ad uve bianche più estesamente coltivato e lo si incontra egualmente nei vigneti dell’Alessandrino, del Tortonese e del Novese, quanto dell’Astigiano e dell’alto e basso Monferrato. … Vi è indigeno, da lungo tempo conosciuto e coltivato, alla rinfusa però e misto ad altri vitigni. Oltre alla robustezza e fecondità sua, lo rende pregevole la bontà e la squisitezza del suo prodotto” (Ibidem, p. 245). Con riguardo al Dolcetto, denominato a quel tempo nel Novese e nel Tortonese anche impropriamente Nebbiolo, gli stessi autori osservano: “Nella linea dei colli, che dalle regioni circostanti ad Ovada si protende fin presso Nizza di Monferrato, il suo prodotto raggiunge maggior perfezione e se ne ottengono non solo vini da pasto, ma eziando fini” (Ibidem, p. 139). Non a caso, infatti, anche con riguardo al solo territorio acquese, uno studioso locale osserva che nel 1878 la vitivinicoltura locale è in grado di alimentare un’esportazione annua di vino stimabile intorno ai 30-35 mila ettolitri, rammentando anche che in quegli anni “gli unici che mantengono un po’ di vita nei traffici coi prodotti del nostro territorio, sono i negozianti di vino” e alcuni produttori di vermouth (Lavezzari, 1888, pp. 301-302)15.

Notizie ancor più precise sulla distribuzione spaziale del vigneto nell’Oltregiogo, analizzata soprattutto in termini di qualità di uve prodotte, emergono da una relazione, frutto di una vera e propria indagine condotta in modo accurato nel 1879 sul territorio dall’avvocato Giuliano Tamburelli su incarico della Giunta comunale di Novi, interessata a conoscere le reali condizioni in cui versava la campagna del circondario, per predisporre eventuali interventi volti a migliorare le tecniche di conduzione e i rendimenti produttivi. Da questo studio, reso noto soltanto recentemente da uno studioso locale, emerge che a quell’epoca nel Novese la vite costituiva la principale risorsa agricola locale, essendosi ormai diffusa “al piano, al colle e al monte”, dove risultava abbastanza differenziata nelle qualità coltivate: nella relazione del Tamburelli, infatti, si legge: “Le varietà di essa sono, nei Mandamenti di Ovada, Castelletto e Gavi, il Nebbiolo (Dolcetto), nella massima parte, per i nove decimi del territorio, e per l’altro decimo, Timorasso e Cortese; questi sono i vini migliori per cui i terreni vitiferi hanno valore doppio. Nei Mandamenti di Gavi, Serravalle e Novi, la metà della produzione è rappresentata dal Nebbiolo e l’altra metà dall’Arzese, dal Paterasso e dal Cortese” (Castiglioni, 1997, p. 96)

Sempre dalla relazione del Tamburelli emergono interessanti notizie sulle procedure seguite per la vinificazione delle uve, differenti non soltanto a seconda che il vino fosse rosso o bianco, ma anche da zona a zona. Più in particolare, per il vino rosso, che come si è visto, era quello maggiormente prodotto, la pigiatura si eseguiva “a piè nudo d’uomini, in modo non sempre lodevole per precisione e nettezza”. Nei mandamenti di Ovada, Castelletto, Capriata, fino a sconfinare in parte di quello di Gavi, dove già allora si produceva il vino migliore e più abbondante, si adottava però una procedura diversa16 rispetto alle altre parti del circondario, comprendenti l’agro novese e i territori gravitanti intorno a Pozzolo, Cassano, Serravalle, Pasturana, Tassarolo e la restante parte di quello di Gavi17. Per il vino bianco, essenzialmente Cortese, il processo produttivo era poi del tutto differente dalle tecniche seguite per i vini rossi18, ma lo smercio di entrambi si faceva specialmente con Genova ed anche con Milano negli anni in cui scarseggiava il vino proveniente dalla zona di Valpolicella .

Il Tamburelli stima la produzione vinicola nel circondario di Novi, coincidente grosso modo a quell’epoca con l’Oltregiogo, su livelli annui oscillanti tra i 250 e i 300 mila ettolitri, di cui circa 150 mila destinati all’esportazione. Inoltre, mette in luce come assai diffusa fosse la pratica del “taglio” dei vini e l’uso di produrre anche il “vinello”: infatti, con riguardo ai vini “tagliati”, nella relazione si legge: “Talvolta gli speculatori vanno a prendere le uve fuori del Circondario, specialmente in quel d’Acqui. Il vino rosso dei Mandamenti di Ovada, Castelletto e Capriata è quasi tutto ritirato dai negozianti milanesi che lo ricercano per fare miscele con altri vini più leggeri. La sproporzione del vino nero rispetto al bianco sta come 9 a 1, ed anche parte di quest’ultimo si mescola all’altro. Pochi vini di lusso si fabbricano nel circondario e specialmente nei comuni di Ovada, Lerma, Tagliolo e Capriata, dove riescono squisiti” (Castiglioni, 1997, p. 89). A proposito del cosiddetto “vinello”, il Tamburelli osserva: “Gran parte dei residui del torchio si utilizzano nella preparazione dei vinelli immergendoli totalmente nell’acqua. Talvolta riescono gustosi, ma sempre di poca durata e si usano nella famiglie per pasteggiare. Alcuni, però, svinandoli più presto, li fan passare su nuovi graspi migliorandone così il sapore e il colorito, oltre ad allungarne la conservazione. ….. La speculazione si fa più nei centri di maggior popolazione, meno nella campagna” (Ibidem, p. 90).

Nel 1883, a soli quattro anni di distanza dalla relazione del Tamburelli, alcuni accenni all’area oggetto di studio vengono fatti da Francesco Meardi, deputato piemontese al Parlamento e componente della commissione preposta all’Inchiesta Jacini. Nella sua corposa relazione, riferita all’intero contesto spaziale piemontese, all’Oltrepo pavese e al Piacentino, infatti, il Meardi, dopo aver osservato che i vigneti più floridi prosperano sulle colline dei mandamenti di Capriata, Castelletto d’Orba, Ovada e Gavi (Meardi, 1883, p. 33), accenna allo sviluppo registrato in quell’epoca dalla vitivinicoltura, mettendola in stretta relazione con la parallela crisi dell’industria serica (Ibidem, p. 52). Si legge inoltre che “nel circondario di Novi le condizioni dei contadini si sono specialmente migliorate per effetto della maggiore estensione data alle viti” (Ibidem, p. 84), osservando che, a differenza di altre aree piemontesi, ma similmente alle usanze in atto nel circondario di Tortona, i filari “sono sostenuti da ceppi a 6 ed 8 gambi, mentre la potatura avviene a tralcio lungo” (Ibidem, p. 93), originando un paesaggio agrario dominato da una viticoltura che in quegli anni è ancora prevalentemente promiscua e che nelle zone collinari è legata al sistema della rotazione delle colture, nel senso che “al colle, tra le viti suolsi sostituire al mais, legumi, patate, lupini, lupinelle e altre piante foraggere e da sovescio” (Ibidem, p. 223). Nel circondario di Novi “prevalgono i proprietari che dirigono e amministrano personalmente i loro poderi e li fanno coltivare da operai permanenti sul fondo, detti bifolchi, e nelle epoche dei forti lavori ricorrono ad operai avventizi. L’affitto è di minore importanza” (Ibidem, p. 575). Il Meardi non accenna invece alla mezzadria, tipica ovunque ed in particolare nell’Acquese.

Per concludere, nel corso dell’Ottocento le trasformazioni intervenute nel paesaggio agrario sono contrassegnate da due aspetti tra loro correlati: da un lato, pur associata ad una presenza ancora forte della mezzadria, la forte espansione della piccola proprietà contadina (Rapetti, 1984, p. 85 e ss.) e dall’altro il notevole sviluppo mostrato dalla coltivazione della vite, divenuta poco alla volta la coltura nettamente predominante su tutte le altre e quindi tale da attribuire al territorio una sua connotazione specifica. Nello stesso secolo l’Ovadese si viene a proporre come zona produttrice quasi esclusiva di un unico tipo di uva e di vino, il dolcetto, la cui commercializzazione in direzione di Genova era stata favorita nel 1881 dall’entrata in funzione della tramvia Ovada-Novi Ligure, a sua volta collegata alla ferrovia Torino-Genova entrata in funzione al momento dell’Unità d’Italia e nel 1894 dalla ferrovia Genova-Ovada-Acqui-Asti (Subbrero, 1986, p. 4 e 1988, p. 39). Non a caso, sempre in quegli anni Ovada si trasforma definitivamente da borgo agricolo a centro commerciale (Subbrero, 1987, pp. 13-15).

Il Novecento

Ad inizio Novecento, nonostante il notevole ritardo e le dimensioni più ridotte del fenomeno rispetto a Novi, anche ad Ovada inizia un processo di industrializzazione, che però non viene a causare forte ricadute sul paesaggio: non a caso, come ribadisce l’autore di una guida dell’Alto Monferrato dell’epoca, il territorio comunale è ancora percepito come un’area che sorge “al cofluente dello Stura nell’Orba, nel bel mezzo di una ricca e pittoresca valle, coronata di castelli, di ville e di vigneti fiorenti” (Rossi, 1908, p. 15), così come a proposito di Tagliolo lo stesso autore osserva: “ … la via che vi conduce, partendo dallo stradale di Novi , sale e s’aggira fra ridenti colline, ricche di vigneti e piani ubertosi …” (Ibidem, p. 95).

Agli inizi del XX le zone dell’Alto Monferrato, soprattutto quelle collinari, sono ancora dominate da un’economia agraria dominata dalla viticoltura. Com’è noto, però, in Italia, proprio da Valmadonna, tra Alessandria e Valenza, la fillossera incomincia a propagarsi tra il 1897 e il 1898, per estendersi dal Basso Monferrato alle Langhe e al resto del Cuneese (Castronovo, 1977, p. 232) e nel corso del primo decennio del Novecento anche a tutti i terreni dell’Alto Monferrato. Inizia così quel periodo di forte crisi, caratterizzato dalla drastica riduzione delle superfici a vigneto, soprattutto nelle aree di pianura e in quelle collinari incentrate sulla coltura promiscua. Nei restanti terreni, invece, soprattutto quelli a particolare vocazione viticola, prende l’avvio un veloce processo di ricostituzione dei vigneti su piede americano, fenomeno che comporta un radicale sconvolgimenti dei sistemi e degli indirizzi tradizionali, nonché il graduale, ma veloce passaggio da una viticoltura di tipo promiscuo ad una di tipo specializzato. Nonostante ciò, nel Novese la disorganizzazione commerciale si ripercuote in acutissime crisi, sia di abbondanza che di scarsità, e tutto ciò in netto contrasto con i livelli sempre eccedenti il fabbisogno che si erano manifestati nel secolo precedente.

Nel 1911, come risulta dalla “Guida Vinicola” edita a Casale Monferrato, similmente a quanto accade ancor oggi, i vitigni maggiormente coltivati nel Circondario di Novi erano il “dolcetto” e soprattutto il “cortese”; di quest’ultimo la località già allora più rinomata era quella di Gavi, che produceva non meno di 20-30 mila ettolitri. Il “dolcetto”, invece, occupava per estensione il primo posto nel Circondario di Ovada, dove rappresentava i 9/10 della produzione complessiva. Una posizione secondaria nel contesto dell’intero Oltregiogo occupavano i vitigni destinati alla produzione del “timorasso” o “morasso”, che dava un vino bianco asciutto e il “moretto”, dal sapore rustico e alquanto asprigno. Infine, a Tagliolo, nelle aree vitate di proprietà del marchese Giuseppe Pinelli Gentile, non mancavano coltivazioni di “sauvignon”, “cabernet”, “riesling” e “pinot” (bianco e nero). Sempre a quell’epoca, se da un lato il cortese, oltre ad essere molto richiesto nel Genovesato, era esportato in Svizzera, così come era molto richiesto dai produttori di vermouth, come si può dedurre dalla vitalità produttiva e commerciale legata al vino in alcuni particolari comuni (Tab. 1), dall’altro però, con riguardo al circondario di Novi si lamentava l’esistenza di una sola Cantina Sociale, che denotava forti carenze in termini di solidarietà e di cooperazione, aggravate da una completa disorganizzazione commerciale tra i produttori, i cui effetti risultavano fortemente critici sia negli anni di raccolto abbondante, sia in quelli di produzione scarsa.

Nel secondo e terzo decennio del Novecento la superficie vitata si riduce drasticamente e in comuni collinari come San Cristoforo, Capriata d’Orba, Mornese, Montaldeo, ecc. si registrano punte superiori al 60-70%. Nei decenni successivi la viticoltura appare inoltre sempre più condizionata dalla frammentazione e dalla dispersione delle proprietà, essendo ancora legata a vecchi e inadeguati schemi produttivi, a causa degli scarsi investimenti destinati alle operazione di concimazione e soprattutto all’introduzione di mezzi meccanici, che invece avrebbero consentito una notevole riduzione dei costi di produzione, così come ancora mancava quell’organizzazione tecnica e commerciale necessaria per garantire una maggiore qualificazione e promozione del vino sui mercati (Demicheli, 2005, p. 66). Negli anni successivi e soprattutto tra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta, invece, in seguito ad un sempre più intenso processo di industrializzazione e di urbanizzazione, si avvertono forti decrementi demografici in tutti i comuni montani e in quasi tutti quelli collinari, per il forte richiamo esercitato non soltanto da Torino, Milano e Genova, allora vertici del Triangolo industriale, ma anche dai poli locali di Novi, Acqui ed Ovada (Rocca. 1984, pp. 89-90). In conseguenza di ciò la coltura promiscua tende a scomparire quasi del tutto e a partire dagli anni Sessanta anche quella specializzata. E questo spiega anche come nel 1970 la superficie vitata, confrontata con quella riferita al 1929, si sia ridotta del 31,5% nell’Ovadese e addirittura del 49,7% nel Novese. Non a caso, già a fine anni Sessanta Dino Gribaudi osservava che per comprendere le cause della diminuzione di superficie investita a vite non occorreva “fare un lungo discorso per darsene una ragione”, in quanto trattandosi di “coltura estremamente impegnativa ed attiva, quella della vite è la prima a soffrire della fuga di forze giovani dalle campagne, attratte dalle industrie della non lontana città”. Lo studioso torinese, sempre con riferimento alla situazione piemontese negli anni del “miracolo economico”, non esitava poi a precisare: “spesso i giovani vignaioli del luogo, portati ad inurbarsi, sono sostituiti da immigrati veneti o meridionali, cui fanno difetto le pratiche tradizionali e l’attaccamento alla terra” (Gribaudi, 1971, p. 111).

Sotto il profilo produttivo e della commercializzazione nell’Oltregiogo ci si trova di fronte ad un mercato vinicolo locale che si basa su strutture prevalentemente privatistiche, siano esse singolo o associate, con una scarsa presenza di “cantine sociali”. Infatti, mentre nel resto dell’Alessandrino non sono mancati esempi di costituzione, soprattutto nel corso degli anni Cinquanta, di “cantine sociali” a Tortona, Acqui, Rosignano, Lu, Ricaldone, Rivalta Bormida, Montaldo, Cassine, nell’Oltregiogo il caso più rilevante è forse quello della “Cantina Sociale Produttori del Gavi”, fondata nel 1951 da 83 soci, aumentati fortemente nel corso degli anni Sessanta e Settanta, fino a diventare 276 agli inizi degli anni Ottanta. E tale affermazione è stata sicuramente favorita dai mutamenti intervenuti nella domanda nazionale, un tempo orientata al consumo di vini rossi ed a partire da quegli anni sempre più sensibilizzata verso l’uso di vini bianchi. Non a caso, sempre a partire dagli anni Ottanta le vendite del “Cortese di Gavi”, oltre a coinvolgere il Piemonte, la Liguria e la Lombardia, incominciano ad affermarsi anche in altre regioni italiane ed in particolare nel Lazio, mentre tra i paesi stranieri dominano incontrastati gli Stati Uniti d’America (Rocca, 1984, p. 95).

La superficie vitata ha continuato a ridursi anche negli anni Settanta e Ottanta, eccezion fatta per la zone produttici di vini bianchi dolci di alto pregio, come il moscato spumante nei comuni di Alice Bel Colle e Ricaldone, oppure di vini bianchi secchi come il cortese nella zona gravitante su Gavi e comprendente anche i territori di Novi, Tassarolo, Francavilla Bisio e Carrosio. L’area coltivata a “Cortese di Gavi” evidenzia infatti una posizione sempre di maggior spicco, con una superficie vitata in forte aumento e in netta controtendenza rispetto a quella coltivata a “Dolcetto di Ovada”, la cui superficie si è invece andata riducendo drasticamente. L’unica zona produttrice di vini rossi caratterizzata da una relativa crescita della superficie vitata è quella specializzata nella produzione di Brachetto d’Acqui, che ha registrato incrementi nei territori di Alice Bel Colle, Ricaldone e Terzo d’Acqui (Tab. 2). Per entrambi gli areali si è assistito invece ad una forte contrazione del numero delle aziende, nella maggior parte di piccole dimensioni e quindi antieconomiche sotto il profilo della competitività di mercato: tale contrazione, assai marcata nel caso delle aziende specializzate nella produzione del “Cortese di Gavi”, ha però permesso di innalzare le dimensioni medie, con evidenti vantaggi in termini di economie di scala (Tab. 3-5).

La viticoltura nell'Acquese, zona del Brachetto

La viticoltura nell'Acquese, zona del Brachetto

La viticoltura nei pressi di Alice Bel Colle (Acquese), zona del Brachetto e del Moscato

La viticoltura nei pressi di Alice Bel Colle (Acquese), zona del Brachetto e del Moscato

La viticoltura nei pressi di Ricaldone (Acquese), zona del Brachetto e del Moscato

La viticoltura nei pressi di Ricaldone (Acquese), zona del Brachetto e del Moscato

La viticoltura nella zona del Cortese (nei pressi di Gavi)

La viticoltura nella zona del Cortese (nei pressi di Gavi)

La viticoltura nella zona del Cortese (nei pressi di Novi)

La viticoltura nella zona del Cortese (nei pressi di Novi)

Le prospettive per uno sviluppo turistico sostenibile

Il futuro dell’Alto Monferrato è strettamente legato alle opportunità offerte da un turismo proiettato sulla rivalutazione dell’ambiente collinare, dotato di notevoli risorse ecologiche e storico-culturali, spesso rimaste ad uno stato potenziale. In tale contesto geografico, infatti, il paesaggio legato all’ambiente naturale e alle modificazioni apportate dall’uomo, come nel caso della viticoltura e dei beni culturali che ne spiegano le vicende nel corso della storia, può costituire il motore di valorizzazione sostenibile di quelle zone divenute sempre più marginali, anche se dotate di borghi e manieri medievali di notevole richiamo turistico-culturale, come quelli presenti nell’Acquese e nella fascia compresa fra Ovada e Gavi, molti dei quali oggi sono spesso percepiti dal visitatore esterno come luoghi e spazi dell’oblio.

Nelle aree in cui la vitivinicoltura si è andata recentemente sviluppando si osserva anche un forte sviluppo dell’offerta ricettiva extra-alberghiera, similmente a quanto è accaduto nelle Langhe, poiché sono in grado di offrire un paesaggio esteticamente piacevole e riposante, quindi del tutto rispondente alle esigenze del turista alla ricerca di periodi di benessere psicofisico e interessato alla conoscenza della cultura locale attraverso esperienze di vita a diretto contatto con la popolazione dei luoghi visitati. In questa ottica di pensiero si spiega forse il motivo per cui in questi ultimi anni la capacità ricettiva sia andata diffondendosi soprattutto nei territori a vocazione rurale. Infatti, nel solo periodo 2005-13, gli esercizi di agriturismo sono raddoppiati da 38 a 76, di cui oltre la metà concentrati nell’Acquese (Acqui e nei vicini territori di Ponti, Carpeneto, Montaldo e Cassine), anche a causa del richiamo turistico-termale di Acqui, mentre la restante parte risulta equamente distibuita nell’Ovadese (Ovada e Rocca Grimalda) e nel Novese (Novi e Gavi). A loro volta, le strutture di Bed & Breakfast sono oltre settanta e la loro distribuzione spaziale rispecchia da vicino quella degli agriturismi con la posizione dominante di Acqui, principale polo di richiamo turistico di tutto l’Alessandrino (Tab. 6).

Nel periodo 2008-12 il comparto alberghiero, se da un lato le tre zone altomonferrine hanno sviluppato l’attrazione turistica in termini di flussi di arrivi, dall’altro le presenze hanno registrato una crescita nell’Ovadese e nel Novese, mentre nell’Acquese si è manifestato un calo di oltre il 10% (Tab. 7). Nel caso delle strutture ricettive extra-alberghiere, invece si è assistito ad una vera e propria “esplosione” del comparto, dal momento che, sempre nello stesso periodo periodo gli arrivi sono quasi raddoppiati (+96%) e le presenze addirittura più che raddoppiate (+117,7%), con tassi leggermente più elevati nel Novese rispetto all’Oltregiogo Novese (Tab. 8).

In questi ultimi anni lo sviluppo della capacità ricettiva è stato sostenuto da un parallelo sviluppo del movimento turistico, soprattutto nelle strutture ricettive extra-alberghiere, dove gli arrivi sono quasi raddoppiati (+96%) e le presenze addirittura più che raddoppiate (+117,7%), con tassi leggermente più elevati nel Novese rispetto all’Oltregiogo Novese (Tabb. 13-14). Dalla somministrazione di un questionario ad un campione sufficientemente strutturato di testimoni privilegiati, rappresentati da operatori attivi nei comparti alberghiero, extra-alberghiero e complementare è emerso un parere positivo unanime nei riguardi delle risorse ecologiche e storico-culturali offerte dal territorio locale, che dispone di tutte le caratteristiche di fondo per aspirare ad un ulteriore sviluppo dell’attività turistica, anche perché favorito da buone condizioni di accessibilità, essendo servito da direttrici stradali e autostradali in grado di collegarlo rapidamente con i principali poli urbani del Nord-Ovest e del resto d’Italia, nonché con gli aeroporti di Milano, Torino e Genova. Se si esclude l’uso dell’automobile, però, l’accessibilità con altri mezzi di trasporto costituisce certamente un notevole punto di debolezza, aggravato dalla presenza di una modesta segnaletica dei luoghi di interesse turistico e dalla mancanza o quasi di strutture locali di accoglienza e informazione turistica, così come altrettanto carente si presenta la fruibilità dell’offerta museale, soprattutto con riguardo ai castelli, ai palazzi, alle ville-fortezza, alle ville-fattoria, agli edifici religiosi di notevole valore architettonico ed artistico. Anche gli interventi pubblici, se si escludono gli agriturismi che godono di agevolazioni finanziarie e fiscali, sono stati finora pressoché inesistenti, mentre per innescare un circolo virtuoso di sviluppo turistico sostenibile di questa realtà locale sarebbe necessario innanzitutto provvedere alla promozione del territorio, attraverso la creazione di un “marchio turistico di qualità” in grado di attestare e garantire l’immagine di un territorio capace realmente di offrire periodi di vacanza all’insegna del benessere psicofisico e della conoscenza delle culture locali attraverso esperienza di vita con la popolazione del luogo. E per il decollo di un processo di sviluppo turistico locale, riguardante ad esempio quell’area dell’Oltregiogo Ovadese e Novese il cui paesaggio appare dominato dalla coltura della vite, gli attori pubblici e privati locali, anziché esasperare i campanilismi e la concorrenzialità che ancor oggi esiste tra i vari comuni ed anche tra le due subaree, dovrebbero anzitutto, senza perdere ulteriore tempo, consorziarsi per dar luogo, anche sul piano giuridico, ad un vero e proprio “Sistema Turistico Locale”, organismo indispensabile per procedere alla progettualità di linee di sviluppo locale integrato!

Tab. 1 – Indicatori di “vitalità” vitivinicola in alcuni comuni dell’Alto Monferrato nel 1911* superficie vitata rapportata all’intera superficie comunaleD =Dolcetto; Ms = Moscato dolce; C = Cortese; B = Barbera; N = Nerello; M= Moretto; L = Lambrusca.

Tab. 1 – Indicatori di “vitalità” vitivinicola in alcuni comuni dell’Alto Monferrato nel 1911
* superficie vitata rapportata all’intera superficie comunale
D =Dolcetto; Ms = Moscato dolce; C = Cortese; B = Barbera; N = Nerello; M= Moretto; L = Lambrusca.

(Elaborazione dell’autore su dati dedotti dalla “Guida Vinicola della Provincia di Alessandria”, Casale Monferrato, 1911)

Tab. 2 – Distribuzione spaziale della superficie vitata nell’Alto Monferrato (1970-2010)

Tab. 2 – Distribuzione spaziale della superficie vitata nell’Alto Monferrato (1970-2010)

(Elaborazione dell’autore su dati Cens. Agricoltura 1970, 1982 e 2000)

Tab. 3 – La superficie occupata dai vitigni tipici dell’Alto Monferrato e variazioni nel periodo 1975-2010* La superficie si riferisce all’Alto e Basso Monferrato della provincia di Alessandria(°) Disciplinare non ancora attivato nel 1975

Tab. 3 – La superficie occupata dai vitigni tipici dell’Alto Monferrato e variazioni nel periodo 1975-2010
* La superficie si riferisce all’Alto e Basso Monferrato della provincia di Alessandria
(°) Disciplinare non ancora attivato nel 1975

(Fonte: elaborazione dell’autore su dati desunti da CCIAA Alessandria, Albo Vigneti)

Tab. 4 – Le aziende viticole nell’Alto Monferrato e variazioni nel periodo 1975-2010* La superficie si riferisce all’Alto e Basso Monferrato della provincia di Alessandria(°) Disciplinare non ancora in attivazione

Tab. 4 – Le aziende viticole nell’Alto Monferrato e variazioni nel periodo 1975-2010
* La superficie si riferisce all’Alto e Basso Monferrato della provincia di Alessandria
(°) Disciplinare non ancora in attivazione

(Fonte: elaborazione dell’autore su dati desunti da CCIAA Alessandria, Albo Vigneti)

Tab. 5 – Dimensioni medie delle aziende viticole nell’Alto Monferrato e variazioni nel periodo 1975-2010* La superficie si riferisce all’Alto e Basso Monferrato della provincia di Alessandria(°) Disciplinare non ancora in attivazione

Tab. 5 – Dimensioni medie delle aziende viticole nell’Alto Monferrato e variazioni nel periodo 1975-2010
* La superficie si riferisce all’Alto e Basso Monferrato della provincia di Alessandria
(°) Disciplinare non ancora in attivazione

(Fonte: elaborazione dell’autore su dati desunti da CCIAA Alessandria, Albo Vigneti)

Tab. 6 – Distribuzione spaziale degli agriturismi (2005 e 2013) e dei B&B (2013)

Tab. 6 – Distribuzione spaziale degli agriturismi (2005 e 2013) e dei B&B (2013)

(Elaborazione dell’autore su dati desunti da Statistiche provinciali)

Tab. 7 – La dinamica del movimento turistico alberghiero nel periodo 2008-12.

Tab. 7 – La dinamica del movimento turistico alberghiero nel periodo 2008-12.

(Elaborazione dell’autore su dati Regione Piemonte, Osservatorio Turistico)

Tab. 8 – La dinamica del movimento turistico extra-alberghiero nel periodo 2008-12.

Tab. 8 – La dinamica del movimento turistico extra-alberghiero nel periodo 2008-12.

(Elaborazione dell’autore su dati Regione Piemonte, Osservatorio Turistico)

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Notes

1 L’origine del toponimo “Monferrato” è collocabile nel tempo intorno al X secolo, quando la maggior parte del territorio, a partire dal 967 viene a dipendere dalla dinastia aleramica, quindi dal 1306 al 1533 a quella paleologa, poi ai Gonzaga dal 1536 al 1627 ed infine ai Gonzaga-Nevers dal 1631 al 1708 (Ferraris – Maestri, 2011; Maestri, 2008), seguendo uno sviluppo territoriale quasi immediato a S (Basso Monferrato) verso N (Alto Monferrato (Pistarino, 1997, p. XXIII). Le origini del significato, invece, restano tuttora incerte e discusse: le ipotesi avanzate, infatti, sono molte, ma quelle maggiormente condivise dagli storici sembrano far derivare il toponimo dai termini originari Mons ferax (monte fertile e ricco), oppure Mons ferrugutus, per il colore ferruginoso della terra delle sue colline dopo l’aratura dei campi, o ancora Mons ferradensis o ferrodensus, con le sue terre dense di ferro, oppure con un richiamo al ferré, ossia la misura usata per i foraggi destinati al bestiame nel medioevo (Pistarino, 1997, p. XX; vedi anche Pistarino, 2000, p. 8). Recentemente, però il toponimo Mons ferax (fertile) è ritenuto improbabile, poiché l’aggettivo ferax si è evoluto nell’italiano “ferace” e non in “ferrato”, così come poco probabile anche ferrugutus o ferratus (ferrugginoso), poiché i terreni ferruginosi (color ruggine) sono designati quasi sempre con il riferimento alla colorazione stessa (Monterosso, Terra Rossa, ecc.). Risulterebbe invece attendibile il riferimento al farro, cereale assai coltivato in epoca medievale, oppure alla presenza di croci ferree quali indicazioni confinarie (Chiarlo, 2013, pp. 295-296 e p. 314). Retour au texte

2 Come ha osservato Aldo Settia (1975, pp. 544-545), la denominazione Monferrato, applicata tra la fine del X secolo e nel corso di quello successivo ad una minuscola area attorno a Bassignana, lungo il Po e a cavallo del Tanaro, si diffuse lentamento verso ovest affermandosi sul finire dell’XI secolo, soprattutto nella regione collinare compresa tra Casale e Asti, e dal XIII secolo fuori del marchesato, con capoluogo Casale, i cui possessi marchionali, soprattutto nel corso del Cinquecento e nel primo Seicento, si erano andati estendendo sia nella pianura a sinistra del Po, sia nella zona collinare a destra del Tanaro, lungo le valli percorse dai suoi affluenti, comprese quelle dell’attuale Langa. Nel 1631, con l’unione di una prima parte dell’antico organismo politico autonomo al ducato di Savoia, viene a cadere la denominazione di Monferrato per i luoghi che vi appartenevano, ubicati a nord del Po, così come quelli della collina torinese e dell’Albese ubicati a sud del corso padano. Da questo momento, però, la parte rimasta sottomessa al ducato di Mantova, viene suddivisa in due “Monferrati”, uno che fa capo a Casale e l’altro ad Acqui, designati rispettivamente come “superiore” e “inferiore” sulla base di una visione cronospaziale, che contrapponeva la parte storicamente più antica a quella più recente di un’unica realtà politico-amministrativa. La distinzione tra “Basso” e “Alto” Monferrato, basata sull’applicazione del fattore altimetrico, in analogia col criterio che da molto tempo vige per le Langhe, distinte almeno a partire dal Seicento, in “Basse” (quelle collinari, che a sud della città, gravitano su Alba) e “Alte” (quelle più montane gravitanti su Cortemilia) vede invece le sue origini nel periodo 1723-49, momento in cui il Ducato del Monferrato risulta suddiviso nelle province di Casale (Basso Monferrato) e di Acqui (Alto Monferrato) (Ibidem, pp. 540-541). A partire dagli anni Settanta del Novecento, alcuni storici ed in particolare Geo Pistarino, ai tradizionali aggettivi “Basso” e “Alto”, hanno preferito sostituire gli aggettivi “settentrionale” e “meridionale”, scelta fatta per non generare confusione nelle aggettivazioni dal significato apparentemente capovolto nel corso del tempo, soprattutto nei lettori poco esperti a questioni monferrine ed abituati a consultare le carte geografiche orientate con il nord in alto (Testa, 1996; si veda anche Settia, 2004). Retour au texte

3 Nella “Geografia” di Strabone (IV, 6, 2) il capoluogo ligure viene ricordato come importante emporio commerciale, in considerazione delle comunicazioni relativamente facili tra la Liguria e l’immediato entroterra padano (Gribaudi, 1928, p. 264) e a dimostrare che dall’area conosciuta poi come Alto Monferrato si esportassero già in epoca romana vini verso Genova si hanno alcuni rinvenimenti, soprattutto nell’Acquese, di vasi vinari (Reggio, 1933, p. 526; Dalmasso, 1937, vol. III, p. 350). Inoltre, secondo uno studioso di storia acquese, la vitivinicoltura e il commercio dei vini, come il dolcetto di Ricaldone e il moscatello di Strevi, già in epoca romana avrebbe rivestito una posizione di primo piano nella Regio IX. In mancanza di fonti dirette in grado di attestarlo, cita la Historia Naturalis (libro 14, capo VI), in cui Plinio afferma che “i vini della Liguria portavano il vanto dei Genovesi”, ma rammentando che il territorio di Genova non è mai stato ricco di vini di qualche pregio, per cui si può ritenere che “i Liguri Statellati [così come altre comunità liguri dell’immediato entroterra padano] erano di quelli che somministravano ai Genovesi quel prezioso dolce-piccante liquore, ond’è rallegrato il cuor dell’uomo, e questi poi dai loro porti gli smaltissero per ogni parte d’Italia” (Biorci, 1818, p. 50). Retour au texte

4 In quegli anni, infatti, sorgono numerosi centri monastici, collegati in rete e dominati dall’Abbazia benedettina di Cluny (Borgogna, nei pressi di Macon), in grado di esercitare una straordinaria autorità morale sulla cristianità. Tra i monasteri più importanti si possono ricordare le abbazie di Gorze (nei pressi di Metz), San Vittore (Marsiglia), Sant’Emmeram (Ratisbona), San Massimino (Treviri) ed in Lombardia il monastero fondato a Pavia nel 967 dal giudice Gaidolfo, offrendolo in dono a S. Maiolo, abate di Cluny. Sotto la guida di questo abate, il monastero divenne il principale centro di diffusione della riforma cluniacense in Lombardia, raggiungendo il suo periodo di più grande splendore nel secolo XII. Da quel momento inizierà la sua decadenza: nel 1380 l’istituzione religiosa sarà declassata a “commenda” fino ad essere soppressa nel 1564 e dopo alcuni anni data in concessione all’Ordine Somasco, che per due secoli diventerà sede della curia generalizia. Recentemente restaurato, il monastero è oggi sede del locale Archivio di Stato (Casagrande Mazzoli, 1967). Ai margini dell’Alto Monferrato, invece, a fine VIII secolo il Re Liutprando aveva già fondato l’Abbazia di Santa Giustina presso Sezzadio, seguita intorno alla fine del X secolo, da un’abbazia benedettina fondata ad Acqui, di cui oggi le uniche tracce rimaste sono individuabili nella chiesa romanica di San Pietro, ben conservata. Altre abbazie sorgeranno nella prima metà del XII secolo sempre ai margini del territorio oggetto di studio, ad opera dei cistercensi (da Citeaux, in Borgogna, Côte d’or) come nel caso dell’Abbazia di Santa Maria Rivalta Scrivia, tra Novi e Tortona, oppure quella di Tiglieto (Pistarino, 1970). Retour au texte

5 Nell’Alto Monferrato Ovadese queste raccolte scritte di norme consuetudinarie, approvate dal dominus, signore del luogo, e sottoscritte dalla comunità, si collocano soprattutto tra il XIII e il XV secolo, in quanto le stesure più tardive non hanno fatto altro che codificare realtà giuridiche e socio-economiche in atto da secoli. La consultazione degli Statuti, però, costituisce soltanto una lettura trasversale che permette di cogliere e assemblare scarne notizie sulla coltura, estrapolate da un contesto e da un linguaggio giuridico ripetitivo e canonico che mira a definire soprattutto gli estremi del reato e della pena in caso di mancato rispetto delle regole di comportamento indicate negli statuti stessi. Ad esempio, gli Statuti di Ovada e dei comuni limitrofi (Silvano, Castelletto, Capriata, Lerma, ecc.) mirano soprattutto al controllo della produzione vitivinicola, esercitato dai “campari delle vigne”, nominati ogni anno dal Comune ed incaricati di difendere il raccolto pendente da metà estate fino a vendemmia avvenuta, controllando anche che non avvenissero furti o altre angherie a danno delle vigne. In secondo luogo gli Statuti avevano il compito di proteggere la commercializzazione del vino del luogo, impedendo l’introduzione di vino forestiero se non per uso familiare, senza la possibilità di farne commercio (Barba, 2001, p. 18). Retour au texte

6 Ad esempio, dalla ricognizione di oltre un centinaio di toponimi emerge che i termini riferiti alla pratica viticola, come terra vineata, terra filagnata, vigna, vineis, vites, ecc., appaiono in metà dei casi rinvenuti (Risso, 1993, pp. 92-93). Retour au texte

7 Una conferma di tale sviluppo si osserva anche in uno studio locale dedicato al territorio di Strevi, contiguo a quello di Acqui, al cui riguardo, se da un lato “per mancanza di documenti non è possibile calcolare l’estensione delle varie colture nel Medio Evo”, dall’altro si può affermare con sicurezza che “i boschi erano già limitati a poche zone eccentriche” e quindi la coltura della vite prevaleva ovunque; nel Cinquecento, invece, “sono documentate vigne in quasi tutte le odierne zone vinifere” (Scovazzi, 1923, 78). Retour au texte

8 Ad esempio, dai documenti notarili risalenti al 1576 emerge che nell’Acquese il proprietario di poderi è solito stipulare il contratto di mezzadria, riservandosi però l’uso esclusivo di una vigna (”le vite et filagni”), così come “tutti gli alberi e i salici della proprietà, indispensabili per l’approvvigionamento di pali, rami e vimini per le vigna stessa” (Panero, 1991, p. 118). Retour au texte

9 La tenuta della Centuriona costituisce un raro esempio di latifondo giunto sino ai giorni nostri sostanzialmente integro dopo quasi cinque secoli di storia, con possedimenti di terre coltivate non soltanto nell’area adiacente il palazzo-fattoria, fortezza e poi fattoria, ma anche nel comune di Voltaggio e in altre zone del comune di Gavi, tra cui quella di Rovereto, che oggi costituisce il “cuore” della zona vitata che oggi si fregia del marchio “Gavi” o “Cortese di Gavi”. La coltivazione dei terreni, in buona parte a vigneto, era affidata a massari, ossia contadini legati al proprietario da un contratto di “masseria”, una sorta di contratto di locazione in natura, commisurata ad una parte del raccolto (anziché il pagamento di un fitto in denaro), che, secondo le convenzioni dell’epoca e del luogo, prevedeva che le terre posta a semina fossero vangate ed arate nei tempi debiti e per quante volte ritenuto necessario, mentre nei terreni destinati alla viticoltura “i filari delle viti, i filagni come erano definiti in dialetto, dovevano essere potati, legati”, così come “era compito dei massari incassarli, vale a dire sistemare i filari con pali e pertiche, cavarli, ossia zappettarli e tenerli puliti”, ed ancora “garantire almeno dodici giornate di lavoro l’anno, o più, secondo le esigenze del padrone, per acconciare i grappoli d’uva tenendo puliti i fossati che delimitavano le vigne”. Inoltre, “dovevano trasportare a loro carico, ogni anno, direttamente alla Centuriona, la parte dei raccolti spettanti al padrone” secondo le quote previste dal contratto stesso. Infine, la produzione del vino doveva essere eseguita secondo l’uso generale della Centuriona, vale a dire “bollendo”, ossia fermentando il mosto per circa 15 giorni (Di Raimondo, 2004, pp. 59-61 e 75). Retour au texte

10 L’Archivio privato Durazzo-Giustiniani di Genova conserva la corrispondenza di fine Seicento, tra cui molte lettere in cui si indicano offerte e richieste di vini (soprattutto dolcetto, nebiolo e moscato) prodotti a Montaldo Bormida nei poderi del feudo acquistato da Barnaba Centurione di Genova nel 1635, la cui figlia Giovanna aveva sposato Gerolamo Spinola. Nel carteggio sono frequenti le espressioni di elogio e ringraziamento, che attestano l’elevato livello qualitativo della produzione locale raggiunto in quell’epoca ( Schiavina, 2013, p. 64). Retour au texte

11 Al circondario di Acqui appartenevano, oltre all’omonimo cantone (comprendente i territori di Alice, Bistagno, Castel Rocchero, Monastero, Montabone, Ricaldone, Strevi e Terzo), il cantone di Spigno (comprendente, oltre a Spigno, i territori di Piana, Cagna, Merana, Serole, Ponti, Castelletto d’Erro, Montechiaro, Malvicino), il cantone di Visone (comprendente, oltre all’omonimo territorio comunale, anche i territori di Ponzone, Rivalta, Castelnuovo, Orsara, Melazzo, Cartosio, Cavatore, Morbello, Grognardo, Cassinelle, Molare, Cremolino, Prasco, Morsasco, Trisobbio e Montaldo) ed il cantone di Castelletto d’Orba, comprendente i territori del comune omonimo e di altri comuni collinari vicini, ubicati sulla sponda destra dell’Orba (Montaldeo, Silvano, Mornese, Tagliolo, Casaleggio, Lerma e Belforte), nonché alcune località (San Cristoforo, Francavilla-Bisio, Tassarolo) della bassa valle del Lemme, situate nelle immediate vicinanze di Novi, e due sulla sponda sinistra dell’Orba (Rocca Grimalda e Carpeneto). Retour au texte

12 Con riguardo alla tecnica di coltivazione, nella “Statistica”, si legge anche che “in primavera si comincia a piantare la vigna e ad assicurarla con le canne, a maggio viene arata e poi sfoltita; ad agosto la si sfronda perché l’uva maturi più facilmente” (Chabrol de Volvich, 1824, p. 172). Nell’epoca della vendemmia i grappoli si portano nei tini senza separare le uve, e si lasciano fermentare per 8-10 giorni, dopo di che lo si travasa nelle botti. I raspi vengono poi passati nel torchio per farci il vinello. Le spese di coltivazione sono a carico del proprietario quando questi si riserva tutto il prodotto della vigna; in tal caso prende dei braccianti a giornata, dando loro il vitto e un piccolo salatio in denaro. Ai coloni, invece, spetta metà della vendemmia quando tutte le spese di coltivazione sono a loro carico (Ibidem, pp. 171-172). Retour au texte

13 L’opera del Gallesio è stata recentemente pubblicata in cd-rom (edizione ipertestuale), con riproduzione integrale dell’edizione stampata a Pisa con i caratteri dei Fratelli Amoretti, negli anni compresi tra il 1817 e il 1830, a cura di Massimo Angelini e Maria Chiara Basadonne (vedi Gallesio, 2004). Retour au texte

14 A spiegazione di ciò, nella monografia si legge infatti che le relazioni di Novi “erano per lo passato specialmente con Genova; ed a ciò vuolsi attribuire la prevalenza che vi avevano le uve bianche; per lo addietro i vini bianchi essendo in Genova i più ricercati. Ma ora, vuoi pel gusto combinato, vuoi per le nuove e più libere comunicazioni colla Lombardia, prevale anche in quei circondari la coltivazione delle uve colorare” (Demaria - Leardi, 1875, p. 51). Retour au texte

15 Con riguardo al decollo dell’industria dei liquori, in parte legati all’uso del vino, il Lavezzari aggiunge: “Ne qui dobbiamo dimenticare di fare lodevole menzione di Giuseppe Ferraris, il quale aveva cercato di introdurre la confezione del vermouth su vasta scala, producendo un notevole aumento nel prezzo delle nostre uve bianche, specie del moscato. Fu desso che, pel primo, tentò aprire un più largo spaccio all’ottimo prodotto de’ nostri vigneti, cercando di stringere relazioni coll’America, mandandovi, con grave dispendio, vini bianchi che, superate le difficoltà inerenti ad ogni produzione nuova per mercato sul quale viene offerta, incontrò generalmente il gusto de’ consumatori” (Lavezzari, 1888, p. 303). Retour au texte

16 Con riferimento a questa zona, si legge che i contadini: “ … raccolte le uve, le pigiano nelle bigonce e quindi le ripongono in botti che hanno un’apertura, al di sopra, che varia dai 30 ai 50 cm, dalla quale introducono l’uva con i suoi raspi insieme. Non riempiono totalmente le botti, ma lasciano un piccolo vano corrispondente a 2/18 del fusto, e formano, sopra il mosto, una graticella di legno, che impedisce ai raspi di galleggiare. … Finita la fermentazione tumultuosa, che dura circa otto giorni, chiudono ermeticamente il vaso, perché la seconda fermentazione abbia luogo senza il contatto dell’aria che farebbe inacidire il vino. Lo lasciano così quindici giorni, e quindi lo travasano. Il vino così si può dire già fatto. Talvolta lo smerciano prima di Natale, ma se non lo vendono, lo travasano nuovamente nel febbraio o nel maggio, e i più diligenti anche alla fine di maggio, prima dei calori intensi. Per il travaso sogliono preparare le botti con le sulfurazioni, al quale effetto usano introdurre una miccia di zolfo nella botte e ve la fanno bruciare dentro, quindi vi versano il vino usando brente e mastelli”. (Castiglioni, 1997, pp. 87-88). Retour au texte

17 In questa seconda zona, invece, si legge che “i contadini non usano riporre l’uva con i suoi raspi naturali, ma introducono questi nelle botti o nei tini prima del mosto, e avviene che in un vaso mettono più, in altro meno raspi, onde talvolta da un recipiente all’altro, malgrado la stessa qualità dell’uva, il vino ha un gusto differente” (Ibidem, p. 88). Retour au texte

18 A tal riguardo, il Tamburelli osserva che i contadini, “pigiata l’uva, introducono nelle botti il mosto pure e semplice senza graspi e senza bucce. I raspi li mettono sotto il torchio e il mosto che ne esce si fa passare attraverso un canestro di vimini appositamente preparato per impedire che altre sostanze si mescolino e il vino possa restare più limpido. Questo sistema è adottato specialmente nel Mandamento di Gavi, dove si fabbrica molto vino bianco. In diversi comuni dei Mandamenti di Gavi, Castelletto si fabbricano molti vini moscatelli, fatti metà circa con moscatello, e metà con mosto di cortese e altre uve bianche delle migliori. Lasciano bollire questa miscela al massimo per tre giorni, quindi la ripongono in sacchetti di tela molto spessa per filtrarla, appesi ad un legno posto sopra le bigonce: questa pratica dura tre o quattro giorni, quindi si ripone il vino così filtrato in botti. Dopo di ciò si può bere subito ed ha un sapore molto dolce. Questi vini ordinariamente si bevono prima di Natale e nell’inverno, e sono assai gustosi. Per conservarli oltre giugno bisogna riporli in bottiglie” (Ibidem, p. 89). Retour au texte

Illustrations

  • La viticoltura nell'Ovadese, zona del Dolcetto di Ovada

  • La viticoltura nell'Acquese, zona del Brachetto

  • La viticoltura nei pressi di Alice Bel Colle (Acquese), zona del Brachetto e del Moscato

  • La viticoltura nei pressi di Ricaldone (Acquese), zona del Brachetto e del Moscato

  • La viticoltura nella zona del Cortese (nei pressi di Gavi)

  • La viticoltura nella zona del Cortese (nei pressi di Novi)

  • Tab. 1 – Indicatori di “vitalità” vitivinicola in alcuni comuni dell’Alto Monferrato nel 1911
    * superficie vitata rapportata all’intera superficie comunale
    D =Dolcetto; Ms = Moscato dolce; C = Cortese; B = Barbera; N = Nerello; M= Moretto; L = Lambrusca.

    (Elaborazione dell’autore su dati dedotti dalla “Guida Vinicola della Provincia di Alessandria”, Casale Monferrato, 1911)

  • Tab. 2 – Distribuzione spaziale della superficie vitata nell’Alto Monferrato (1970-2010)

    (Elaborazione dell’autore su dati Cens. Agricoltura 1970, 1982 e 2000)

  • Tab. 3 – La superficie occupata dai vitigni tipici dell’Alto Monferrato e variazioni nel periodo 1975-2010
    * La superficie si riferisce all’Alto e Basso Monferrato della provincia di Alessandria
    (°) Disciplinare non ancora attivato nel 1975

    (Fonte: elaborazione dell’autore su dati desunti da CCIAA Alessandria, Albo Vigneti)

  • Tab. 4 – Le aziende viticole nell’Alto Monferrato e variazioni nel periodo 1975-2010
    * La superficie si riferisce all’Alto e Basso Monferrato della provincia di Alessandria
    (°) Disciplinare non ancora in attivazione

    (Fonte: elaborazione dell’autore su dati desunti da CCIAA Alessandria, Albo Vigneti)

  • Tab. 5 – Dimensioni medie delle aziende viticole nell’Alto Monferrato e variazioni nel periodo 1975-2010
    * La superficie si riferisce all’Alto e Basso Monferrato della provincia di Alessandria
    (°) Disciplinare non ancora in attivazione

    (Fonte: elaborazione dell’autore su dati desunti da CCIAA Alessandria, Albo Vigneti)

  • Tab. 6 – Distribuzione spaziale degli agriturismi (2005 e 2013) e dei B&B (2013)

    (Elaborazione dell’autore su dati desunti da Statistiche provinciali)

  • Tab. 7 – La dinamica del movimento turistico alberghiero nel periodo 2008-12.

    (Elaborazione dell’autore su dati Regione Piemonte, Osservatorio Turistico)

  • Tab. 8 – La dinamica del movimento turistico extra-alberghiero nel periodo 2008-12.

    (Elaborazione dell’autore su dati Regione Piemonte, Osservatorio Turistico)

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Référence électronique

Giuseppe Rocca, « La viticoltura nell’Alto Monferrato. Gli effetti sul paesaggio e sul turismo locale », Territoires du vin [En ligne], 6 | 2014, publié le 01 mars 2014 et consulté le 29 mars 2024. Droits d'auteur : Licence CC BY 4.0. URL : http://preo.u-bourgogne.fr/territoiresduvin/index.php?id=831

Auteur

Giuseppe Rocca

Ordinario di Geografia, Università degli Studi di Genova e Milano

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